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giovedì 8 maggio 2025

Hellblade Il videogioco come simulacro dell'alterazione mentale

Indice
1. Metamorfosi virtuale
2. La voce della follia
3. Demistificare l’irrazionale

CAPITOLO 1
Metamorfosi virtuale

Empatia, il videogioco ci permette di vivere percorsi problematici altri. Accompagniamo vari personaggi attraverso livelli e scontri sempre più difficili, con l'obiettivo di completare la loro avventura e vederne la conclusione. Questo è possibile solo grazie alla collaborazione che si va a creare tra giocatore e personaggio giocabile: è ovvio che un personaggio non possa andare avanti senza il nostro comando, limitandosi al più in piccole animazioni d'attesa (se non alla più totale immobilità). La dipendenza è però ambivalente poiché noi, in qualità di giocatori, non possiamo agire nel mondo di gioco se non servendoci, appunto, della mediazione che avviene tramite il personaggio. Si instaura perciò un rapporto di aiuto reciproco tra l'elemento umano e quello digitale, una sorta di simbiosi dove il giocatore si cura della salute del personaggio, avendo l'accortezza di mantenerlo in vita o comunque in grado di avanzare, mentre l'azione e l'effettiva presenza all'interno del mondo di gioco è affidata a quest'ultimo. Il personaggio può variare di caratterizzazione, a seconda del gioco: si parte dal semplice avatar, un costrutto vuoto e obbediente, che esiste appositamente per agevolare l'immersione del giocatore (il quale potrà proiettarsi all'interno del mondo virtuale, quasi come vi si trovasse all'interno). D’altro canto, possiamo trovare invece personaggi complessi e approfonditi, i quali si lasceranno guidare dalle nostre mani mantenendo comunque una loro autorevolezza, permettendoci di agire solo entro certi limiti. Senza contare l’inevitabile affezione emotiva che andrà a crearsi con il passare del tempo, mentre impareremo a conoscere e padroneggiare il nostro “operatore” nel gioco (sentendoci di conseguenza sempre più a nostro agio nei suoi panni). È quindi evidente l’importanza che la relazione giocatore-personaggio giocabile possiede all’interno di un sistema cooperativo dove gli ordini e l’esecuzione dei comandi sono delegati a entità sostanzialmente distinte, eppure indistinguibili.

Ma cosa succederebbe se la percezione che abbiamo del gioco fosse alterata, illusoria, non affidabile? I nostri comandi mal interpretati, discussi... Cosa accade se i personaggi che giochiamo soffrono di malattie mentali?

In Hellblade: Senua’s Sacrifice (2017), Ninja Theory sfrutta il medium videoludico per esplorare la psicosi attraverso il personaggio di Senua, sfidando l’intuizione del giocatore e mettendolo così di fronte a una realtà alterata, immergendolo in un’esperienza profonda e destabilizzante all’interno di una mente frammentata.



CAPITOLO 2
La voce della follia

“Senua is a Celtic warrior from the late 8th Century whose Orkney homeland has been invaded by the Vikings. They’ve sacrificed her lover to the Norse gods and so she sets off on a quest to Hel, the Viking underworld, to retrieve his soul and lay him to rest. During the game, Senua experiences visions, voices and delusional beliefs – symptoms of what we now call psychosis.” 
-Tameem Antoniades, creative director[1].

Uno degli elementi chiave della resa psicologica di Hellblade è il comparto sonoro, il quale utilizza frequenze binaurali per trasmetterci le voci nella testa di Senua. Queste onnipresenti commentatrici saranno costantemente in dialogo con la protagonista e il mondo che la circonda, sussurrando indicazioni, urlando in preda al panico o semplicemente beffandosi di lei. L’implementazione non si limita soltanto a essere un elemento immersivo, ma svolge un ruolo attivo nell’esperienza di gioco: alcune voci ci avvertono di pericoli imminenti come nemici alle spalle, altre dispensano consigli sulla risoluzione di enigmi, altre ancora dibattono i più recenti risvolti di trama. Questa dinamica trasforma il sonoro in uno strumento dalla duplice valenza, se da un lato permette di guidare il giocatore (data l’assenza di qualsiasi tipo di HUD o interfaccia) dall’altra rende il disturbo di Senua centrale e portante per l’esperienza di gioco.

“In representations of mental illness on screen, you usually have the illness first, and then a two-dimensional character attached to that. In this case, the character is fully-formed, and they are not defined by their condition.” 
-Prof. Paul Fletcher, neurologo[2].
Dal punto di vista visivo, Hellblade utilizza distorsioni e illusioni ottiche per catapultare il giocatore nella psicosi di Senua. L’ambiente si trasforma, gli elementi della scena si muovono inspiegabilmente e la percezione del mondo cambia in base allo stato emotivo della protagonista. Questa instabilità visiva è un altro elemento chiave del gioco, poiché il giocatore non può fidarsi completamente di ciò che vede.

“So trees might shift position slightly, or you might see a hidden pattern in a shadow or a reflection. It’s these patterns that the player needs to find in order to progress in the game.” 
-Tameem Antoniades, creative director.

