Consistenza primaria dell’essere, linfa vitale che scorre nelle fenditure che separano i quadranti della nostra essenza: è la contraddizione. Siamo antinomie che respirano, fini paradossi di ardori incastrati in contenitori di tessuto epiteliale, ossa e organi; miscele eterogenee di sostanze apparentemente inconciliabili, che nonostante tutto coesistono più o meno pacificamente. Sarebbe, infatti, abbastanza riduttivo descrivere l’animo umano come un’onda che si dispiega su un percorso di linearità, infrangendosi solo quando incontra il limite della propria finitezza. Siamo, piuttosto, onde quadrate, tipiche delle intersezioni fra più mari, perché proprio come loro, oltre a scontrarci con i nostri limiti, ci scontriamo anche con gli altri segmenti della nostra essenza, alcuni più reconditi di altri.
Tuttavia, è bene tenere a mente che l’esistenza di due aree, una nera e una bianca, non implica l’impossibilità ontologica di un’area grigia a dividerle, a fare da spartiacque fra i due estremi, a conferire continuità a ciò che sembra incompatibilmente diverso o, in alternativa, a indicare le varie opzioni fra i due eccessi. Non siamo calibrati per essere iperboli. È proprio per questa singolare duttilità dell’indole umana che i sentimenti sono tanto complessi, oberati da una carica quasi patetica, mantenendo un’intrinseca dignità d’azione nel momento in cui cooperano. Ci sono circostanze in cui, infatti, è possibile scrutare dietro l’inconsistente facciata di frivola apparenza ben più di quanto si mostri. Facciamo da equilibristi sul filo sottile che separa il labile confine fra l’essere e l’apparire, e a dimostrarlo sono gli studi pubblicati nel 1981 dallo psicologo Seymour Fisher, nei quali emerge quello che viene definito paradosso del clown triste.
Si tratta di uno studio che mette in evidenza il contrasto fra l’atteggiamento esuberante dei comici e dei clown con il loro mondo interiore, spesso caratterizzato da sofferenza e angosce, seguendo un andazzo tipico del temperamento ciclotimico, descritto da Emil Kraepelin come un alternarsi del temperamento ipertimico e temperamento distimico. L’umorismo diventa, in questo caso, un’arma di difesa e un meccanismo di coping, attraverso il quale si tenta di nascondere o, comunque, di arginare un aspetto più malinconico.
È quello che emerge anche dall’opera di Jan Matejko, Stańczyk durante un ballo alla corte della regina Bona di fronte alla perdita di Smolensk (Stańczyk w czasie balu na dworze królowej Bony wobec straconego Smoleńska), che ritrae il celebre giullare della corte polacca in un atteggiamento assorto, triste, e decisamente inquieto.
Stańczyk divenne famoso durante il rinascimento polacco, presso la corte di Sigismondo I il Vecchio, lasciando trapelare dalle sue esibizioni anche tutta una serie di tematiche sociali e politiche. Sono proprio le riflessioni storiche a fare da genesi al malessere mostrato dal giullare, preoccupato per le sorti della Polonia, che aveva appena perso la città di Smolensk nel 1514, in una guerra contro l’odierna Russia. La struttura tripartita del dipinto, tuttavia, riesce eloquentemente a costruire una narrazione orizzontale in grado di descrivere a pieno lo stato d’animo di Stańczyk.
La parte centrale del dipinto ha senza dubbio come baricentro visivo la figura del giullare, seduto col capo chinato e le dita delle mani intrecciate. Il suo corpo sembra rilassato, facendo da contrasto con la sua espressione contratta da quelli che si può ipotizzare siano consistenti flussi di pensiero. La sua marotte, il suo scettro da giullare, giace sul pavimento, creando l’ennesimo contrasto fra il segmento destro dell’opera, nel quale si vede svolgere una festa di corte, e l’aria tragica che si respira nel frammento centrale. Lo sguardo del giullare sembra perso nel vuoto, si potrebbe quasi immaginare che non sbatta le palpebre da svariate decine di secondi, troppo assorto nei suoi pensieri per poter essere rigido e diligente nei confronti dei compiti impostigli dalla fisiologia naturale del corpo. Il baricentro tematico di questa porzione di quadro è, in realtà, quella che è la causa di tanto turbamento, nonché la lettera posta sul tavolo di fianco alla sedia dove giace il giullare, epistola nella quale probabilmente si legge del fatto che il gran Duca della Lituania ha perso Smolensk, dovendola cedere al gran Duca di Mosca. Si intravedono sulla carta il nome Samogizia, una delle cinque regioni culturali della Lituania, e la data 1533. Si tratta, per quanto riguarda quest’ultimo dettaglio, di un’incongruenza storica, in quanto la città di Smolensk è stata in realtà persa nel 1514, e un ballo alla corte della Regina Bona sarebbe stato improbabile in quell’anno in quanto è salita al potere solo nel 1518.
Nella frazione destra del quadro, separata abilmente attraverso l’espediente di un tendone, si svolge un ballo di corte. Le figure delle persone danzanti sembrano quasi fondersi fra loro, fatta eccezione per il nano che porta un liuto, in primo piano e raffigurato con una gradazione cromatica più scura rispetto allo sfondo; egli ha particolare importanza dal punto di vista simbolico, in quanto presagio di decadenza. Altrettanto importante dal punto di vista simbolico è la parte sinistra del quadro, caratterizzata da una finestra attraverso la quale si intravede la cattedrale di Wawel, nella quale venivano incoronati i re. Accanto a essa una cometa fa da ulteriore presagio di caduta dell’impero.
Il quadro, globalmente, presenta un’incredibile coerenza cromatica, dominato dal rosso e da uno sfondo scuro che porta naturalmente l’occhio a cadere sulla figura di Stańczyk. Il giullare è, infatti, non solo un eloquente mezzo di critica sociale, ma anche un buon promemoria per noi, per ricordarci che pur facendo da equilibristi fra l’essere e l’apparire, l'esistere avrà sempre il sopravvento sul sembrare.
ARTICOLO DI
REVISIONE DI
COPERTINA DI