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venerdì 24 giugno 2022

Quando il vero mostro è la società che ci circonda (Recensione “Sputnik – Terrore dallo spazio”)

Inizialmente programmato per esordire dapprima al Tribeca Film Festival del 2020 con una prima mondiale, successivamente nelle varie sale cinematografiche russe dal 16 aprile dello stesso anno e infine distribuito in on demand a causa della pandemia, “Sputnik – Terrore dallo spazio” (“Спýтник” in originale) è un drama-horror fantascientifico diretto da Egor Abramenko e sceneggiato da Oleg Malovichko e da Andrey Zolotarev.
La pellicola gira attorno a un cosmonauta russo di nome Konstantin Veshnyakov (interpretato da un bravissimo Pyotr Fyodorov) che, dopo essere atterrato di nuovo sulla Terra, insieme al compagno di nave deceduto inspiegabilmente, viene messo in quarantena in una base sovietica militare molto simile all'Area 51. A gestire la base troviamo il Colonnello Semiradov (un grande Fedor Bondarchuk), il quale ingaggia una giovane psichiatra di nome Tatyana Klimova (portata in scena magistralmente da Oksana Akinshina) per cercare di capire cosa sia successo al cosmonauta trovato morto e allo stesso Veshnyakov, tornato dallo spazio cambiato psicologicamente e con un “ospite” al suo interno.

Con questa sua opera prima Egor Abramenko dimostra sia di saper gestire un film di fantascienza come pochi, sia di saper andare oltre ai classici cliché da film horror fantascientifico: infatti, se da un lato la trama può vagamente ricordare il capolavoro di Ridley Scott del 1979 e altri classici del genere, dall’altro il film riesce a mantenere un'originalità e una freschezza che dimostra come sia possibile fare ancora oggi un film di questo tipo senza tuttavia cadere nel banale.
Il film ha un lato tecnico assolutamente di alti livelli: una regia eccezionale, precisa e calzante per la storia che deve narrare, una fotografia ben curata, sporca quando serve (ricordando appunto l'era sovietica), un cast eccezionale e un sonoro assolutamente perfetto composto sia da un'ottima gestione dei rumori e sia da una colonna sonora ben composta. L'unica colonna del lato tecnico che risulta essere di una qualità minore per quanto comunque più che decente è la sceneggiatura che arrivati sul finale cade un pochettino per poi rialzarsi subito dopo tornando sugli ottimi binari che caratterizzano buona parte del film.

La storia, per quanto semplice in certi punti, risulta essere un continuo crescendo sul livello delle emozioni quanto su quello della violenza, e proprio quest'ultima “esplode” durante l'ultima mezz'ora pur rimanendo non disgustevole, decisamente ben fatta. La pellicola è caratterizzata pure da un forte lato psicologico, che è presente fin dall'inizio, ma che di certo cresce fino al finale, dove riesce a toccare il cuore dello spettatore senza però snaturare l’atmosfera gelida che caratterizza il film, rappresentando un'unione sovietica ben curata e contestualizzata.
E se da un lato non possono mancare i parallelismi con altre opere cinematografiche, come quello tra il personaggio interpretato da Sigourney Weaver in Alien e la protagonista di Sputnik, basta poco per capire quanto i personaggi siano profondamente diversi: in questa terrificante avventura i personaggi rimangono unici e originali, ognuno caratterizzato (in vari gradi) da una scrittura ben mirata, che punta a riprodurre ruoli appartenenti ad una società ormai abbastanza lontana, o così pensiamo, dalla nostra. Infatti, nonostante la storia sia ambientata nel lontano 1983 in Unione Sovietica, il tutto riesce comunque a rimanere abbastanza attuale, permettendo al pubblico di poter riconoscere nei personaggi parti della società che ci circonda.

La scelta del periodo storico non è stata casuale né un semplice tentativo di aggregarsi al filone della nostalgia che ora va per la maggiore; infatti lo stesso regista ha ammesso di aver voluto ambientare gli avvenimenti nel 1983 per un motivo in particolare: Yuri Andropov era ancora a capo del governo, l'influenza della KGB era ancora molto rilevante e si era nella fase immediatamente precedente la Perestrojka, in quello che era considerato un periodo franco, una sorta di “terra di nessuno” che sembrava a tutta la produzione quella più adatta ad ambientare una storia simile.
Il look dell'alieno e gli effetti speciali, non solo in CGI ma pure in effetti pratici, sono ben realizzati e curati e ci regalano un design che, per quanto possa sembrare citazionistico a tratti, risulta essere originale e abbastanza bello da vedere.

Alla fine, il fatto più interessante e allo stesso tempo divertente che circonda “Sputnik” è quello di essere un film russo che osa criticare la stessa società russa contemporanea, non troppo lontana da quella raccontata (tralasciando l'unione sovietica, il KGB e compagnia). Il film è un'ottima avventura di fantascienza horror che riesce ad emozionare e a dimostrare come sia ancora possibile creare un ottimo prodotto di genere senza scadere nel banale o nel commerciale. Sicuramente consigliato a chiunque voglia vedere un prodotto di alta qualità che non richieda il cervello spento per essere apprezzato e che sappia raccontare una storia in grado di farti stare con il fiato sospeso fino all'ultima inquadratura.

ARTICOLO DI
REVISIONE DI
GIULIA ULIVUCCI

martedì 24 novembre 2020

In cerca di fantasmi (Recensione "Phasmophobia")

È risaputo che fin dal principio, l'uomo è stato affascinato da tutto ciò che non riusciva a spiegare. Ogni manifestazione naturale veniva da secoli inquadrata in canoni fisici stabiliti da medici e scienziati, ma esistono tuttavia delle anomalie, delle manifestazioni che risultano inesistenti o inspiegabili tramite il metodo scientifico... L'esistenza dei fantasmi è proprio una di queste.

La scienza non si pronuncia sull'attendibilità di queste manifestazioni, ma c'è qualcuno che si impegna a studiare e dimostrare l'esistenza dei fantasmi: i cosiddetti "ghost hunters".

Phasmophobia è un indie horror psicologico sviluppato da Kinetic; è stato rilasciato il 18 settembre 2020 e vede coinvolti quattro giocatori che rivestiranno i panni di un team di investigatori del paranormale. Nonostante sia abbastanza recente, sembra abbia già attirato l'attenzione di molta gente, interessata dagli spettri.

Il gameplay è abbastanza semplice: il gioco ci porterà all'interno di una serie di case infestate in modo da scoprire come siano morte le persone che vi ci abitavano. Avremmo a disposizione un libro di appunti sulle differenze tra i vari fantasmi (registrati in diverse categorie), ed assieme ai nostri amici, saremo in grado di entrare nelle case con torce, crocifissi e altri strumenti per cercare di svolgere al meglio ciò che il gioco richiede.