Un esempio significativo di questa meccanica è rappresentato dai puzzle basati sulla percezione: Senua deve osservare il mondo da angolazioni specifiche per trovare simboli nascosti, richiamando la modalità con cui le persone affette da psicosi possono attribuire significati particolari a elementi sconnessi dell’ambiente. L’effetto è straniante, ma anche profondamente accattivante, poiché ci costringe a una logica percettiva alterata.

“To some extent, Senua has always seen the world differently from others, but the idea is that the profound trauma she’s experienced has triggered these symptoms. Because of her experiences, Senua has lost touch with the reality of those around her. That’s really the formal definition of psychosis. We’re all more or less prone to psychosis, depending on how we view and experience the world, but trauma can often act as a trigger.” 
-Prof. Paul Fletcher, neurologo.
Per quanto riguarda il sistema di combattimento, infine, anch’esso è progettato per trasmettere vulnerabilità e tensione. A differenza di molti protagonisti di giochi action Senua non è un’eroina onnipotente, anzi. Ogni scontro è una lotta per la sopravvivenza contro nemici inquietanti che la sovrastano in numero e potenza. L’assenza di interfaccia grafica, inoltre, porta il giocatore a basarsi sulle animazioni corporee della protagonista per recepire la portata dei danni subiti, i quali andranno a inficiare le nostre movenze in combattimento. Un elemento particolarmente intrigante è il sistema di “permadeath”[3] per cui una macchia nera sul braccio di Senua si accresce con ogni sconfitta, minacciando di divorarla e cancellare i nostri progressi di gioco. Questa meccanica aumenta esponenzialmente l’ansia e l’insicurezza del giocatore, enfatizzando il terrore del fallimento vissuto dalla protagonista e trascinandoci per l’ennesima volta insieme a lei in una dolorosa odissea nelle fredde terre norrene.

CAPITOLO 3
Demistificare l’irrazionale

Hellblade: Senua’s Sacrifice rappresenta un punto di svolta fondamentale nella storia videoludica, tralasciando l’incredibile impresa produttiva di Ninja Theory che, con un team di sviluppo praticamente indie[4], è riuscita a pubblicare un titolo dalla caratura di tripla A (Coniando il termine “AA”, un’effettiva via di mezzo tra i due). Gli sviluppatori hanno sfruttato il medium non solo per raccontare una storia, ma per farla vivere direttamente ai giocatori. Il percorso empatico e sensoriale di Senua permette di attraversare il confine tra videogioco ed esperienza interattiva, consentendoci di esplorare tematiche complesse quali la psiche umana con una sensibilità e un’immedesimazione difficilmente raggiungibili attraverso altri mezzi espressivi. Un’opera che trascende il semplice intrattenimento, diventando di fatto uno strumento di sensibilizzazione ed eccezionale rappresentazione di una condizione purtroppo ancora oggi vittima di denigrazioni e superficialità.

“Senua is the hero of her own story, trying to make sense of her experiences and work her way through them.” 
-Prof. Paul Fletcher, neurologo.
⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯
NOTE
[1] How Hellblade: Senua’s Sacrifice deals with psychosis, BBC Focus magazine n.131, James Lloyd, 13/4/2018.
[2] ibidem
[3] Nonostante il gioco suggerisca tale sistema, la community ha confermato che si tratta in realtà di un bluff da parte degli sviluppatori. Non esiste alcuna cancellazione dei salvataggi e il gioco riprende dopo un semplice fade out. La scelta, inizialmente controversa, è stata poi rivalutata quale brillante esempio di come ingannare il giocatore, se fatto sapientemente, possa rafforzare l’immersione e il coinvolgimento con l’esperienza ludica, servendo pienamente il game design. [There's more to Hellblade's permadeath than meets the eye, Eurogamer, Wesley Yin-Poole, 9/8/2017].
[4] Il progetto, finanziato in modo indipendente con il supporto del Wellcome Trust, è stato portato avanti da un team ristretto di circa 20 persone e un budget inferiore ai 10 milioni di dollari. Per mantenere alti standard qualitativi nonostante le risorse limitate, Ninja Theory ha adottato soluzioni ingegnose e creative come l’utilizzo della sala riunioni aziendale per il motion capture e l’impiego di oggetti recuperati per strada come modelli per la creazione delle texture. La scelta di realizzare un prodotto simile era per lo più una forma di protesta contro le case produttrici tradizionali, troppo prese nel seguire trend effimeri, dimostrando che era possibile sviluppare un gioco narrativo, profondo e qualitativo in modo indipendente, senza compromessi artistici. [How Hellblade: Senua's Sacrifice was made as an 'indie triple-A' game on a tight budget, Eurogamer, Matthew Reynolds, 29/3/2018; Hellblade: Senua's Sacrifice Guide - Development, IGN, Brendan Graeber et al.].

MATERIALI DI RIFERIMENTO
Hellblade: Senua’s Sacrifice, Ninja Theory, 2017.
• How Hellblade: Senua’s Sacrifice deals with psychosis, BBC Focus magazine n.131, James Lloyd, 13/4/2018.
• Hellblade: Senua’s Psychosis, Ninja Theory, 2017.

