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mercoledì 31 gennaio 2024

"Bassifondi" di Trash Secco (Recensione)

 “Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare. «Ogni volta che ti sentirai di criticare qualcuno», mi disse, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i tuoi stessi vantaggi».
(Incipit del romanzo Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald)1

Un topo, fermo a un nasone2, incomincia a scendere dei gradini di pietra. La macchina da presa su di lui, che precede il suo movimento nel seguire il piccolo rivolo d’acqua nato dalla fontanella. Con i suoi brevi e lesti passi accompagna l’occhio dello spettatore da una Roma che ben conosce verso un suo angolo buio e apparentemente nascosto. Allora flash allucinati appaiono sullo schermo. Iniziano a delinearsi pian piano i contorni di alcune lettere e, quasi fosse un’indicazione stradale, il titolo del film chiarisce finalmente dove il piccolo roditore ci ha condotti: Bassifondi.3
È significativo, in un’opera che ritrae Roma come un vero e proprio inferno dantesco, che a fare da Virgilio allo spettatore sia un topo, animale simbolo del marciume, del degrado e della povertà. Perché la vera Roma, che non è di certo l’idilliaco Paradiso che vivono i turisti, da sempre si nasconde dietro l’intoccabile maschera di una tradizione millenaria fatta di grandi storie e ineffabili bellezze.

L’artista romano Francesco Pividori, noto ai più sul web con lo pseudonimo Trash Secco, ha cercato con le sue opere di smascherare questo inganno, di demolire dall’interno questa rappresentazione stereotipata di Roma come città dei sogni, proponendone una diametralmente opposta, nella quale i riflettori vengono puntati sulle brutture e le contraddizioni che la abitano. Lo ha fatto con Nefasto: Er Mostro de Zona (2012)4, un mockumentary “illegale” nel quale viene mostrata la squallida vita delle borgate romane, tra abuso di sostanze e prostituzione; lo ha fatto poi con i videoclip musicali di artisti come Ketama126, all’interno dei quali tenta di abbattere il tabù della droga5; lo fa ora con il suo debutto alla regia cinematografica Bassifondi (2022) che, seppur presentato in anteprima nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma6, riscuotendo grande approvazione da parte di pubblico e critica, è purtroppo rimasto oscurato da altri titoli nella successiva fase di distribuzione nelle sale.

Da sinistra a destra: Gabriele Silli, Trash Secco e Romano Talevi
I bassifondi che Trash Secco mostra e racconta in questo suo film non hanno nulla a che fare con l’ormai stereotipata periferia a cui la cinematografia (e televisione) italiana, in una lunga tradizione che passa per il neorealismo e per Pasolini, ci ha abituati. Qui si è nel cuore pulsante della città ma in quella parte di essa estranea al continuo via vai di turisti e lavoratori che riempie le vie del centro. Un cono d’ombra in cui tutte quelle persone che si sono ritrovate a vivere in strada, costretti o per scelta, hanno deciso di rifugiarsi. Un ritirarsi che non significa però arrendersi, ma che corrisponde ad una forte presa di coscienza: in una società in cui a regnare sono l’egoismo e l’indifferenza, paradossalmente, non resta altro che isolarsi. Per ricominciare da capo, per provare a creare un’alternativa più giusta. Allora l’auto-isolamento non rimane a lungo un muto e disperato pianto, ma si trasforma presto in un urlo collettivo verso l’opprimente ingiustizia che regola il mondo.
L’ultimo film di Trash Secco si pone così il difficile obiettivo di raccontare una realtà diversa che, guidata da un sentimento comune di rifiuto nei confronti della società, il grande (e piccolo) schermo ha rifiutato di mostrare per troppo tempo.

La prima idea di Bassifondi è nata fra noi due (Francesco Pividori e il fratello ndr), una sera. Una Peroni di troppo, giravamo tra i senza tetto di Ponte Sisto. Io avevo 15 anni e lui 20. Litigavamo, ubriachi, e lui disse: pensa se facessero un film su due barboni. Così ho cominciato a scrivere la storia, che mi sono portato dietro per tanti anni.7

Nasce così, dal semplice desiderio di raccontare il rapporto col fratello, l’idea embrionale di un film dalla forte carica politica e sociale come Bassifondi, e non è un caso che la sceneggiatura finale, che sviluppa il soggetto di Trash Secco e Greta Scicchitano, sia firmata da due fratelli: Damiano e Fabio D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza, Favolacce, America Latina).

