mercoledì 31 gennaio 2024

"Bassifondi" di Trash Secco (Recensione)

 “Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare. «Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi».
(Incipit del romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald)1

Un topo, fermo a un nasone2, incomincia a scendere dei gradini di pietra. La macchina da presa su di lui, che precede il suo movimento nel seguire il piccolo rivolo d’acqua nato dalla fontanella. Con i suoi brevi e lesti passi accompagna l’occhio dello spettatore da una Roma che ben conosce verso un suo angolo buio e apparentemente nascosto. Allora flash allucinati appaiono sullo schermo. Iniziano a delinearsi pian piano i contorni di alcune lettere e, quasi fosse un’indicazione stradale, il titolo del film chiarisce finalmente dove il piccolo roditore ci ha condotti: Bassifondi.3
È significativo, in un’opera che ritrae Roma come un vero e proprio inferno dantesco, che a fare da Virgilio allo spettatore sia un topo, animale simbolo del marciume, del degrado e della povertà. Perché la vera Roma, che non è di certo l’idilliaco Paradiso che vivono i turisti, da sempre si nasconde dietro l’intoccabile maschera di una tradizione millenaria fatta di grandi storie e ineffabili bellezze.

L’artista romano Francesco Pividori, noto ai più sul web con lo pseudonimo Trash Secco, ha cercato con le sue opere di smascherare questo inganno, di demolire dall’interno questa rappresentazione stereotipata di Roma come città dei sogni, proponendone una diametralmente opposta, nella quale i riflettori vengono puntati sulle brutture e le contraddizioni che la abitano. Lo ha fatto con Nefasto: Er Mostro de Zona (2012)4, un mockumentary “illegale” nel quale viene mostrata la squallida vita delle borgate romane, tra abuso di sostanze e prostituzione; lo ha fatto poi con i videoclip musicali di artisti come Ketama126, all’interno dei quali tenta di abbattere il tabù della droga5; lo fa ora con il suo debutto alla regia cinematografica Bassifondi (2022) che, seppur presentato in anteprima nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma6, riscuotendo grande approvazione da parte di pubblico e critica, è purtroppo rimasto oscurato da altri titoli nella successiva fase di distribuzione nelle sale.

Da sinistra a destra: Gabriele Silli, Trash Secco e Romano Talevi
I bassifondi che Trash Secco mostra e racconta in questo suo film non hanno nulla a che fare con l’ormai stereotipata periferia a cui la cinematografia (e televisione) italiana, in una lunga tradizione che passa per il neorealismo e per Pasolini, ci ha abituati. Qui si è nel cuore pulsante della città ma in quella parte di essa estranea al continuo via vai di turisti e lavoratori che riempie le vie del centro. Un cono d’ombra in cui tutte quelle persone che si sono ritrovate a vivere in strada, costretti o per scelta, hanno deciso di rifugiarsi. Un ritirarsi che non significa però arrendersi, ma che corrisponde ad una forte presa di coscienza: in una società in cui a regnare sono l’egoismo e l’indifferenza, paradossalmente, non resta altro che isolarsi. Per ricominciare da capo, per provare a creare un’alternativa più giusta. Allora l’auto-isolamento non rimane a lungo un muto e disperato pianto, ma si trasforma presto in un urlo collettivo verso l’opprimente ingiustizia che regola il mondo.
L’ultimo film di Trash Secco si pone così il difficile obiettivo di raccontare una realtà diversa che, guidata da un sentimento comune di rifiuto nei confronti della società, il grande (e piccolo) schermo ha rifiutato di mostrare per troppo tempo.

La prima idea di Bassifondi è nata fra noi due (Francesco Pividori e il fratello ndr), una sera. Una Peroni di troppo, giravamo tra i senza tetto di Ponte Sisto. Io avevo 15 anni e lui 20. Litigavamo, ubriachi, e lui disse: pensa se facessero un film su due barboni. Così ho cominciato a scrivere la storia, che mi sono portato dietro per tanti anni.7

Nasce così, dal semplice desiderio di raccontare il rapporto col fratello, l’idea embrionale di un film dalla forte carica politica e sociale come Bassifondi, e non è un caso che la sceneggiatura finale, che sviluppa il soggetto di Trash Secco e Greta Scicchitano, sia firmata da due fratelli: Damiano e Fabio D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza, Favolacce, America Latina).