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sabato 29 marzo 2025

Vital: tra coscienza, cadaveri e connessioni umane

Sfogliando la filmografia di Shinya Tsukamoto e ponendo particolare attenzione ad alcuni dei suoi primi lavori, che incidentalmente sono anche i più conosciuti, risalta immediatamente all’occhio la quantità spasmodica di violenza, sia materiale che visiva: il regista non si pone problemi nel renderla quanto più esplicita. In Tetsuo: The Iron Man (1989) i corpi dei protagonisti si fondono con metalli, tubi, cavi, creando esseri grotteschi la cui umanità è difficilmente visibile. In Tokyo Fist (1995) le ferite e i traumi fisici dei protagonisti portano i loro corpi al limite, facendoli sembrare costantemente sul punto di esplodere. In Hiruko The Goblin (1991) le decapitazioni sono all’ordine del giorno e, come se non bastasse, le teste delle vittime si tramutano in mostri assassini. Arrivati a questo punto si potrebbe pensare che le difficoltà e le sofferenze inflitte a questi personaggi possano bastare, ma non finisce qui. Tsukamoto rende ostile anche l’ambiente abitato dai suoi protagonisti: Tokyo diventa, a seconda dei casi, un labirinto apatico e alienante fatto di grattacieli infiniti e cunicoli stretti, appartamenti fatiscenti e uffici ostili, rendendo la vita dei suoi abitanti insostenibile. Risulta quindi straniante l’inchiodata effettuata con l’uscita di A Snake Of June (2002), film dove a essere esplicita non è più la violenza e l’ostilità della metropoli, ma l’introspezione della protagonista: gli elementi di sfida a cui far fronte non si troveranno più all’esterno, ma all’interno della propria psiche repressa. Questo cambio di rotta avrà conferma definitiva (o almeno così poteva sembrare al tempo) con il successivo film del 2004 Vital. Esattamente come un astronomo userebbe il telescopio per osservare e studiare lo spazio che ci circonda, Tsukamoto usa il microscopio per scoprire ogni minimo dettaglio del corpo umano e ricercare anche solo un elemento che possa rispondere a uno dei più complessi quesiti che ci si possa porre: dove risiede la coscienza?
A sinistra: Tetsuo - The Iron Man; a destra: Tokyo Fist



La volontà di concentrarsi sul corpo umano e sull’implicita introspezione che ne deriva nasce da un singolare episodio. Nel saggio Iron Man: The Cinema Of Shinya Tsukamoto di Tom Mes (2005), Tsukamoto fornisce una buona dose di dettagli sull’evento che lo ha portato a interessarsi al rapporto tra il corpo umano e la coscienza. Durante lo sviluppo di A Snake Of June decise di imbarcarsi in una breve gita in bicicletta quando, all’improvviso, accusò un lancinante dolore alla schiena che lo costrinse a un lungo riposo durato settimane:

I couldn't move. It was quite shocking and it resulted in me being bedridden for quite a long time. It was a scary experience, because it was almost as if my body was dead, while my brain was fully alive and functioning. That was actually the source of inspiration for Vital, the idea that consciousness can survive inside a lifeless body.1

Inevitabilmente questo interesse lo portò a visitare il museo di storia naturale de La Specola a Firenze, dove ebbe la possibilità di vedere in prima persona ricostruzioni estremamente dettagliate del corpo umano.

L’idea dell’intreccio che smuove davvero la narrativa di Vital si sviluppò però in modo più dettagliato durante le sue innumerevoli visite in un non specificato ospedale universitario, dove diverse domande cominciarono a innestarsi nella sua mente:

I observed several dissection classes and at one point I wondered 'What's the difference between these students and the bodies on their tables? The difference is consciousness, but where in the body is our consciousness located?' I asked their professor, a man who can normally answer any question about the tiniest detail of the human body, but he didn't have an answer to mine.2
Raffigurazione del corpo umano del museo di La Specola
Esattamente come in Tetsuo, l’evento scatenante di Vital è un incidente stradale in cui il protagonista Hiroshi, ex studente di medicina, perde non soltanto la sua memoria ma anche la vita della sua fidanzata Ryoko, seduta al suo fianco durante il nefasto episodio. Il corpo viene medicato ma la mente di Hiroshi rimane simile a una tela bianca ancora da dipingere. Ritrovatosi spaesato in un ambiente che non riconosce più, si avvicina nuovamente al percorso accademico dopo il fortuito ritrovamento dei suoi vecchi manuali di medicina ed è proprio nell’accademia che si ricongiunge con la ragazza defunta, questa volta sotto forma di cadavere da dissezionare.

Quella che potrebbe sembrare una storia dalle facili derive grottesche, in cui il cadavere altro non è che un banale strumento di disgusto, diventa una densa riflessione sul costante distacco e straniamento del cittadino urbano, non solo con l'ambiente in cui vive ma soprattutto con i propri simili. In che modo potremo mai attingere alla coscienza umana, che sia nostra o di qualcun altro, se il contatto fisico perde la sua importanza e rilevanza nella vita quotidiana?