Nonostante il nome dell'opera richiami principalmente i fantasmi, le tipologie di presenze che infestano le case o tutti gli altri ambienti di Phasmaphobia sono tantissimi: dagli Spiriti e Poltergeist si arriva alle Banshee, passando addirittura per Demoni ed Oni. L'obiettivo perciò non sarà quello di uccidere i mostri presenti, ma bensì si dovranno ottenere delle prove della loro esistenza per riportarle al quartier generale, all'esterno delle località che esploreremo. Per farlo, dovremo usare vari strumenti differenti: le classiche torce e candele, tavole Ouija e molti altri.

Come ogni multiplayer, Phasmophobia si affida completamente sulle abilità dell'utente, che si perfezioneranno col tempo. Prendere familiarità con le meccaniche di gioco ci aiuterà a far fronte alla proceduralità che contraddistingue il gioco, dal momento che i livelli saranno impossibili da memorizzare, essendo tutti diversi tra loro.

Sfortunatamente la reattività dei comandi, delle animazioni e delle interazioni non è proprio delle più fluide, ma visto che il gioco si basa più che altro sulla tensione, qualche incertezza tecnica non affievolisce troppo l'atmosfera del titolo. 

Un problema che potrebbe risultare più fastidioso è invece l'abbinamento con giocatori non troppo collaborativi, ma il gioco prevede comunque la possibilità di collegarsi con amici e rendere il tutto decisamente più divertente.

In conclusione, la forza di Phasmophobia si avverte nella cooperazione, nel sentire l'avvicinamento del fantasma, nel cogliere, nella distorsione della radio, il segnale dell'arrivo dell'essenza maligna. Mettersi a chiamare il nome di una persona morta e poi vedere un'ombra saettare furtiva per le pareti illuminate dalla torcia, potrebbe essere decisamente un'esperienza in grado di far gola a un buona fetta di appassionati del genere, che grazie a questo titolo si ritroveranno a vestire i panni di un Ghostbuster professionista.

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martedì 17 novembre 2020

La fine di un'era (Recensione "Tremors: Shrieker Island")

Tremors è una saga incredibile. Il primo capitolo, cult assoluto degli anni ’90 con protagonisti Kevin Bacon e Fred Ward, fu un flop nei cinema ma un successo straordinario nel mercato delle videocassette. Quell’irresistibile commistione di horror, commedia, avventura e western fece breccia nel cuore dei fan e rese la pellicola di Ron Underwood uno dei cult più amati e divertenti degli anni ’90. Dal successo del primo film è nata una piccola saga che, negli ultimi trent’anni, ha saputo divertire e appassionare diverse generazioni. Merito di una formula vincente (mix di horror e commedia), mostri sempre più assurdi, qualità sempre alta di ogni capitolo e soprattutto lui, il mitico Burt Gummer: il paranoico ed eroico baffuto patito di armi interpretato da Michael Gross è l’unico personaggio apparso in tutti i film della saga ed è ormai entrato nella leggenda, diventando protagonista e mattatore assoluto della serie. E, a distanza di trent’anni e pur essendo ormai anzianotto, continua a spaccare come non mai.

I creatori originali del primo film, ovvero il team della Stampede Entertainment, si sono occupati della realizzazione dei successivi tre sequel, tutti di ottimissima fattura. Dopo "Tremors 4" la saga sembrava destinata a non proseguire, nonostante la volontà della Stampede di produrre un quinto film ambientato in Australia. Per molti anni, dunque, i vermoni sono rimasti in letargo nelle viscere della terra. Fino al 2015, quando nel mercato home video ha fatto capolino "Tremors 5: Bloodlines" di Don Michael Paul, quinto capitolo della saga che ha visto il ritorno di Michael Gross come Burt, affiancato da un simpatico Jamie Kennedy (il Randy di Scream) nei panni di suo figlio Travis. “Tremors 5”, ambientato in Africa, ha rappresentato una vera e propria rinascita per la saga, che dopo 12 anni e una lunga attesa da parte dei fan ha avuto nuova vita in questi ultimi anni. “Bloodlines” è stato il primo capitolo del franchise a non vedere coinvolti i ragazzi della Stampede, e la cosa purtroppo si è fatta un po' sentire. Tuttavia ha dato una ventata d’aria fresca alla saga, rivelandosi un buonissimo film e guadagnandosi i consensi necessari per produrre un sesto capitolo, “Tremors: A Cold Day In Hell”, uscito nel 2018. Oggi, a trent’anni dal leggendario capostipite, siamo qui per parlarvi del settimo capitolo della saga sui vermoni carnivori: “Tremors: Shrieker Island”. Diretto ancora una volta da Don Michael Paul, il film fu annunciato poco dopo l’uscita di “Tremors 6”, con grande entusiasmo dei fan. Chi se lo sarebbe mai aspettato che sarebbero arrivati ad un settimo film? Ma andiamo con ordine.

La trama vede un ricco filantropo miliardario, Bill Davidson (interpretato dal grande Richard Brake), che decide di importare illegalmente dei Graboid sulla propria isola privata e di modificarli geneticamente per potenziarne le abilità predatorie e organizzare una caccia selvaggia all’insegna del brivido. Non passerà molto tempo prima che le creature si trasformino in Shrieker e comincino a terrorizzare una piccola isola su cui risiede un’equipe di scienziati, tra cui Jasmine, Jimmy e Freddie. Quando i vermi cominciano a mietere le prime vittime, Jasmine chiede a Jimmy di trovare l’unico uomo in grado di aiutarli a distruggere le creature: il nostro Burt Gummer, che ora si è ritirato e vive come un eremita su un’isoletta della Papua Nuova Guinea. Burt all’inizio è riluttante e non ne vuole più sapere di dare la caccia a forme di vita precambriane, ma non riesce a tirarsi indietro e decide così di partire per questa nuova avventura. Tra amori ritrovati, sangue e caccia nella giungla, Burt dovrà collaborare con i nuovi personaggi per fermare la folle caccia di Bill, uccidere tutti gli Shrieker prima che si trasformino in Ass-Blaster, distruggere un enorme esemplare di Graboid geneticamente modificato e porre fine, forse una volta per tutte, al regno di terrore sotterraneo dei vermi carnivori.

Diciamolo subito: “Tremors: Shrieker Island” è un buon film, il migliore dopo i primi quattro capitoli originali e superiore sia al quinto (ma di poco) che al sesto. Non è una pellicola perfetta, si porta dietro i soliti difetti di Don Michael Paul (come qualche scena d’azione un po' confusa ed un uso a volte esagerato dei rallenty) e l’atmosfera unica e artigianale dei primi quattro capitoli curati dalla Stampede difficilmente può essere replicata. Ma è un film divertente, ben fatto, rispettoso della saga e che, soprattutto, ha molto, moltissimo cuore. È un film fatto da fan per i fan, una pellicola che avrà un impatto ed un valore particolarmente speciali solo per chi ha seguito con passione le avventure di Burt e dei vermoni nel corso di questi ultimi trent’anni. Diciamolo pure: a livello concettuale, “Tremors: Shrieker Island” è un po' l’Avengers: Endgame della saga di “Tremors”. 