Attraverso la loro penna Francesco Pividori e suo fratello si re-incarnano nei corpi dei protagonisti Romeo e Callisto (rispettivamente interpretati da Gabriele Silli e Romano Talevi), due senzatetto che vivono sulle sponde del Tevere ai piedi dell’isola Tiberina.
Come due “perfetti” fratelli (anche se fratelli non sono) sono agli antipodi, sia nelle loro conformazioni fisiche sia nei loro modi di fare. Romeo alto, snello e piuttosto taciturno, Callisto basso, tozzo e che non smette mai di parlare, spesso a sproposito. Callisto ormai non ha nulla da perdere ed è spinto da un rancoroso odio nei confronti della società, Romeo è invece desideroso di recuperare quel qualcosa (o quel qualcuno) che la vita in strada gli ha portato fin troppo lontano.

Un po’ alla Paterson di Jim Jarmusch il film mostra e rimostra le monotone giornate dei due clochard costretti a risalire ogni mattina le scalinate che conducono alla Roma “di sopra” e ad affrontare la massa indifferente di gente che affolla le sue strade all’urlo di “spiccetto, spiccetto!”, nella speranza di racimolare quel poco che basta per un misero quadratino di pizza bianca o per una pasticca che concili il loro sonno.

L’asciutta ed essenziale scrittura dei fratelli D’Innocenzo riesce a costruire sapientemente, a partire dalle parole e dai gesti quotidiani e ripetitivi di una vita in convivenza, l’imperfetta sintonia che lega questi due senzatetto talmente diversi tra loro che, messi assieme, non possono non ricordare una classica coppia di comici alla Stanlio e Ollio o, meglio, alla Franco e Ciccio.8

Eppure di comico nel film c’è ben poco. Viene utilizzato, a partire dalla sceneggiatura, ogni possibile strumento per impedire, il più a lungo possibile, l’immedesimazione o almeno un certo avvicinamento emotivo e patetico con i personaggi. Lo spettatore si ritrova a sentirsi quasi in colpa di provare una certa ripugnanza nei confronti di Romeo e Callisto, ma è esattamente ciò che Trash Secco ha voluto suscitare. Perché quell’istinto di distogliere lo sguardo è, in fondo, il germoglio dell’indifferenza e l’unico modo per contrastarla oggi sembra essere attraverso l’arte: costringere lo spettatore a fare i conti col mondo in cui vive, risvegliarlo dal torpore indotto dalle fantasmatiche illusioni che lo circondano, sbattendogli in faccia tutto lo schifo in cui è invischiato.
Così la scenografia e la regia arrivano a dividere nettamente in due Roma, una divisione in cui, come in Parasite di Bong Joon-Ho, le differenze a livello architettonico-spaziale delle varie ambientazioni sono funzionali ad evidenziare una profonda crepa sociale.

La fotografia illumina gli ambienti, prevalentemente esterni, in cui si muovono i protagonisti di colori smorti, spenti, acidi. Quasi come una scia tossica che, proveniente dal degrado della Roma “di sotto”, segue costantemente i due senzatetto, ovunque essi vadano.

A sua volta la scrittura è brutalmente cruda e realistica, specie nei dialoghi. Callisto in particolare utilizza un volgare vocabolario “di strada” impregnato di omofobia e misoginia che, oltre a rappresentare un’assoluta novità sul grande schermo, soprattutto oggi dove la libertà dell’artista si ritrova ingabbiata all’interno dei paletti imposti dal politicamente corretto e da una censura sempre più pressante, finisce per distanziare ancor di più lo spettatore.

Addirittura gli zoom in avanti che portano ai primissimi piani sul volto rigato dalle lacrime di Romeo, in un procedimento speculare a quello che Kubrick in Barry Lyndon ha utilizzato per rendere un certo effetto di straniamento, lasciano lo spettatore assolutamente impassibile. Perché l’occhio di quest’ultimo, pur seguendo per tutta la durata della pellicola solo ed esclusivamente i due clochard, è quello alieno e giudicante del passante.

Non c’è pathos, non c’è drammaticità. C’è solo indifferenza.
In questo processo di straniamento gioca un ruolo fondamentale anche il simbolismo filosofico e religioso che permea tutto il film: frequentemente appaiono sullo schermo icone religiose, animali, esplicite citazioni artistiche, ma nulla viene spiegato, non c’è apparentemente alcun legame logico tra le sequenze che ritraggono i momenti di vita di Romeo e Callisto e tali simboli. Trash Secco non ha voluto imporre un messaggio né tantomeno offrire una “giusta” chiave di lettura al suo film, ma ha consegnato nelle mani degli spettatori tutti gli strumenti utili per dare un senso alle immagini viste. Ora sta solo a loro trovare le risposte alle proprie domande. Perché Bassifondi, pur essendo narrativamente “classico” e lineare, sembra nascondere costantemente qualcosa, una risposta (o una domanda) che continua a sfuggire, ma che lascia dietro di sé il bisogno di essere inseguita.