Quello intrapreso da Hiroshi non è soltanto un percorso fatto di accettazione, rimembranza e lutto, ma anche e soprattutto un percorso di ricongiungimento fisico, imprescindibile nel plasmare e rendere vive le memorie e i pensieri. L’interpretazione minimalista di Tadanobu Asano rende perfettamente l’idea di un personaggio (o, volendo, un corpo mancante inizialmente di un’anima) costantemente alla ricerca di un appiglio alla realtà che non sa più riconoscere, fatta di suoni e luoghi non più appartenenti alla sua vita. Questa ricerca avviene principalmente attraverso due sensi: il tatto e la vista.
Hiroshi, una volta uscito dall’ospedale, cerca attraverso il tatto di ricordare i luoghi e gli oggetti di cui ha perso la familiarità. Inizialmente una ricerca disperata dell’io perso nelle memorie, questo diventa con il tempo la caratteristica fondamentale che lo differenzia dai suoi simili. Mentre Hiroshi non si fa problemi nel toccare con mano e nell’avvicinarsi quanto più possibile al cadavere della ragazza defunta, i suoi compagni rigettano questo approccio, vedendolo come immorale e incomprensibile. Laddove Hiroshi vede il tocco come massimo strumento di empatia e di comprensione, le persone che lo circondano ne denunciano l’utilità. Persino i suoi genitori, le persone che in teoria dovrebbero amarlo più di chiunque altro, lo intimano svariate volte di abbandonare questo suo approccio. L’esasperazione di questa lontananza fisica la si può trovare nel personaggio di Ikumi: studentessa modello il cui modus operandi è quanto di più lontano si possa immaginare dal metodo di Hiroshi. Fortemente rappresentativa è la conversazione che intrattiene con uno dei suoi professori (che in seguito si suiciderà): nonostante la distanza che li separa sia di pochi metri, la loro conversazione avviene attraverso una chiamata telefonica. Ikumi inoltre è l’unico personaggio che prova un esplicito disgusto verso i cadaveri che riempiono il laboratorio di studio: riesce a svolgere le lezioni soltanto indossando quanti più filtri materiali possibili (oltre ai guanti indosserà anche una mascherina e una visiera).
L’alienazione di cui è vittima Ikumi è di proporzioni talmente grandi da non permetterle di provare alcun sentimento in seguito al suicidio del suo professore, confessando ad Hiroshi quanto per lei i rapporti umani stiano diventando sempre più frivoli. I giochi simil-erotici che intratterrà con il protagonista assumeranno dunque una dimensione di ambiguità: sono davvero dei momenti in cui Ikumi cerca un qualche tipo di connessione umana, imitando per certi versi il comportamento di Hiroshi, oppure sono soltanto sintomi di gelosia?

La vista svolge un compito importante tanto quanto il tatto. “Abbiate fiducia nei vostri occhi, è sempre stato questo il punto. La verità si trova davanti a voi per essere vista.”: è un concetto espresso dal professore universitario di Hiroshi, che avrà un enorme impatto nelle vicende successive. Dopo aver scoperto l’identità del cadavere usato come oggetto di studio, il protagonista verrà catapultato in una serie di visioni in cui potrà finalmente ricongiungersi con l’amata perduta. Tuttavia queste visioni non verranno interpretate da Hiroshi come una ricongiunzione con le memorie perdute, ma come eventi del presente, delle esperienze nuove mai vissute prima. Non tradisce i suoi occhi; accetta invece ciò che vede come la realtà, rappresentativa del suo contatto fisico con Ryoko.

Queste visioni diventano sempre più intense quanto più diventa intensa e ossessionata l'analisi del cadavere di Ryoko da parte del protagonista. Sembra quasi che Hiroshi stia per arrivare al punto di svolta, stia per trovare anche solo un barlume della coscienza della ormai defunta amata in mezzo alle viscere e agli organi, un imprescindibile fisicità che si lega alla suddetta coscienza.
Fondamentale in questo senso è la fotografia che rappresenta queste visioni. Inizialmente dalle tinte blu, le stesse che colorano la metropoli alienante in cui i personaggi si perdono, acquistano nel tempo toni sempre più naturali, dando un senso di equilibrio inesistente nella manchevole realtà. Tatto e vista creano un mondo parallelo il cui nucleo è l’elemento più naturale di tutti: il corpo umano. Il contato fisico tra i corpi di Hiroshi e Ryoko è fondamentale in quanto rappresenta le sensazioni e le emozioni mancanti nel mondo reale. Se riteniamo il mondo che ci circonda ostile, se davanti alle avversità della vita ci si abbandona a un’alienazione per certi versi autoindotta, se si rifiuta il contatto con ciò che potrebbe salvarci, in che modo evolveranno i nostri rapporti?
E quindi alla fatidica domanda “dove risiede la coscienza?” e soprattutto “a cosa serve entrarne in contatto?”, in che modo risponde Tsukamoto? La risposta è tanto difficile quanto lo è la domanda. Il regista dal suo canto non dà una risposta precisa, ma solamente degli elementi che stabiliscono l’importanza di tali quesiti.