I primi cinquanta minuti del film sono incredibili e folgoranti: si parte da un prologo adrenalinico che ci introduce nella nuova location tropicale che farà da sfondo a questa settima avventura, per poi proseguire con la presentazione dei nuovi personaggi, l’introduzione del nostro Burt (che all’inizio del film vediamo ritirato in modalità “selvaggia” su un’isola deserta, con tanto di folta barba alla Tom Hanks in “Cast Away”), i primi attacchi delle creature, il tutto condito da una buona dose di mistero ed un tono un po' più cupo e horror rispetto agli altri sequel (pur non mancando la solita ironia che ha sempre contraddistinto la saga). Insomma, la prima metà di “Shrieker Island” sorprende, appassiona e ritorna un po' alle origini, rivelandoci i mostri poco per volta e creando un clima di tensione e minaccia incombente molto forti. 

Purtroppo, nella seconda metà, il film cala un po' di ritmo: c’è qualche lungaggine di troppo, i vermoni non si vedono molto e il tutto diventa più “statico” e meno dinamico. Da questo punto di vista, “Shrieker Island” è molto simile, come struttura, al quinto capitolo della saga, “Bloodlines”, il quale anch’esso vantava un primo ed un terzo atto eccezionali ma una seconda metà un po' meno incalzante. Comunque, il film risulta sempre di intrattenimento e nel finale si riprende alla grande.

Un elemento interessante di questi nuovi capitoli è la varietà di ambientazioni: dopo la trasferta africana in “Tremors 5” e la tundra innevata canadese in “Tremors 6”, ecco che “Tremors 7” ci trasporta in un’isola tropicale lussureggiante e dalle molteplici bellezze naturali. Il film è stato girato in Tailandia e il regista sfrutta al meglio le potenzialità di questa nuova ambientazione esotica, che ricorda l’Isla Nublar di Jurassic Park e la giungla di Predator, entrambi film che Paul si diverte a citare in più momenti. I paesaggi naturali, gli animali e la foresta impreziosiscono questo capitolo e lo rendono molto bello da vedere, anche grazie all’ottima fotografia del veterano dei b-movies Alexander Krumov. È incredibile pensare che dall’arido deserto del Nevada si sia approdati ad una giungla tropicale, ma questa varietà di ambienti rende i vari capitoli diversi tra loro e giustifica alcuni cambi di look delle creature.

E a proposito dei nostri vermoni, come si comportano in questo film? Fin dall’annuncio del titolo i fan sono andati in visibilio per il ritorno degli amatissimi Shrieker, le creature bipedi sensibili al calore introdotte nel bellissimo “Tremors 2: Aftershock”. Gli Shrieker, come i fan ben sapranno, rappresentano il secondo stadio del ciclo vitale dei Graboid ed erano assenti nella saga dal terzo capitolo. Fa piacere rivederli dopo tanti anni e, pur non comparendo molto, fanno davvero la loro porca figura. Il loro design è stato un po' rinnovato (come successo con i Graboid e gli Ass-Blaster africani) ma fortunatamente non si discostano troppo dalle creature che abbiamo imparato a conoscere e amare dal secondo film. Hanno un aspetto molto minaccioso e preistorico (il cranio scheletrico ricorda gli Strisciateschi di “Kong: Skull Island” o il Pokèmon Cubone), sono davvero cattivi e posseggono un’abilità inedita che è una simpatica aggiunta alle caratteristiche di questa nuova e riuscita variante di Shrieker. Inoltre, i mostriciattoli bipedi sono protagonisti di una bellissima scena all’interno di una grotta, a mani basse la migliore sequenza del film ed uno dei momenti più divertenti dell’intera saga.

Discorso diverso per i Graboid: questo è forse il capitolo in cui i nostri amati vermoni “brillano” di meno. Non compaiono molto e, vista la premessa e la presenza di un Graboid alfa dalle dimensioni godzillesche, ci si aspettava un po' di più. Ma non importa, sono comunque realizzati ottimamente (come sempre) e bisogna tenere in considerazione che il budget di questi film è relativamente contenuto. Inoltre, nel finale, c’è un bel richiamo al primo capitolo che farà sicuramente battere il cuore ai fan.

Ma Tremors non è Tremors senza dei personaggi simpatici, tosti e pronti a tutto per fronteggiare le creature. “Shrieker Island” non fa eccezione. Tra l’altro, tra tutti i sequel dai tempi del secondo, questo settimo è quello con il cast più interessante e altisonante. I nuovi personaggi sono tutti ben caratterizzati e ottimamente interpretati, a partire da Jon Heder (il mitico Napoleon Dynamite), che interpreta Jimmy, la nuova spalla di Burt. Jamie Kennedy, purtroppo, non ha ripreso il ruolo di Travis che aveva rivestito in Tremors 5 e 6, ed è un po' un peccato perché l’alchimia tra lui e Burt era davvero divertente e funzionale. Ma Heder non fa rimpiangere il suo predecessore, regalandoci un personaggio che da scienziato nerd piuttosto tranquillo dovrà rimboccarsi le maniche e sporcarsi di sangue arancione. Molto divertente la sua ossessione con i film anni ’80 come “Predator” e “La Casa”. Ottima anche Jackie Cruz (vista in “Orange Is The New Black”) nei panni di Freddie, una scienziata tostissima, coraggiosa e che diverte per il suo essere una fan accanita di Burt. Come biasimarla?

Sempre ottimo il grande Richard Brake, attore caratterista visto in molti film di Rob Zombie (“Halloween 2”, “31”, “3 From Hell”) e in moltissimi altri film di genere e non solo. Brake si deve essere divertito come un pazzo a interpretare Bill, personaggio che all’inizio si presenta come antagonista della storia, ma che in realtà è “solo” ossessionato dall’idea di terminare la sua caccia selvaggia e uccidere tutte le creature per puro divertimento. Lo vedremo precipitare nella follia più totale minuto dopo minuto e il volto di Brake non fa che valorizzare questo personaggio eccentrico e volutamente sopra le righe. Molto brava anche Cassie Clare nei panni di Anna, l’arciera aiutante di Bill che presto cambierà fazione aiutando nostri protagonisti a sconfiggere i vermoni. Un personaggio tostissimo interpretato da un’attrice molto promettente.