Tutto ciò che il film ha silenziosamente costruito, inquadratura dopo inquadratura, culmina nel suo poetico finale onirico. Romeo si ammala gravemente ma Callisto non può far nulla per salvare il compagno e, disperato per un’amicizia o forse un amore ormai finito, si tuffa nelle contaminate acque del Tevere, sangue di Roma sporco dei peccati di chi la abita. Inizia a nuotare sempre più in profondità, sempre più lontano dal mondo che conosce, verso un luogo nuovo. Arrivato sul letto del fiume, al centro di un perfetto cerchio di luci al neon, si ricongiunge con il suo caro amico. Callisto accoglie il corpo spento del compagno tra le sue braccia, in un’identica posa della Pietà di Michelangelo. Un pianto sommesso e soffocato, o forse l’accettazione stoica del dolore? Un invito a rifugiarsi nel ricordo e in sé stessi, o forse nella speranza che qualcosa lì fuori possa finalmente cambiare?

Ancora una volta, lontana e impassibile, la macchina da presa non dà risposte. I titoli di coda scorrono inesorabili sullo schermo nero lasciando dietro di sé un senso di vuoto, portato dalla consapevolezza che esistono un’infinità di importanti domande che magari, accecati o distratti, non ci siamo mai posti.
Ma trovare una risposta è fortunatamente spesso più semplice di porsi la giusta domanda.

Bassifondi rappresenta un invito a mettersi e a mettere in discussione, a ricercare quella giusta distanza critica tra noi e il mondo, ad interrogarsi su ciò che ogni giorno diamo per scontato. Per evadere dalla rassicurante cecità della società. Per non rimanere più indifferenti.
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NOTE
1 Traduzione di Tommaso Pincio dall’edizione de Il Grande Gatsby, Scott F. Fitzgerald, Minimum Fax, 2011.
2 Tipica fontanella pubblica d’acqua potabile di Roma, diventata uno dei simboli della città.
4 La bieca censura di Youtube colpisce il film “Nefasto Er mostro de zona” di Trash Secco, L'Antikulturale, La Meteora, via Internet Wayback Machine, 10/5/2018.
5 Per approfondire l’argomento si consiglia la lettura dell’articolo scritto da Francesco Pividori in risposta alle polemiche nate attorno al suo video musicale Rehab diretto per Ketama126. Il rap italiano ha un problema di droga?, Giacomo Stefanini, Vice, 15/10/2019.
6 Bassifondi, due amici e la vita ai margini di Roma, Giorgio Gossetti, Ansa.it, 9/6/2023.

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mercoledì 17 gennaio 2024

Ivan il terribile e suo figlio Ivan - Orrori su Tela

Il più grande paradosso dell’esistenza umana è la stasi permanente creatasi nell’abisso che separa le emozioni provate e l’innata incapacità di controllarle. La voragine che le divide è piuttosto ampia: qualcuno potrebbe vederla come una benedizione, siamo liberi dai meccanismi del controllo che potrebbero intaccare in qualche modo la naturale fisionomia del sentimento; altri, invece, potrebbero interpretarla come una condanna.

Proprio il dominio sulle emozioni, che ne comprometterebbe l’autentico fluire, è lo stesso ingrediente segreto che renderebbe la vita più facile a tutti, meno segregata nella sfera dell’imprevedibilità. I tratti più dolorosi della nostra esistenza, legati indissolubilmente alle nostre passioni e tormenti, non sono altro che il paradigma di ciò che siamo e di ciò che non abbiamo.

La rabbia, in particolare, è un’emozione primaria (ossia generata a livello sottocorticale), che si innesca nel momento in cui il soggetto sente di aver subito un’ingiustizia, o si sente minacciato. È probabilmente l’emozione più impegnativa dal punto di vista fisiologico. Ad esempio, attiva a livello neurobiologico delle aree specifiche del cervello, cioè l’amigdala e il sistema limbico, responsabili dell’ira e dell’impulsività.

Nel corso dei secoli sono stati molti i filosofi che si sono espressi circa la rabbia, a partire dal mondo antico. Seneca ha definito l’ira come una passione dagli effetti assolutamente deleteri, responsabile di tutti i flagelli e le violenze del mondo, paragonandola ad una belva feroce che va domata. D’altro canto, le posizioni degli stoici non sono dissimili. Ritenevano, infatti, che se l'uomo eradicasse completamente la collera, avremmo un mondo moralmente migliore. È proprio la dimensione morale della rabbia a rappresentare il baricentro di tutte le discussioni circa l’argomento, ma è altrettanto discutibile che la rabbia sia moralmente necessaria agli individui nel meccanismo primordiale di difesa che accomuna tutti.