Dopo la fine delle lezioni ognuno dei personaggi ne esce fondamentalmente cambiato. Ikumi, grazie al tempo trascorso con Hiroshi, si emancipa per certi versi dalla visione del mondo e dei rapporti interpersonali distanti che la attanagliavano. Hiroshi, una volta completato il processo di lutto e guarigione, continuerà per la sua strada accademica, rinnegando dunque la sua vita passata fatta di abbandoni. Ryoko invece potrà finalmente lasciarsi andare, stampando nella sua coscienza la memoria più importante di tutte.
Sebbene la vita ci pone davanti a innumerevoli quesiti, la cui risoluzione non sempre è tangibile, una risposta verrà da sé nel momento più opportuno.
You still have so long to live, so you can’t answer properly.

⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯
NOTE
1. Iron Man: The Cinema of Shinya Tsukamoto di Tom Mes (2005) (p.185)
2. Ibid

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mercoledì 31 gennaio 2024

"Bassifondi" di Trash Secco (Recensione)

 “Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare. «Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi».
(Incipit del romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald)1

Un topo, fermo a un nasone2, incomincia a scendere dei gradini di pietra. La macchina da presa su di lui, che precede il suo movimento nel seguire il piccolo rivolo d’acqua nato dalla fontanella. Con i suoi brevi e lesti passi accompagna l’occhio dello spettatore da una Roma che ben conosce verso un suo angolo buio e apparentemente nascosto. Allora flash allucinati appaiono sullo schermo. Iniziano a delinearsi pian piano i contorni di alcune lettere e, quasi fosse un’indicazione stradale, il titolo del film chiarisce finalmente dove il piccolo roditore ci ha condotti: Bassifondi.3
È significativo, in un’opera che ritrae Roma come un vero e proprio inferno dantesco, che a fare da Virgilio allo spettatore sia un topo, animale simbolo del marciume, del degrado e della povertà. Perché la vera Roma, che non è di certo l’idilliaco Paradiso che vivono i turisti, da sempre si nasconde dietro l’intoccabile maschera di una tradizione millenaria fatta di grandi storie e ineffabili bellezze.

L’artista romano Francesco Pividori, noto ai più sul web con lo pseudonimo Trash Secco, ha cercato con le sue opere di smascherare questo inganno, di demolire dall’interno questa rappresentazione stereotipata di Roma come città dei sogni, proponendone una diametralmente opposta, nella quale i riflettori vengono puntati sulle brutture e le contraddizioni che la abitano. Lo ha fatto con Nefasto: Er Mostro de Zona (2012)4, un mockumentary “illegale” nel quale viene mostrata la squallida vita delle borgate romane, tra abuso di sostanze e prostituzione; lo ha fatto poi con i videoclip musicali di artisti come Ketama126, all’interno dei quali tenta di abbattere il tabù della droga5; lo fa ora con il suo debutto alla regia cinematografica Bassifondi (2022) che, seppur presentato in anteprima nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma6, riscuotendo grande approvazione da parte di pubblico e critica, è purtroppo rimasto oscurato da altri titoli nella successiva fase di distribuzione nelle sale.

Da sinistra a destra: Gabriele Silli, Trash Secco e Romano Talevi
I bassifondi che Trash Secco mostra e racconta in questo suo film non hanno nulla a che fare con l’ormai stereotipata periferia a cui la cinematografia (e televisione) italiana, in una lunga tradizione che passa per il neorealismo e per Pasolini, ci ha abituati. Qui si è nel cuore pulsante della città ma in quella parte di essa estranea al continuo via vai di turisti e lavoratori che riempie le vie del centro. Un cono d’ombra in cui tutte quelle persone che si sono ritrovate a vivere in strada, costretti o per scelta, hanno deciso di rifugiarsi. Un ritirarsi che non significa però arrendersi, ma che corrisponde ad una forte presa di coscienza: in una società in cui a regnare sono l’egoismo e l’indifferenza, paradossalmente, non resta altro che isolarsi. Per ricominciare da capo, per provare a creare un’alternativa più giusta. Allora l’auto-isolamento non rimane a lungo un muto e disperato pianto, ma si trasforma presto in un urlo collettivo verso l’opprimente ingiustizia che regola il mondo.
L’ultimo film di Trash Secco si pone così il difficile obiettivo di raccontare una realtà diversa che, guidata da un sentimento comune di rifiuto nei confronti della società, il grande (e piccolo) schermo ha rifiutato di mostrare per troppo tempo.

La prima idea di Bassifondi è nata fra noi due (Francesco Pividori e il fratello ndr), una sera. Una Peroni di troppo, giravamo tra i senza tetto di Ponte Sisto. Io avevo 15 anni e lui 20. Litigavamo, ubriachi, e lui disse: pensa se facessero un film su due barboni. Così ho cominciato a scrivere la storia, che mi sono portato dietro per tanti anni.7

Nasce così, dal semplice desiderio di raccontare il rapporto col fratello, l’idea embrionale di un film dalla forte carica politica e sociale come Bassifondi, e non è un caso che la sceneggiatura finale, che sviluppa il soggetto di Trash Secco e Greta Scicchitano, sia firmata da due fratelli: Damiano e Fabio D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza, Favolacce, America Latina).