Da menzionare anche la bravissima Caroline Langrishe, attrice inglese che qui riveste un ruolo molto importante e che ha a che fare direttamente col passato di Burt. Ma non vi sveliamo nulla, godetevi le varie sorprese che il film riserva.

E poi, ovviamente, c’è lui: Michael Gross, il grande Burt Gummer. “Tremors: Shrieker Island” è, a tutti gli effetti, il film di Burt. Qui il nostro personaggio viene elevato a livello di un supereroe, un mito, un’icona assoluta. Lo vediamo in situazioni inedite, sempre col suo solito carisma che ha saputo far innamorare i fan di questo personaggio così eccentrico, paranoico e irresistibile, un paramilitarista che si prende sempre sul serio ma dal cuore buono e gentile, sempre pronto a dare una mano e ad aiutare le persone a cui vuole bene. Inoltre, in questo film, per la prima volta Burt non avrà le sue amate armi da fuoco per fronteggiare i vermoni, dato che l’isola ne è sprovvista. Dovrà quindi fare ricorso ad armi più “primitive” (come lanciafiamme, machete e coltelli) e, soprattutto, all’ingegno e al lavoro di squadra, due qualità che la saga di “Tremors” ha sempre avuto al centro delle sue storie e che questo “Shrieker Island” fa proprie come motore pulsante della narrazione. 

Ma ciò che colpisce di più di “Shrieker Island”, ciò che davvero rappresenta il cuore del film e che eleva la pellicola di diversi punti, è il finale. Senza fare spoiler, si tratta di un epilogo intenso, inaspettato, coraggioso, commovente e che regalerà forti emozioni ai fan di lunga data. Un finale che sembrerebbe concludere un’epopea iniziata ormai trent’anni fa, ponendo fine, per il momento, a questa divertentissima saga che è entrata nel cuore di molti. Almeno fino al prossimo tremore…

Purtroppo non c’è ancora una data per l’uscita italiana in home video di questo settimo capitolo, il che è curioso perché i film della saga sono sempre arrivati da noi. In diverse aree del mondo è già disponibile ma qui bisognerà forse aspettare ancora un po'. Se siete impazienti potete comunque trovare il DVD e Blu-Ray esteri, di ottima fattura e con interessantissimi contenuti extra (tra cui un piccolo documentario sulla leggenda di Burt Gummer). Guardatelo armati di pop-corn, birra…e magari anche qualche fazzoletto.
 

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RICCARDO FARINA

sabato 1 agosto 2020

L'Horrorcore rinasce in Sardegna tra esoterismo e metal (Intervista a DubZenStep)

Abbiamo già ospitato DubZenStep in passato, intervistandolo circa il suo primo album The Suicide Box (che potete ascoltare da noi). Il 2020 è stato, però, un album pieno di novità per l'artista sardo, a partire dal suo nuovo album, Inner Circle. Ma lasciamo parlare lui.

Q: Dopo Joe Meredith anche tu sei tornato sul sito in occasione del tuo nuovo album. Cosa è cambiato da allora? 
A: Ciao Robb, un piacere essere di nuovo qua. Da “The Suicide Box” son cambiate talmente tante cose che potrei scriverci un volume a parte, sul serio. Ci son stati eventi che hanno inciso sulla nascita di Inner Circle, eventi per i quali ho accumulato rabbia, nevrosi e angoscia che ho convertito in musica, letteralmente. Inoltre c’è stata una pandemia di mezzo che ha aiutato a scrivere una buona parte dell’album. Ho scritto quest’album con uno spirito diverso, forse addirittura più nero, rispetto a TSB.
Q: Inner Circle è un album sicuramente più maturo rispetto al precedente e le influenze metal sono sempre più evidenti: puoi raccontarci lo sviluppo di questo nuovo disco? 
A: Ho scritto e sviluppato questo lavoro in modo discontinuo, ma comunque in due macro fasi: pre-quarantena e quarantena. Due periodi diversi nel quale ho ascoltato e soprattutto letto cose diverse e in grandissima quantità. In questo lavoro c’è tantissimo malessere e tantissima Sardegna, quella antica e occulta che sta fuori dai teleschermi. Molti testi sono il frutto di letture e studi personali, come per esempio Julia e Accabadora. Ma non solo: nell’album i maggiori protagonisti sono la morte e il Diavolo, presenti ossessivamente in ogni traccia e ispiratori diretti dell’album, romanticamente parlando.
Elencare tutte le influenze musicali sarebbe un’impresa titanica, ma mettiamola così: ho cercato di far convergere un sound duro e distorto con dei testi rap ragionati, tecnici e con un senso compiuto, almeno per me. 

Q: In "Brenda" vi è un curioso feat, quello con White Lupara, il tuo altro pseudonimo musicale, perché questa scelta di non collaborare con un altro musicista?
A: Tecnicamente “Brenda” doveva essere un pezzo per White Lupara, lo si può intravedere dal riff principale, dal ritornello e dall’outro. All’inizio doveva essere un brano Post/Math Rock, pesantemente influenzato da “Millions Now Living Will Never Die” dei Tortoise e da Il Vile” dei Marlene Kuntz, due pietre miliari assolute per me. A un certo punto però, mentre sperimentavo, ho stravolto il lavoro e ho creato quella strumentale scrivendo contestualmente anche il testo di Brenda. Pian piano quindi il brano ha preso forma e White Lupara e DubZenStep si sono incontrati e fusi indissolubilmente. È in quel momento che è nato il feat con me stesso. Può sembrare strano, ma per come vivo interiormente i due progetti ha perfettamente senso (ride).
Q: A questo punto parliamo di White Lupara (di cui il primo EP è ascoltabile in streaming qui sul sito), altro tuo progetto: come nasce e quali progetti sono in serbo? 
A: Bella domanda. White Lupara è il mio lato più acustico, intimo e metafisico, musicalmente parlando. Non ti saprei dire nemmeno quando è nato di preciso, ma ho scritto l’EP omonimo contestualmente a TSB. Ho composto tutti quei brani in momenti di totale isolamento e, anche se sembra che parlino d’amore, trattano tematiche legate alla psicologia. Il tema ricorrente, ben nascosto tra le righe, è il rapporto tra ciò che siamo esternamente e la nostra interiorità. Ognuno di noi è un fottuto bugiardo del cazzo che recita una parte. Ci facciamo un culo così per crearci un’immagine “da vendere” agli altri, indossando una maschera per l’appunto, ma in realtà siamo tutt’altro. E la coscienza ogni tanto ce lo ricorda anche se a noi non piace. Carl Gustav Jung riflettendoci bene è un ispiratore involontario dell’album. 
Al momento non ho nessun album in programma e non so se mai ne farò un altro, ma ho parecchio materiale su cui lavorare. Su White Lupara ci sarebbe un casino di roba da dire, tipo sulla scelta del nome, sulla copertina dell’album, sulla storia di ogni brano e sulle influenze musicali, ma magari ne parliamo nella prossima puntata.

