mercoledì 27 settembre 2023

Uno Shark Movie "Mistico" (Recensione "The Black Demon")

Il 2023 è stato, a livello cinematografico, l’anno del Megalodonte. Questo leggendario squalo preistorico è stato protagonista di numerose pellicole scadenti e a bassissimo budget negli anni passati: basti pensare ai vari film dell’Asylum, come “Mega Shark vs. Giant Octopus” e i suoi seguiti, oppure a “Shark Attack 3: Megalodon” o a “Megalodon” del 2004. Nel 2018 questa incredibile creatura è approdata finalmente sul grande schermo grazie all’adattamento cinematografico del romanzo “Meg” di Steve Alten, con l’omonimo film diretto da Jon Turteltaub e con protagonista Jason Statham. Il film ha riscosso un ottimo successo, tanto che quest’anno è uscito nelle sale il sequel diretto da Ben Wheatley, “Meg 2: The Trench”, sicuramente la produzione più importante a livello di budget e portata con protagonista lo squalone preistorico.

Ma quest’anno è uscita, più in sordina, un’altra pellicola a tema Megalodonte, un film dal budget molto più basso di “Meg” e con ambizioni di tutt’altro tipo: “The Black Demon”. Diretto da Adrian Grunberg (regista di “Viaggio in Paradiso” con Mel Gibson e di “Rambo: Last Blood”, splatterosissimo quinto capitolo della saga), “The Black Demon” è uscito ad aprile nelle sale americane, mentre da noi è approdato solo di recente in DVD, Blu-Ray e sulle piattaforme streaming.
The Black Demon” è un film con un budget un po' più consistente ed una produzione più grossa alle spalle rispetto alla media degli shark movies che ci vengono proposti ogni anno; vedendo il poster si può pensare all’ennesimo film di serie B con protagonista lo squalone primordiale, invece il film di Grunberg ha delle ambizioni e una propria identità che lo distinguono da molte pellicole affini. Peccato per l’esecuzione, che non è all’altezza del concept e non rende giustizia a quello che sarebbe potuto essere un bel eco-vengeance squalesco…con una punta di misticismo.

Il film vede Paul Sturges, un ispettore che lavora per la compagnia Nixon Oil, che si reca con la sua famiglia in una piccola cittadina messicana della Baja California. Oltre a voler trascorrere un weekend con la moglie Inès e i suoi figli Audrey e Tommy (i giovani Venus Ariel e Carlos Solorzano), Paul vuole anche ispezionare la piattaforma petrolifera El Diamante, per cui lavora. Una volta arrivati in città, però, Paul e la sua famiglia si accorgono che la cittadina è ora pressoché abbandonata; i pochi abitanti rimasti, oltre ad essere ostili, li mettono in guardia da quello che chiamano “El Demonio Negro”. Nonostante gli avvertimenti, Paul raggiunge la piattaforma, anch’essa abbandonata, dove si imbatte in due lavoratori superstiti, Chato e Junior (rispettivamente Julio Cesar Cedillo e Jorge A. Jimenez). Scopriranno ben presto che le acque della baia sono infestate da un gigantesco squalo preistorico, un Megalodonte, conosciuto dai locali come “il Demone Nero”, e che secondo Chato è stato risvegliato dal dio della pioggia Tlaloc come punizione per l’essere umano, a causa dei suoi soprusi ai danni della natura. Paul e la sua famiglia dovranno dunque unire le forze per sconfiggere la creatura e fuggire dalla piattaforma.
Diciamolo subito: “The Black Demon” è un film deficitario sotto diversi punti di vista, una pellicola che non può propriamente dirsi riuscita. L’ambizione del racconto, che vorrebbe essere quasi “epico”, non è sostenuta dal budget (alto rispetto ad altri shark movies ma comunque non da colossal) e da un’eccessiva serietà che ne appesantisce il tono e la visione da parte dello spettatore. La regia di Grunberg è pulita e funzionale e le riprese subacquee sono piuttosto curate, ma l’impacchettamento generale non è sufficiente per rendere credibile una storia che vuole prendersi così tanto sul serio e che ha l’ambizione di trasmettere un messaggio forte e di far riflettere lo spettatore. L’ecologia, il rispetto per l’ambiente, l’anticapitalismo e il rispetto per la natura…questi sono i temi principali della pellicola, messaggi nobili, ma ormai abusatissimi in film di questo tipo e qui banalizzati da un didascalismo eccessivo (soprattutto nei dialoghi) e da momenti decisamente melensi. La tematica dell’ambientalismo è sempre importante, ma ormai è stata trattata in così tanti modi che è difficile trasmettere qualcosa di nuovo a riguardo, oltretutto in un monster movie di questo tipo. La scrittura del film banalizza una tematica attuale, rendendola scontata e fin troppo gridata in faccia allo spettatore.