Attraverso la loro penna Francesco Pividori e suo fratello si re-incarnano nei corpi dei protagonisti Romeo e Callisto (rispettivamente interpretati da Gabriele Silli e Romano Talevi), due senzatetto che vivono sulle sponde del Tevere ai piedi dell’isola Tiberina.
Come due “perfetti” fratelli (anche se fratelli non sono) sono agli antipodi, sia nelle loro conformazioni fisiche sia nei loro modi di fare. Romeo alto, snello e piuttosto taciturno, Callisto basso, tozzo e che non smette mai di parlare, spesso a sproposito. Callisto ormai non ha nulla da perdere ed è spinto da un rancoroso odio nei confronti della società, Romeo è invece desideroso di recuperare quel qualcosa (o quel qualcuno) che la vita in strada gli ha portato fin troppo lontano.

Un po’ alla Paterson di Jim Jarmusch il film mostra e rimostra le monotone giornate dei due clochard costretti a risalire ogni mattina le scalinate che conducono alla Roma “di sopra” e ad affrontare la massa indifferente di gente che affolla le sue strade all’urlo di “spiccetto, spiccetto!”, nella speranza di racimolare quel poco che basta per un misero quadratino di pizza bianca o per una pasticca che concili il loro sonno.

L’asciutta ed essenziale scrittura dei fratelli D’Innocenzo riesce a costruire sapientemente, a partire dalle parole e dai gesti quotidiani e ripetitivi di una vita in convivenza, l’imperfetta sintonia che lega questi due senzatetto talmente diversi tra loro che, messi assieme, non possono non ricordare una classica coppia di comici alla Stanlio e Ollio o, meglio, alla Franco e Ciccio.8

Eppure di comico nel film c’è ben poco. Viene utilizzato, a partire dalla sceneggiatura, ogni possibile strumento per impedire, il più a lungo possibile, l’immedesimazione o almeno un certo avvicinamento emotivo e patetico con i personaggi. Lo spettatore si ritrova a sentirsi quasi in colpa di provare una certa ripugnanza nei confronti di Romeo e Callisto, ma è esattamente ciò che Trash Secco ha voluto suscitare. Perché quell’istinto di distogliere lo sguardo è, in fondo, il germoglio dell’indifferenza e l’unico modo per contrastarla oggi sembra essere attraverso l’arte: costringere lo spettatore a fare i conti col mondo in cui vive, risvegliarlo dal torpore indotto dalle fantasmatiche illusioni che lo circondano, sbattendogli in faccia tutto lo schifo in cui è invischiato.
Così la scenografia e la regia arrivano a dividere nettamente in due Roma, una divisione in cui, come in Parasite di Bong Joon-Ho, le differenze a livello architettonico-spaziale delle varie ambientazioni sono funzionali ad evidenziare una profonda crepa sociale.

La fotografia illumina gli ambienti, prevalentemente esterni, in cui si muovono i protagonisti di colori smorti, spenti, acidi. Quasi come una scia tossica che, proveniente dal degrado della Roma “di sotto”, segue costantemente i due senzatetto, ovunque essi vadano.

A sua volta la scrittura è brutalmente cruda e realistica, specie nei dialoghi. Callisto in particolare utilizza un volgare vocabolario “di strada” impregnato di omofobia e misoginia che, oltre a rappresentare un’assoluta novità sul grande schermo, soprattutto oggi dove la libertà dell’artista si ritrova ingabbiata all’interno dei paletti imposti dal politicamente corretto e da una censura sempre più pressante, finisce per distanziare ancor di più lo spettatore.

Addirittura gli zoom in avanti che portano ai primissimi piani sul volto rigato dalle lacrime di Romeo, in un procedimento speculare a quello che Kubrick in Barry Lyndon ha utilizzato per rendere un certo effetto di straniamento, lasciano lo spettatore assolutamente impassibile. Perché l’occhio di quest’ultimo, pur seguendo per tutta la durata della pellicola solo ed esclusivamente i due clochard, è quello alieno e giudicante del passante.

Non c’è pathos, non c’è drammaticità. C’è solo indifferenza.
In questo processo di straniamento gioca un ruolo fondamentale anche il simbolismo filosofico e religioso che permea tutto il film: frequentemente appaiono sullo schermo icone religiose, animali, esplicite citazioni artistiche, ma nulla viene spiegato, non c’è apparentemente alcun legame logico tra le sequenze che ritraggono i momenti di vita di Romeo e Callisto e tali simboli. Trash Secco non ha voluto imporre un messaggio né tantomeno offrire una “giusta” chiave di lettura al suo film, ma ha consegnato nelle mani degli spettatori tutti gli strumenti utili per dare un senso alle immagini viste. Ora sta solo a loro trovare le risposte alle proprie domande. Perché Bassifondi, pur essendo narrativamente “classico” e lineare, sembra nascondere costantemente qualcosa, una risposta (o una domanda) che continua a sfuggire, ma che lascia dietro di sé il bisogno di essere inseguita.