Q: Ultima Pregadorìas e Præphica sono due tracce black metal assolutamente folli, del tutto inaspettate in un album rap, ma più che gradite: ce ne puoi parlare? 
A: Questi due brani sono frutto di tanto  Black e Drone Metal e sono stati concepiti mentre facevo delle ricerche inerenti al lato più oscuro ed esoterico della Sardegna antica. L’unione di questi fattori ha fatto sì che nascessero quelle due tracce, che potrebbero essere prese per degli specie di skit, ma in realtà non lo sono. Sono parte integrante del processo creativo che mi ha portato a definire Inner Circle. I testi sono in lingua sarda e il sound è volutamente grezzo e, se vogliamo, disturbante, ai limiti dell’orecchiabile. Sono brevi, intime e nevrotiche e hanno odore di morte. Digrignavo i denti mentre le producevo.
Q: "Julia" è forse il cavallo di battaglia del tuo album, se ne sta parlando nel web ed è sicuramente uno storytelling forte e ben realizzato: qual è la vera storia della strega di cui narri? Come è nata l'idea di narrarne la storia?
A: Vengo da un posto per certi versi oscuro e dimenticato da Signore, ma allo stesso tempo pieno di storia e storie da raccontare, tra cui quelle dell’Inquisizione spagnola in Sardegna. Il brano si ispira a una di queste, quella di Julia Carta (il vero nome della protagonista), una strega proveniente dal mio paese la cui storia processuale tra le maglie dell’inquisizione è durata un decennio. L’idea di scrivere Julia è nata dopo aver letto un bellissimo libro del professor Tomasino Pinna al riguardo nel quale, tra l’altro, vi è tra la trascrizione e la traduzione degli atti processuali. È una storia assurda piena di dettagli macabri e demoniaci che raccontano un periodo perverso e buio della mia terra. Cercare di riassumere questa storia con tutti i suoi elementi non è stato facile. Nella storia originale lei scampò al rogo e di lei non si seppe letteralmente più nulla, mentre io ho riadattato il finale rendendolo più teatrale.

Q: C'è qualche altra leggenda sarda di cui vorresti parlare in tuo pezzo? 
A: Certo! Non saprei da dove partire da quante ce ne sono! Ho buttato giù un’idea per un pezzo che parla del “riso sardonico” unito alla pratica del geronticidio durante l’età nuragica. Una roba assurda e violentissima. Fatti un giro su internet per scoprire di cosa sto parlando. Al momento sto facendo ricerche al riguardo per avere un quadro rigoroso e affidabile. Un giorno magari ne parlerò su questo sito.
Q: Ritagliamoci un angolino anche per parlare del tuo Quarantena Freestyle, sicuramente degno di nota ed uno dei pochi originali tra i tanti stornati, ottimo esempio della tua metrica: ce ne puoi parlare?
A: Quella roba la mi fa incazzare. Ho fatto il Quarantena Freestyle prima che la scena mainstream lanciasse la challenge del Covid Freestyle, vatti a vedere le date (ride). Comunque a parte gli scherzi, era appena iniziata la quarantena e quel giorno ho aperto il progetto di quel beat dopo mesi. Una strumentale prodotta e dimenticata nei meandri del PC. Sta di fatto che quel pomeriggio ho iniziato a cazzeggiarci su, e tra una cosa e l’altra, dopo qualche ora avevo il brano finito tra le mani, registrato e caricato su web. Tutto di getto, non me ne sono nemmeno accorto. 

Q: Parliamo della parte tecnica ora: le basi come sono state composte, specialmente nelle parti con i samples di canti? Come scrivi i testi e come consiglieresti a chiunque di approcciarsi alla scrittura rap/musicale? 
A: In genere non seguo nessun tipo di regola quando compongo e mi lascio andare totalmente. Ho la fortuna di avere un po’ di attrezzatura e passo molte ore a suonare, registrare e campionare suoni. Quando qualcosa mi suona bene, sviluppo la strumentale intera assieme al testo ed è così che nasce un brano solitamente. È un’alchimia strana: compongo, scrivo, suono e registro tutti gli strumenti da solo e produrre una traccia è un po’ come trovare l’equilibrio. Una sorta di meditazione nel quale bisogna dosare ogni ingrediente con sensibilità. Tra questi ingredienti appunto ci sono i samples di voce che faccio con una loop station. Per questo motivo io sono assolutamente contrario al comprare beats plastici da sconosciuti e rapparci sopra due puttanate: ogni strumentale per me deve avere una storia e ciò incide anche sulla scrittura del testo.
Un consiglio che mi sento di dare? Non avere paura di esprimersi artisticamente ed essere se stessi. Inoltre ogni buon testo nasce da una buona knowledge. Leggere e ascoltare molta musica secondo me stimola la creatività, fa evolvere lo stile ed il linguaggio, ma soprattutto aumenta la sensibilità musicale. Quest’ultima è un fattore molto importante.
Q: Ultima domanda: ora che ci sarà? Come evolverà DubZenStep in futuro?
A: Ho moltissime idee in testa, ma al momento la mia vita è talmente incasinata e incerta che non so dirti nulla circa il futuro del progetto. Per adesso sono alla ricerca di musicisti con la mia mentalità per suonare un po’ in giro per l’Italia nel 2021 e spero tanto di riuscirci.

INTERVISTA DI
Potete seguire l'artista su Facebook, Instagram, Spotify, Youtube e Bandcamp.

mercoledì 29 luglio 2020

L'Italia che fa paura - Una donna nel buio (Recensione "Malum Æterni")

Notte, buio, luna piena. Un’auto attraversa le tortuose strade di un paesino di montagna. Un incontro rompe il silenzio di quel luogo, cambiando per sempre il destino di Luca. 

Malum Æterni è il primo cortometraggio horror del regista italiano Luigi Scarpa. Il film trae ispirazione dalle leggende del Cilento, più precisamente nel borgo di Gioi, che negli anni hanno contribuito nel dare alla località un certo fascino misterioso. Nel 2007, il regista lavora nel settore audiovisivo in seguito agli studi di cinema, teatro e televisione nell’università statale di Milano. Dopo essere entrato nel settore musicale come DJ e aver diretto un documentario, nel 2019 scrive e dirige il suo primo corto cinematografico, appunto, Malum Æterni.
Dopo una breve sequenza in pieno giorno, che si apre con una interessante ripresa da un drone, si passa ad uno scenario notturno che vede una macchina camminare in piena campagna. Il  nostro guidatore, Luca (Riccardo Marotta), fa la conoscenza di una misteriosa donna chiamata Lia (Rita Russo), tipa di poche parole che si fa dare un passaggio.