La fotografia di Antonio Riestra (già curatore della fotografia de “La Madre” di Andy Muschietti) è buona ma piuttosto televisiva, anche se restituisce l’atmosfera “polverosa” di una cittadina ormai fantasma e un senso di abbandono e miseria. Il ritmo del film è discontinuo: la prima parte è incalzante e incuriosisce per i suoi sviluppi e per i misteri che semina, ma poi il film si sfilaccia e i molti momenti di dialogo e confronto tra personaggi risultano ripetitivi e soporiferi.
Però… se “The Black Demon” è un film che si perde nella sua messa in scena e nella sua “ingenuità” di fondo, bisogna comunque dargli credito per la nobiltà e il coraggio di essere uno shark movie diverso dal solito e per alcuni spunti molto interessanti presenti nella storia. Fin dal prologo, in cui assistiamo al primo attacco da parte del mostruoso Megalodonte (una scena particolarmente riuscita e che fa ben sperare per lo sviluppo della pellicola), ci è subito chiaro che “The Black Demon” non sarà il solito shark movie e che il predatore protagonista non sarà il solito pescecane. Scopriremo infatti che il Megalodonte infuriato non è altro che un’estensione di Tlaloc, dio della pioggia e della fertilità secondo la mitologia azteca. Tlaloc vuole punire gli esseri umani per la loro tracotanza nei confronti della natura; e quale miglior aiutante in questa missione se non uno squalo preistorico di 20 metri? L’aspetto mitologico e leggendario di “The Black Demon” è senza dubbio l’elemento più affascinante e curato della pellicola. Grazie a racconti popolari, antichi feticci e mitologia, la figura del Megalodonte in questo film assume connotati mistici e ancestrali, quasi da divinità lovecraftiana.

Davvero d’impatto e decisamente inquietanti i momenti in cui i personaggi vedono cose che non ci sono (come corpi maciullati in acqua o barche di salvataggio inesistenti), allucinazioni provocate proprio da Tlaloc stesso, che cerca di far sprofondare i protagonisti nell’abisso della follia. Il Megalodonte, seppur si veda poco e i suoi attacchi siano piuttosto sporadici (probabilmente per condensare il budget), è ben fatto e la CGI è quasi sempre convincente. Purtroppo la tensione durante le scene di attacco è molto poca, ed è un peccato, ma Grunberg sembra molto più interessato al dramma dei personaggi e al lato mitologico che a trasmettere paura vera e propria.
Gli attori sono in parte conosciuti, a partire da Josh Lucas, bravo caratterista visto in “American Psycho”, “Session 9”, “Ford v. Ferrari” e “La notte del giudizio per sempre”, qui nel ruolo da protagonista; Lucas crede molto nel progetto e si impegna al massimo e il personaggio di Paul è abbastanza interessante per il suo dramma interiore e gli scheletri nell’armadio che nasconde. Purtroppo anche lui cade vittima di dialoghi fin troppo “da bacio perugina” e di momenti drammatici così sfacciati da perdere di credibilità. Da segnalare anche la bella e brava Fernanda Urrejola (vista in “Cry Macho” di Clint Eastwood) nei panni di Inès e Julio Cedillo in quelli di Chato, forse il personaggio più riuscito della pellicola, colui che si fa portavoce del lato mistico del film e delle leggende su Tlaloc. Abbastanza pretestuosi i due ragazzini protagonisti, anche se il piccolo Tommy è protagonista di alcuni momenti simpatici (come la sua difficoltà nel pronunciare il nome “Tlaloc”). Non può mancare il cagnolino da salvare, qui un chihuahua di nome… Toro!
Il finale è in linea con il resto del film: ha la pretesa di essere epico, drammatico ed emozionante, ma a causa di un eccessivo didascalismo e di una recitazione così caricata da risultare artificiosa perde di pathos e mordente. Bisogna però riconoscere che l’ultimissima inquadratura, quel piccolo dettaglio mostrato in mezzo all’oceano, è molto efficace e d’impatto, perché fa una cosa che il film avrebbe potuto fare per tutta la durata: parlare per immagini.