Tutto ciò che il film ha silenziosamente costruito, inquadratura dopo inquadratura, culmina nel suo poetico finale onirico. Romeo si ammala gravemente ma Callisto non può far nulla per salvare il compagno e, disperato per un’amicizia o forse un amore ormai finito, si tuffa nelle contaminate acque del Tevere, sangue di Roma sporco dei peccati di chi la abita. Inizia a nuotare sempre più in profondità, sempre più lontano dal mondo che conosce, verso un luogo nuovo. Arrivato sul letto del fiume, al centro di un perfetto cerchio di luci al neon, si ricongiunge con il suo caro amico. Callisto accoglie il corpo spento del compagno tra le sue braccia, in un’identica posa della Pietà di Michelangelo. Un pianto sommesso e soffocato, o forse l’accettazione stoica del dolore? Un invito a rifugiarsi nel ricordo e in sé stessi, o forse nella speranza che qualcosa lì fuori possa finalmente cambiare?

Ancora una volta, lontana e impassibile, la macchina da presa non dà risposte. I titoli di coda scorrono inesorabili sullo schermo nero lasciando dietro di sé un senso di vuoto, portato dalla consapevolezza che esistono un’infinità di importanti domande che magari, accecati o distratti, non ci siamo mai posti.
Ma trovare una risposta è fortunatamente spesso più semplice di porsi la giusta domanda.

Bassifondi rappresenta un invito a mettersi e a mettere in discussione, a ricercare quella giusta distanza critica tra noi e il mondo, ad interrogarsi su ciò che ogni giorno diamo per scontato. Per evadere dalla rassicurante cecità della società. Per non rimanere più indifferenti.
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NOTE
1 Traduzione di Tommaso Pincio dall’edizione de Il Grande Gatsby, Scott F. Fitzgerald, Minimum Fax, 2011.
2 Tipica fontanella pubblica d’acqua potabile di Roma, diventata uno dei simboli della città.
4 La bieca censura di Youtube colpisce il film “Nefasto Er mostro de zona” di Trash Secco, L'Antikulturale, La Meteora, via Internet Wayback Machine, 10/5/2018.
5 Per approfondire l’argomento si consiglia la lettura dell’articolo scritto da Francesco Pividori in risposta alle polemiche nate attorno al suo video musicale Rehab diretto per Ketama126. Il rap italiano ha un problema di droga?, Giacomo Stefanini, Vice, 15/10/2019.
6 Bassifondi, due amici e la vita ai margini di Roma, Giorgio Gossetti, Ansa.it, 9/6/2023.

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venerdì 22 settembre 2023

BABBDI - un manifesto sociale


Premessa
Camminando per le strade delle nostra città subiamo passivamente un continuo condizionamento percettivo. L'ambiente che viviamo rispecchia quelli che sono i nostri valori sociali e culturali, una dinamica in cui la nostra identità è affermata in funzione del contesto, il quale ci restituisce un'immagine speculare di quello che si può definire "il nostro posto nel mondo". Questa forma dialettica è così profondamente assestata nella concezione comune da risultare scontata, eppure mai abbastanza elaborata. C'è un motivo se gli anonimi sobborghi francesi vengono tuttora ristrutturati andando a implementare quella che è, da ormai trecento anni, la caratteristica architettura haussmanniana.
Colombes, Paris
Così come il maestoso progetto di rinnovo del centro storico di Francoforte (chiamato "ritorno alla gloria" dalle fonti ufficiali) ristabiliva, da planimetria originale, gli antichi edifici gotici andati distrutti in seguito ai bombardamenti del quaranta.
Neue Altstadt, Frankfurt
La presenza (o assenza) fisica di monumenti identificativi influenza direttamente l'individuo e, per estensione, la comunità, sviluppando un'identità sociale che si costruisce prima di tutto dall'esterno e che, risuonando dall'interno di ciascuno, va a sintonizzare e definire gli ideali dominanti di un popolo.