Malum Aeterni è girato ottimamente, con alcune inquadrature interessanti, ma non per questopquesto di pecche: alcune ricorrono ripetitivamente e forzatamente di visuali dall’alto, nonostante tutte ben eseguite, mentre altre appaiono troppo scure a causa della scarsa luminosità, nonostante quest'ultimo fattore potrebbe esser giustificato ai fini dell'atmosfera. Proprio su questa non vi è davvero nulla di negativo da dire, vi è un'eccellente costruzione della tensione ed un buon plot device per giustificare le azioni di Luca senza forzarlo in alcun modo. In generale lodevole il lavoro del direttore della fotografia Vittorio Maggioni, specialmente per le luci nella sequenza in auto. Rosalba Ruggiero e Anna Pagano svolgono un buon lavoro col makeup, nonostante possa apparire, ad un'attenta analisi, leggermente amatoriale rispetto al resto. 
Dietro le quinte del cortometraggio
Passando ai personaggi, sia Luca che la donna misteriosa, sono stati bravi nell’interpretare i propri ruoli, nonostante fossero limitati dalle pochine battute, specie da parte di Lia. Riccardo Marotta riesce comunque a rendere il personaggio simpatico allo spettatore con i suoi modi, i suoi gesti e le microespressioni assai realistiche, qualcosa che, in effetti, si vede di rado in certi cortometraggi di genere. Peccato che, però, per qualche attimo, entrambi gli interpreti sembrino perdere la concentrazione nella scena finale con alcune movenze un po' artificiali che sarebbero potute essere evitate.

Impossibile non sprecare due parole sulla colonna sonora originale di Lorenzo Pisanello, in piena linea con quelle della tradizione horror, italiana e non, della decade in cui ha luogo il film. Probabilmente senza di essa la pellicola perderebbe gran parte del suo fascino e ne risentirebbe pesantemente il clima di tensione permea l'opera.
Il regista Luigi Scarpa sul set
Il finale è abbastanza benfatto, ma poteva essere gestito molto meglio. Non è il caso di rivelare troppo, ma appare un po’ frettoloso, mentre la ripresa su Lia è fin troppo dilungata. La scena con le bambine era davvero carina, peccato solo per la transizione troppo netta mentre avviene quel ‘fatto’ (nessuno spoiler).

Di per sé la storia non è male, ma forse troppo basilare: è qualcosa che si vede abbastanza spesso in short-movies come questo, con l’unica eccezione che a differenza di altre produzioni, l’opera di Luigi Scarpa vanta di ottime riprese e di degni attori che potrebbero far chiudere un occhio su questo fronte.
In breve, Malum Æterni è un buon prodotto che, nonostante qualche pecca, è girato in modo intelligente e professionale. La recitazione è davvero ottima e la storia, nonostante sia un po’ anonima, intrattiene e appare interessante. Il finale può apparire raffazzonato e leggermente casuale, ma, tutto sommato, si tratta di un corto di buona fattura, ancor di più se contestualizzato nel suo panorama, che non può che render curiosi di vedere le future opere di questo promettente regista.

ARTICOLO DI
Potete visitare il sito web del regista per scoprire di più su Malum Æterni.

lunedì 29 giugno 2020

La nascita di un nuovo virus - Orrori viscerali e blasfeme mutazioni (Recensione "Variant" di Joe Meredith)

Abbiamo visto con i nostri occhi gli effetti di una pandemia, abbiamo temuto e tuttora lottiamo. Ma se il virus che avremmo dovuto combattere non solo avesse potuto ucciderci, ma anche dar vita ad abomini extraterrestri? Questa risposta ci è fornita dal mediometraggio di 41 minuti "Variant", un film del 2020 del regista Joe Meredith (intervistato da noi qui), terzo capitolo della trilogia iniziata con "South Mill District" e continuata con "Teratomorph", già trattati in passato sul sito.
Sulla falsa riga del primo capitolo, la trama non appare chiara e non è davvero lineare, risultando essere più un pretesto narrativo per mostrare allo spettatore gli orrori del mondo creato da Joe Meredith che un modo per narrare una singola vicenda dal suo inizio sino ad un epilogo che, in questo caso, come nei precedenti, appare estremamente aperto. Il mondo della pellicola, per chi non ne fosse familiare, è un mondo che, a seguito di un virus alieno chiamato Havoc, è abitato da mutanti nati dagli esperimenti della EonCorp, rinchiusi in dei ghetti appositamente adibiti al loro contenimento, abbandonati al loro destino, esattamente come visto in "South Mill District". La creatura nata al termine del secondo film, però, rappresenta la nascita di una nuova minaccia, e genera un nuovo virus capace di riportare in vita e mutare persino i morti con il liquido che secerne. Un'interessante aggiunta è una forza d'Insurrezzione che vuole porre fine ai temibili esperimenti della EonCorp e che svolge il ruolo di protagonista effettivo di quest'ultima opera, aggiungendo un tassello interessante e realistico al mosaico del mondo di Meredith. 

Come di consueto, il punto di forza del film, però, sono proprio le terrificanti creature che ci vengono presentate, sempre più dettagliate e meglio rese, risultando davvero organiche, grottesche e credibili nonostante il loro mostruoso aspetto spesso altamente improbabile. Gli effetti speciali, quindi, si rinnovano ulteriormente rispetto a quelli, già di pregevole fattura, di "Teratomorph", e rendono l'esperienza ancora più viscerale ed intrattenevole, grazie, specialmente, alle sequenze di trasformazione, prima tra tutte quella finale, dal forte impatto visivo e dalla realizzazione eccellente, nonostante una scena in cui degli occhi saltano fuori dalle orbite in maniera non del tutto convincente e con un trucco abbastanza amatoriale che non potrà che ricordare quello di un film d'epoca, nonostante, nel complesso, la scena risulti assai impressionante. Altra scena assai interessante è quella della rianimazione del corpo che, nonostante i "tubi" che gli escono dagli occhi non propriamente convincenti ad una prima occhiata, risulta una trovata assai interessante. Addirittura, in certi momenti, pare di star osservando vera carne messa al macello, costellata da insetti vivi che se ne cibano e ricoperta di sangue "vivo" e realistico, ammesso e non concesso che non si tratti di vero sangue animale, regalando allo spettatore un nauseabondo spettacolo tanto disgustoso quanto affascinante ed ipnotizzante. 
La regia di questo mediometraggio risulta più matura e studiata, con un Meredith che si diverte a giocare con le varie angolazioni e che ci dona scene davvero molto inquietanti e perturbanti anche solo per l'approccio con cui ci si relaziona: anche una scena di una ragazza in un ascensore genererà ansia allo spettatore, sia grazie al  modo in cui la camera segue il soggetto sia grazie alle luci, nuovamente al neon. Questa volta, per giunta, l'interità del film avrà effetti glitch e l'offuscato di una vecchia VHS, dando allo spettatore la sensazione di star osservando un film d'epoca ritrovato, rendendo la visione di certi effetti speciali, sempre e comunque pratici, ancora più d'effetto. Ottime anche le luci delle scene all'aperto, che siano diurne o notturne. Le ambietazioni risultano invece, nuovamente, claustrofobiche ed anguste, nonostante la loro facciata quasi familiare, riescono anch'esse a turbare lo spettatore suggerendogli che qualcosa non vada. 