Alla fine, “The Black Demon” si può definire, nonostante i suoi elementi di interesse, un’occasione sprecata. Scontenta chi si aspetta uno shark movie più tradizionale, teso e sanguinolento, ma non soddisfa nemmeno chi cerca qualcosa di diverso da un prodotto di questo ormai abusatissimo filone. Con un budget più alto ed una cura maggiore nella scrittura sarebbe potuto essere un interessantissimo nuovo tassello nel genere. Così, rimane un prodotto dimenticabile con intenti nobili e spunti interessanti, ma che avrebbe richiesto una cura maggiore sotto diversi aspetti. Comunque l’appassionato del genere, per completezza, può dargli un’occhiata. Peccato, sarà per la prossima!
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venerdì 22 settembre 2023

BABBDI - un manifesto sociale


Premessa
Camminando per le strade delle nostra città subiamo passivamente un continuo condizionamento percettivo. L'ambiente che viviamo rispecchia quelli che sono i nostri valori sociali e culturali, una dinamica in cui la nostra identità è affermata in funzione del contesto, il quale ci restituisce un'immagine speculare di quello che si può definire "il nostro posto nel mondo". Questa forma dialettica è così profondamente assestata nella concezione comune da risultare scontata, eppure mai abbastanza elaborata. C'è un motivo se gli anonimi sobborghi francesi vengono tuttora ristrutturati andando a implementare quella che è, da ormai trecento anni, la caratteristica architettura haussmanniana.
Colombes, Paris
Così come il maestoso progetto di rinnovo del centro storico di Francoforte (chiamato "ritorno alla gloria" dalle fonti ufficiali) ristabiliva, da planimetria originale, gli antichi edifici gotici andati distrutti in seguito ai bombardamenti del quaranta.
Neue Altstadt, Frankfurt
La presenza (o assenza) fisica di monumenti identificativi influenza direttamente l'individuo e, per estensione, la comunità, sviluppando un'identità sociale che si costruisce prima di tutto dall'esterno e che, risuonando dall'interno di ciascuno, va a sintonizzare e definire gli ideali dominanti di un popolo.