Un biglietto per Babbdi
Sviluppato dai fratelli Sirius e Léonard Lemaitre, Babbdi appare su Steam il 22 Dicembre 2022 (dov’è tuttora disponibile gratuitamente) presentandosi come un semplice gioco esplorativo in prima persona. Una volta avviato, però, ci si rende immediatamente conto che qualcosa non va: il menù principale presenta, oltre a un accompagnamento musicale minimo (composto per lo più da rumori spiacevoli) una serie di errori ortografici quali “OIPPTION” per regolare le impostazioni o “QUUTI” per chiudere il gioco. Se a primo impatto questi titoli possono sembrarci quantomeno curiosi, capiremo presto che si tratta di un qualcosa di molto più serio.
Dopo aver cliccato su “PLAME” ha inizio la nostra partita. La transizione al gameplay è istantanea, ci ritroviamo subito in un lungo corridoio semi-illuminato da rumorose lampade a soffitto (alcune delle quali difettose o completamente guaste). Sulla sinistra ci accorgiamo di una fila di finestre che seguono tutto il muro, una rapida occhiata ci rivela di essere abbastanza in alto e alzando lo sguardo possiamo contemplare la nostra prima vista del paesaggio urbano (fatto di spigolosi blocchi di cemento coperti da un cielo grigio).
Avanzando sul pianerottolo passiamo davanti a diverse stanze abitate da strani esseri umanoidi, con cui sarà possibile interagire tramite dialogo. I loro occhi, completamente bianchi, cominceranno a fissarci non appena entreremo nel loro spazio percettivo.
Basteranno poche parole a farci capire che questa città, Babbdi, è un luogo indesiderabile, e tutti sembrano volerla abbandonare al più presto. Chiusa tra un’enorme diga e un’insormontabile muraglia, l’unico modo di lasciare la città è via treno. Scendiamo dunque dall’edificio, attraversando le vie desolate in cerca di una stazione. Lo spazio claustrofobico della metropoli ci stringe nella sua morsa industriale, l’aria filtra faticosamente tra i palazzi insopportabilmente stretti che ci fanno da contorno, passo dopo passo il nostro rumore sembra riempire le strade ed entrare nelle case e nelle stanze fino alle orecchie di chiunque possa essere in ascolto.
Babbdi è una città vuota, morente, ma non del tutto abbandonata. Le insensate costruzioni s’intersecano e si dividono violentemente, andando a creare spazi liminali che sembrerebbero usciti dalla penna di Tsutomu Nihei. Ampie aree aperte contrastano con stretti cunicoli capillari, torrioni cementifici emergono dalle profondità della terra sovrastando l’orizzonte. Se nell’universo di “BLAME!” la follia architettonica era giustificata da un’IA difettosa, la quale costruiva e demoliva compulsivamente l’ambiente a seconda di alterazioni magnetiche, a Babbdi non ci sono chiari suggerimenti sulla sua effettiva progettazione topografica (che si direbbe altrettanto caotica).
Le forme non sono però le sole ad essere convolute, sporadicamente ci capiterà d’incontrare cartelli e insegne varie che a prima vista potrebbero passare inosservate ma che, se analizzate, riveleranno un significato contorto: le lettere, invertite o del tutto assenti, formano parole storpiate e vagamente intuibili. La loro sistemazione raffazzonata le pone nei posti più improbabili, piegate e consumate, a indicare, in questo caso, un’ipotetica stazione (“ttaiston”).
Seguendo confusamente le indicazioni arriviamo finalmente alla stazione di Babbdi. L’ingresso è sbarrato da diverse assi di legno affiancate da un curioso individuo, il quale ci riferirà che “senza biglietto i treni non si fermano nemmeno”, rimarcando che continuerebbero anche se ci dovessimo piazzare noi stessi sui binari.
Smantellata la barricata ci facciamo strada per la lunga scalinata sotterranea arrivando finalmente alla fine: ci sono due corsie ai lati della banchina, quest’ultima presenta un’unica convalidatrice elettronica. Sentiamo in lontananza rumori di rotaia mentre intravediamo una luce avvicinarsi sempre più. I vagoni ci scorrono davanti a velocità preoccupante, portando con loro l’assordante rumore che li ha accompagnati, insieme a ogni nostra speranza di fuga.
Inizia così la nostra avventura in questo labirinto di calce, tra arrampicate e salti nel vuoto, alla ricerca disperata di un biglietto per abbandonare una volta e per tutte quest’opprimente città fantasma.

Un ventre morto
L’architettura di Babbdi, per quanto inverosimile, è basata sulla corrente del “brutalismo” sviluppatasi in Europa negli anni '50 del dopoguerra. L’accentuazione delle forme geometriche unite alla rudezza del “cemento a vista” (cioè volutamente scoperto) dovevano trasmettere una sorta di vigore edilizio, spoglio di ogni intonaco.
UK National Theatre
In verità questo stile sfruttava la crescente richiesta di spazi residenziali, proponendo un sistema essenziale ma soprattutto economico per costruire velocemente densi centri abitativi. Una soluzione che ignorava completamente il senso estetico e identitario del luogo, ricoprendo il panorama di un grigiume indifferente, completamente disinteressato alla vita che avrebbe dovuto ospitare.

La sterile melma incolore, unita a una particolare predisposizione all’usura, ha reso questi monumenti simbolo di un decadimento societario che minacciava di straripare sul resto del mondo.

Solo negli ultimi anni ci sono state serie manifestazioni contro questo tipo di costruzioni, portando talvolta anche alla demolizione di alcune di esse. Le torri e i palazzi si ergono come presagi di un nostro possibile futuro, virtualizzato e reso esplorabile in Babbdi.
Il gioco diventa tramite di una riflessione filosofica: una finestra distopica sull’avvenire di una realtà già presumibile, incentivandoci all’azione così da evitarne l’effettiva realizzazione. 

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