Le due scene meglio realizzate dell'intera opera sono quella in cui un agente dell'EonCorp viene ucciso nella sua auto appena nota, dallo specchietto, la maschera da teschio del suo autista, in un twist ben congegnato e del tutto inaspettato. La seconda, degna di nota e, forse, una delle migliori delle tre opere di Meredith, è quella dell'inquietante stupro che la bella Cidney Meredith subisce da parte di un mutante tentacolato che lei stessa ha espulso dal suo corpo, che lei stessa ha "partorito". Una scena carica di erotismo, dove la luce viola si unisce a quella del pericolo incombente tinto di rosso, dall'aspetto disgustoso, organico ed assai viscerale, reminescente del leggendario stupro dell'albero di "La casa", dell'erotismo viscerale di H. R. Giger e del body horror più sfrenato di David Cronenberg. 
Se, dunque, il film appare un lodevole prodotto dell'horror underground d'oltreoceano, il reparto audio soffre in alcuni punti a causa del filtro, sempre da "vhs", che rende alcuni dialoghi poco comprensibili. Nulla da ridire alla colonna sonora che, invece, alterna sounds espressamente synth ad alcune melodie più "rockeggianti", nuovamente strizzando l'occhio a quelle produzioni anni '80/'90 che non possono non aver ispirato e formato il regista.

In conclusione "Variant" è un ulteriore passo avanti rispetto ai capitoli precedenti, con la lore che si avvale di un nuovo punto di partenza e con quella passata che viene, in un certo senso, completata con il ritorno del dr. Bottin (Toby Johanssen) già introdotto in "South Mill District" e con la ripresa dei minuti finali e della situazione andatasi a creare in e con "Teratomorph". Un perfetto epilogo, ma un altrettanto migliore starting point per un universo contorto e perturbante dove, da un momento all'altro, un terrificante mostro con varie teste scheletriche potrebbe bussare alla porta. 
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Il film è acquistabile direttamente sul sito internet di Joe Meredith, nonostante non sia disponibile una traduzione italiana seppur la pellicola sia fruibile anche da chi non ha dimestichezza con la lingua inglese a causa del ruolo quasi "laterale" e ridotto che ha la narrazione. Potete seguire il regista Joe Meredith sia sulla sua pagina Facebook che sul suo profilo Instagram.

lunedì 22 giugno 2020

Macabri omicidi a Vienna (Recensione "Freud")

Un passo indietro...
Il nostro viaggio, in quella che sarebbe dovuta essere la psicanalisi Freudiana, comincia il 20 Febbraio 2020 durante il Festival del Cinema di Berlino, dove vengono proiettati i primi 3 episodi di Freud, serie nata dalla collaborazione tra la casa di distribuzione austriaca ORF e Netflix. Il 23 Marzo dello stesso anno, la serie verrà distribuita sulla piattaforma streaming di quest’ultima. Sebbene il nome stesso della serie e il trailer avrebbero fatto pensare ad una sorta di  psycho-thriller incentrato sulle tesi psicologiche dello psicanalista (interpretato qui da Robert Finster) o ad un biopic che rivelava invece gli avvenimenti realmente accaduti che lo avrebbero successivamente portato alla creazione della psicanalisi, il prodotto finale al quale ci siamo trovati davanti ha sicuramente sia stupito che deluso.
Sesso, Sangue, Cocaina…
Vienna 1886, il 30enne Sigmund Schlomo Freud è tornato da un viaggio (avvenimento realmente accaduto) a Parigi dove è venuto a contatto con Jean-Martin-Charcot, neurologo francese che suscitò interesse nel giovane Freud grazie alla sua modalità di cura dell’isteria, l’ipnosi (che sarà parte centrale attorno al quale ruoterà tutta la serie). Dopo i tentativi fallimentari del giovane neurologo austriaco nel voler usare questa terapia a Vienna, Freud si troverà screditato dai suoi colleghi e dalla comunità scientifica. Ma i problemi persistono anche nella vita privata del giovane dottore che, oltre alla reputazione, rischia anche il matrimonio con la giovane Martha. L’unica distrazione che riesce a trovare (oltre alla cocaina, droga al tempo considerata medicinale frequentemente usata dal dottore e anche oggetto di alcuni suoi trattati per i suoi effetti “positivi”) sembra essere la compagnia dell’amico Arthur Schnitzler che lo porterà a varie serate dove l’alta società viennese si intrattiene con sedute spiritiche tenute dalla medium Fleur Salomè (Ella Rumpf).

All’interno di questo circolo si consumeranno macabri omicidi (proprio qui entrerà in scena la forte componente splatter della serie, per alcuni anche abusata in certe scene) e spetterà a Freud, aiutato dall’ispettore di Polizia Alfred Kiss (Georg Friedrich), risolvere questi omicidi grazie alle sue conoscenze mediche. Oltre al contesto storico e alcuni dettagli reali del personaggio che si possono intravedere all’interno della serie, il resto della serie assume dei connotati fittizi perdipiù non molto originali: il Dottor Freud è qui reinventato come una versione austriaca di Sherlock Holmes e la componente splatter prende completamente il sopravvento tra esecuzioni brutali e visioni di omicidi sanguinari.
What to Expect from the New Freud Series
...e Vienna
Nonostante ciò, tra sesso, sangue, cocaina e cospirazioni politiche ungheresi, il personaggio di Freud è interpretato in modo piuttosto convincente e coinvolgente dall’attore austriaco Robert Finster che riesce a passare sia per il padre della psicanalisi che (quasi) per un detective improvvisato, e la Vienna del 19esimo secolo è portata in vita grazie ad un impatto visivo soddisfacente e a delle location molto realistiche (da tenere anche a mente che sebbene la produzione ha coinvolto Germania, Repubblica Ceca e, ovviamente, Austria, la “Vienna” all’interno della serie non è altro che il quartiere storico di Praga) che insieme sono riuscite a ricreare non solo perfettamente l’Europa della seconda metà del 1800 ma anche un’atmosfera tetra e cupa che, insieme alle scene del crimine in cui la componente splatter è fortemente usata, ricorda molto quella di una Londra di Jack Lo Squartatore o di Penny Dreadful.