L’impulsività è forse la conseguenza più drastica della rabbia, che si concretizza spesso in atti di violenza. Un caso paradigmatico di tali effetti drammatici è il celebre dipinto, realizzato da Ilya Repin fra il 1881 e il 1883, intitolato Ivan il Terribile e suo figlio Ivan.

Il quadro è un olio su tela dalle dimensioni di 199.5 cm x 254 cm, raffigurante uno dei momenti più drammatici della vita dello zar Ivan IV Vasilyevich, anche conosciuto come Ivan “Grozny”, o Ivan il Terribile. Successivamente alla sua realizzazione, fu acquistato dall’uomo d’affari di Mosca Pavel Tretyakov, che lo mise in mostra nella sua galleria. Tuttavia, lo zar Alessandro III trovò l’opera d’arte irrispettosa e offensiva, tanto che fu temporaneamente bandita dall’esposizione pubblica.

Ivan era un individuo particolarmente complesso, che nel corso della sua giovinezza ha subito diversi traumi. Aveva appena tre anni quando fu scelto per succedere come Gran Principe a suo padre e, al momento dell’incoronazione, la Russia era divisa in vere e proprie fazioni di aristocratici, che si contendevano il dominio politico. Proprio a causa di questo scenario turbolento la madre di Ivan fu scelta per governare il paese fino a che il figlio non avesse raggiunto l'età adulta, ma il piano fallì quando fu avvelenata e morì tragicamente. Da quel momento in poi Ivan fu maltrattato dalle varie caste fino al 1538, quando poté subentrare politicamente. Durante il suo regno la Russia è passata da regno feudale a Impero e, in quanto primo zar del paese, stabilì i principi politici che ne fecero una vera e propria nazione. Il suo temperamento era decisamente incline all’impulsività irruenta, come testimonia il fatto che suo figlio, Ivan il Giovane, fosse frustrato dal numero di litigi infruttuosi che causava il padre, tanto che iniziò ad esprimersi contro la sua condotta. Il loro legame, nonostante ciò, era particolarmente forte, avendo anche combattuto fianco a fianco in passato. Per questo motivo, il giovane Ivan non avrebbe mai immaginato che proprio il temperamento iracondo di suo padre lo avrebbe condotto alla morte.

Il dipinto di Repin cattura l’attimo in cui, il 19 Novembre del 1581, Ivan il Terribile realizza di aver appena ucciso suo figlio. Secondo gli storici, una lite fra i due avrebbe innescato quell’atto di violenza inaudita, dopo che la terza moglie di Ivan il Giovane, Yelena Sheremeteva, sarebbe passata in sottoveste davanti allo zar, gesto oltraggioso nei confronti del monarca.
Иван Грозный и сын его Ива
Ivan il Terribile, vestito di abiti scuri, regge il figlio alla vita, mentre con la mano cerca di fermare l’emorragia alla testa, che lo avrebbe successivamente portato alla morte. L’arma del delitto è in bella vista, un bastone posizionato sulla parte anteriore del dettagliato tappeto, sul quale si svolge la tragica scena. Gli occhi spalancati esprimono le emozioni provate dallo zar, quasi si riesce ad immaginare ogni fibra del suo corpo in fibrillazione a causa dello shock. Ha appena ucciso suo figlio, nonché unico erede sano al trono. Il viso è sporco degli schizzi di sangue, provocati dall’impatto del bastone sulla testa di Ivan il Giovane, rendendone l'espressione ancora più inquietante.

È interessante notare come lo sguardo di Ivan il Terribile, così carico di sofferenza e di orrore, non sia direttamente rivolto verso il figlio morente. Sembra quasi che lo zar, in preda al panico, non riesca a confrontarsi direttamente con le conseguenze del suo impeto di rabbia, scosso dal rimorso e consumato dal senso di colpa. La mano del figlio, poggiata sulla spalla del padre, è l’ultimo gesto di amore e perdono che Ivan il Giovane è stato in grado di compiere, mentre la vita abbandonava lentamente il suo corpo, come testimonia lo sguardo assente.

L’intento di Repin nella realizzazione del quadro era quello di sensibilizzare le persone sul tema della violenza, dopo gli eventi politici del 1881 (che si risolsero nella morte dello zar Alessandro II), sperando di dissuadere chiunque altro volesse impegnarsi in atti altrettanto truculenti.

A questo punto, risulta lecito chiedersi quanto moralmente necessaria sia la rabbia.
 
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