Un biglietto per Babbdi
Sviluppato dai fratelli Sirius e Léonard Lemaitre, Babbdi appare su Steam il 22 Dicembre 2022 (dov’è tuttora disponibile gratuitamente) presentandosi come un semplice gioco esplorativo in prima persona. Una volta avviato, però, ci si rende immediatamente conto che qualcosa non va: il menù principale presenta, oltre a un accompagnamento musicale minimo (composto per lo più da rumori spiacevoli) una serie di errori ortografici quali “OIPPTION” per regolare le impostazioni o “QUUTI” per chiudere il gioco. Se a primo impatto questi titoli possono sembrarci quantomeno curiosi, capiremo presto che si tratta di un qualcosa di molto più serio.
Dopo aver cliccato su “PLAME” ha inizio la nostra partita. La transizione al gameplay è istantanea, ci ritroviamo subito in un lungo corridoio semi-illuminato da rumorose lampade a soffitto (alcune delle quali difettose o completamente guaste). Sulla sinistra ci accorgiamo di una fila di finestre che seguono tutto il muro, una rapida occhiata ci rivela di essere abbastanza in alto e alzando lo sguardo possiamo contemplare la nostra prima vista del paesaggio urbano (fatto di spigolosi blocchi di cemento coperti da un cielo grigio).
Avanzando sul pianerottolo passiamo davanti a diverse stanze abitate da strani esseri umanoidi, con cui sarà possibile interagire tramite dialogo. I loro occhi, completamente bianchi, cominceranno a fissarci non appena entreremo nel loro spazio percettivo.
Basteranno poche parole a farci capire che questa città, Babbdi, è un luogo indesiderabile, e tutti sembrano volerla abbandonare al più presto. Chiusa tra un’enorme diga e un’insormontabile muraglia, l’unico modo di lasciare la città è via treno. Scendiamo dunque dall’edificio, attraversando le vie desolate in cerca di una stazione. Lo spazio claustrofobico della metropoli ci stringe nella sua morsa industriale, l’aria filtra faticosamente tra i palazzi insopportabilmente stretti che ci fanno da contorno, passo dopo passo il nostro rumore sembra riempire le strade ed entrare nelle case e nelle stanze fino alle orecchie di chiunque possa essere in ascolto.
Babbdi è una città vuota, morente, ma non del tutto abbandonata. Le insensate costruzioni s’intersecano e si dividono violentemente, andando a creare spazi liminali che sembrerebbero usciti dalla penna di Tsutomu Nihei. Ampie aree aperte contrastano con stretti cunicoli capillari, torrioni cementifici emergono dalle profondità della terra sovrastando l’orizzonte. Se nell’universo di “BLAME!” la follia architettonica era giustificata da un’IA difettosa, la quale costruiva e demoliva compulsivamente l’ambiente a seconda di alterazioni magnetiche, a Babbdi non ci sono chiari suggerimenti sulla sua effettiva progettazione topografica (che si direbbe altrettanto caotica).
Le forme non sono però le sole ad essere convolute, sporadicamente ci capiterà d’incontrare cartelli e insegne varie che a prima vista potrebbero passare inosservate ma che, se analizzate, riveleranno un significato contorto: le lettere, invertite o del tutto assenti, formano parole storpiate e vagamente intuibili. La loro sistemazione raffazzonata le pone nei posti più improbabili, piegate e consumate, a indicare, in questo caso, un’ipotetica stazione (“ttaiston”).
Seguendo confusamente le indicazioni arriviamo finalmente alla stazione di Babbdi. L’ingresso è sbarrato da diverse assi di legno affiancate da un curioso individuo, il quale ci riferirà che “senza biglietto i treni non si fermano nemmeno”, rimarcando che continuerebbero anche se ci dovessimo piazzare noi stessi sui binari.
Smantellata la barricata ci facciamo strada per la lunga scalinata sotterranea arrivando finalmente alla fine: ci sono due corsie ai lati della banchina, quest’ultima presenta un’unica convalidatrice elettronica. Sentiamo in lontananza rumori di rotaia mentre intravediamo una luce avvicinarsi sempre più. I vagoni ci scorrono davanti a velocità preoccupante, portando con loro l’assordante rumore che li ha accompagnati, insieme a ogni nostra speranza di fuga.
Inizia così la nostra avventura in questo labirinto di calce, tra arrampicate e salti nel vuoto, alla ricerca disperata di un biglietto per abbandonare una volta e per tutte quest’opprimente città fantasma.

Un ventre morto
L’architettura di Babbdi, per quanto inverosimile, è basata sulla corrente del “brutalismo” sviluppatasi in Europa negli anni '50 del dopoguerra. L’accentuazione delle forme geometriche unite alla rudezza del “cemento a vista” (cioè volutamente scoperto) dovevano trasmettere una sorta di vigore edilizio, spoglio di ogni intonaco.
UK National Theatre
In verità questo stile sfruttava la crescente richiesta di spazi residenziali, proponendo un sistema essenziale ma soprattutto economico per costruire velocemente densi centri abitativi. Una soluzione che ignorava completamente il senso estetico e identitario del luogo, ricoprendo il panorama di un grigiume indifferente, completamente disinteressato alla vita che avrebbe dovuto ospitare.

La sterile melma incolore, unita a una particolare predisposizione all’usura, ha reso questi monumenti simbolo di un decadimento societario che minacciava di straripare sul resto del mondo.

Solo negli ultimi anni ci sono state serie manifestazioni contro questo tipo di costruzioni, portando talvolta anche alla demolizione di alcune di esse. Le torri e i palazzi si ergono come presagi di un nostro possibile futuro, virtualizzato e reso esplorabile in Babbdi.
Il gioco diventa tramite di una riflessione filosofica: una finestra distopica sull’avvenire di una realtà già presumibile, incentivandoci all’azione così da evitarne l’effettiva realizzazione. 

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