E la diagnosi è…
In conclusione possiamo dire che “Freud” parte col piede giusto (riscontrando successo in Austria con circa 400mila spettatori) iniziando con il corretto contesto storico nel quale è inserito il protagonista grazie alle location e l’atmosfera creata, per poi perdersi nell’assurdo e nel tentativo di unire Horror e elementi biografici. Se si sorvolano gli elementi biografici distorti della serie che trasformano il padre della psicologia moderna in un detective, gli amanti dello splatter e della brutalità visiva potranno sicuramente godersi questo drama austriaco targato Netflix.

Freud TV show. List of all seasons available for download.Robert Feinster in Freud (2020)

ARTICOLO DI
LEONARDO TERRACCIANO

mercoledì 13 maggio 2020

Ritorno alle origini (Recensione "Black Mesa")

Il 16 novembre 2004 la Valve Corporation pubblicò, insieme ad Half-Life 2, una versione rimasterizzata di Half-Life, chiamata Half-Life: Source. Il gioco avrebbe girato sul nuovissimo motore grafico della compagnia, il Source Engine, e, inutile dirlo, le aspettative erano alte. Purtroppo i fan si ritrovarono delusi quando Half-Life: Source si rivelò un semplice porting di Half-Life sul motore grafico di Half-Life 2, con effetti particellari e texture dell’acqua migliori che però non si adattavano allo stile del gioco e una miriade di bug e glitch grafici assenti nella versione originale.
Il malcontento spinse un gruppo di ragazzi a fondare la Crowbar Collective, una compagnia indipendente che dal gennaio del 2005 si dedicò allo sviluppo di un vero remake di Half-Life. Come spesso accade in questi casi, i primi frutti si videro dopo molto tempo, quando nel 2012 fu rilasciata Black Mesa: Source, una mod di Half-Life 2 che ricreava il primo capitolo della serie, eccezion fatta per i livelli ambientati su Xen. 
Nel 2015 fu pubblicata, con il semplice nome di Black Mesa, una nuova versione del gioco, in accesso anticipato su Steam: questa volta il titolo girava su una versione modificata del Source Engine e, conseguentemente, non necessitava più di Half-Life 2 per essere giocato; nonostante ciò, non c’era ancora traccia dei livelli di Xen. Dopo svariati rinvii e un breve periodo di beta-testing nello scorso anno, finalmente un aggiornamento del gioco implementò queste tanto anticipate aree, e, nel marzo di quest’anno il gioco è uscito dal programma “accesso anticipato” con il rilascio della versione 1.0.
La trama è identica a quella del primo Half-Life: Gordon Freeman, uno scienziato ventisettenne impiegato presso il complesso di ricerca di Black Mesa, si dirige sul suo luogo di lavoro, dove dovrà effettuare un’analisi di un misterioso cristallo di origini sconosciute. Qualcosa però va storto e l’esperimento causa l’apertura di una breccia dimensionale, la quale è attraversata da orribili creature aliene che invadono il complesso di ricerca. Gordon dovrà farsi strada tra i corridoi di Black Mesa, sopravvivendo agli attacchi degli alieni, con lo scopo di raggiungere la superficie in cerca d’aiuto.
Sono inoltre presenti elementi di collegamento ad Half-Life 2, come la presenza di Isaac Kleiner e Eli Vance che prendono il posto di due scienziati che Gordon incontra prima dell’esperimento con il cristallo (lo stesso Eli Vance accenna all’episodio in Half-Life 2 e Half-Life 2: EpisodeTwo).
Come è facile immaginare, i controlli del gioco sono molto migliori rispetto quelli di Half-Life: mentre in quest’ultimo era possibile perdere il controllo di Gordon che a tratti sembrava “pattinare” sul pavimento, in Black Mesa il gioco risponderà in modo molto più dinamico agli input forniti dal giocatore, determinando, anche grazie all’introduzione dello sprint, un movimento più dinamico e preciso.

La difficoltà risulta inoltre notevolmente incrementata: i nemici saranno notevolmente più resistenti e la loro IA è decisamente più avanzata, evitando così le situazioni bizzarre che caratterizzavano il primo Half-Life, quali militari che lanciavano granate ai loro piedi o alieni che si ostinavano ad attaccare corpo a corpo nonostante gli ingenti danni subiti.
Sebbene il gioco sia nato come mod di Half-Life 2, Black Mesa riesce a superare di molto la sua resa grafica: grazie all’acquisizione di una licenza commerciale del Source Engine, concessa dalla Valve Corporation, gli sviluppatori hanno potuto modificare a piacimento il motore grafico del gioco, portandolo ai suoi limiti. Ma la situazione ha comportato anche degli svantaggi: in quanto release standalone, Black Mesa non poteva utilizzare nessuno degli asset di Half-Life o Half-Life 2 e gli sviluppatori, sono stati costretti a ricrearli.

Le aree di gioco ricalcano quelle di Half-Life, ma risultano notevolmente estese e migliorate, con lo scopo di rendere Black Mesa più simile ad un vero complesso di ricerca e di utilizzare al massimo le potenzialità del motore grafico. La presenza di puzzle basati sulla fisica è senza dubbio un’eredità importante di Half-Life 2, che aiuta a far sedimentare Black Mesa come un degno membro (seppur “apocrifo”) della serie.
Meritano una menzione speciale le aree di Xen, le quali, tra platforming non eccezionale e restrizioni dovute al tempo di sviluppo limitato, costituivano la parte più debole del primo Half-Life. Black Mesa, invece, fa di Xen il suo fiore all’occhiello, con un design totalmente nuovo e volto a mostrare questa dimensione come un vero ecosistema in cui le varie creature che lo abitano possano vivere.
Le boss fight contro Gonarch e il Nihilant sono particolarmente impegnative e richiedono una conoscenza approfondita delle meccaniche di gioco, una buona abilità strategica e una discreta parsimonia nell’uso delle munizioni. In generale, mentre le aree del complesso di Black Mesa sono più incentrate sul lato action del gioco, Xen segna un ritorno di quell’horror cosmico che si era andato a perdere nei capitoli più recenti della serie.
La colonna sonora, composta da Joel Nielsen, si adatta perfettamente al feel più moderno di Black Mesa, ricalcando allo stesso lo stile di Kelly Bailey che ha reso indimenticabili le soundtrack della serie di Half-Life. Si fa però sentire la mancanza dei pezzi più iconici della serie, come l’ormai famosissimo Hazardous Environments.
In conclusione Black Mesa è un remake più che degno di questo nome, che riuscirà a rendere felici sia i fan di vecchia dati intenzionati a ritornare nei panni di Gordon Freeman, sia coloro che, nonostante la volontà di approcciarsi alla serie, hanno trovato la grafica e il gameplay del primo Half-Life troppo datati.

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