Attraverso la loro penna Francesco Pividori e suo fratello si re-incarnano nei corpi dei protagonisti Romeo e Callisto (rispettivamente interpretati da Gabriele Silli e Romano Talevi), due senzatetto che vivono sulle sponde del Tevere ai piedi dell’isola Tiberina.
Come due “perfetti” fratelli (anche se fratelli non sono) sono agli antipodi, sia nelle loro conformazioni fisiche sia nei loro modi di fare. Romeo alto, snello e piuttosto taciturno, Callisto basso, tozzo e che non smette mai di parlare, spesso a sproposito. Callisto ormai non ha nulla da perdere ed è spinto da un rancoroso odio nei confronti della società, Romeo è invece desideroso di recuperare quel qualcosa (o quel qualcuno) che la vita in strada gli ha portato fin troppo lontano.

Un po’ alla Paterson di Jim Jarmusch il film mostra e rimostra le monotone giornate dei due clochard costretti a risalire ogni mattina le scalinate che conducono alla Roma “di sopra” e ad affrontare la massa indifferente di gente che affolla le sue strade all’urlo di “spiccetto, spiccetto!”, nella speranza di racimolare quel poco che basta per un misero quadratino di pizza bianca o per una pasticca che concili il loro sonno.

L’asciutta ed essenziale scrittura dei fratelli D’Innocenzo riesce a costruire sapientemente, a partire dalle parole e dai gesti quotidiani e ripetitivi di una vita in convivenza, l’imperfetta sintonia che lega questi due senzatetto talmente diversi tra loro che, messi assieme, non possono non ricordare una classica coppia di comici alla Stanlio e Ollio o, meglio, alla Franco e Ciccio.8

Eppure di comico nel film c’è ben poco. Viene utilizzato, a partire dalla sceneggiatura, ogni possibile strumento per impedire, il più a lungo possibile, l’immedesimazione o almeno un certo avvicinamento emotivo e patetico con i personaggi. Lo spettatore si ritrova a sentirsi quasi in colpa di provare una certa ripugnanza nei confronti di Romeo e Callisto, ma è esattamente ciò che Trash Secco ha voluto suscitare. Perché quell’istinto di distogliere lo sguardo è, in fondo, il germoglio dell’indifferenza e l’unico modo per contrastarla oggi sembra essere attraverso l’arte: costringere lo spettatore a fare i conti col mondo in cui vive, risvegliarlo dal torpore indotto dalle fantasmatiche illusioni che lo circondano, sbattendogli in faccia tutto lo schifo in cui è invischiato.
Così la scenografia e la regia arrivano a dividere nettamente in due Roma, una divisione in cui, come in Parasite di Bong Joon-Ho, le differenze a livello architettonico-spaziale delle varie ambientazioni sono funzionali ad evidenziare una profonda crepa sociale.

La fotografia illumina gli ambienti, prevalentemente esterni, in cui si muovono i protagonisti di colori smorti, spenti, acidi. Quasi come una scia tossica che, proveniente dal degrado della Roma “di sotto”, segue costantemente i due senzatetto, ovunque essi vadano.

A sua volta la scrittura è brutalmente cruda e realistica, specie nei dialoghi. Callisto in particolare utilizza un volgare vocabolario “di strada” impregnato di omofobia e misoginia che, oltre a rappresentare un’assoluta novità sul grande schermo, soprattutto oggi dove la libertà dell’artista si ritrova ingabbiata all’interno dei paletti imposti dal politicamente corretto e da una censura sempre più pressante, finisce per distanziare ancor di più lo spettatore.

Addirittura gli zoom in avanti che portano ai primissimi piani sul volto rigato dalle lacrime di Romeo, in un procedimento speculare a quello che Kubrick in Barry Lyndon ha utilizzato per rendere un certo effetto di straniamento, lasciano lo spettatore assolutamente impassibile. Perché l’occhio di quest’ultimo, pur seguendo per tutta la durata della pellicola solo ed esclusivamente i due clochard, è quello alieno e giudicante del passante.

Non c’è pathos, non c’è drammaticità. C’è solo indifferenza.
In questo processo di straniamento gioca un ruolo fondamentale anche il simbolismo filosofico e religioso che permea tutto il film: frequentemente appaiono sullo schermo icone religiose, animali, esplicite citazioni artistiche, ma nulla viene spiegato, non c’è apparentemente alcun legame logico tra le sequenze che ritraggono i momenti di vita di Romeo e Callisto e tali simboli. Trash Secco non ha voluto imporre un messaggio né tantomeno offrire una “giusta” chiave di lettura al suo film, ma ha consegnato nelle mani degli spettatori tutti gli strumenti utili per dare un senso alle immagini viste. Ora sta solo a loro trovare le risposte alle proprie domande. Perché Bassifondi, pur essendo narrativamente “classico” e lineare, sembra nascondere costantemente qualcosa, una risposta (o una domanda) che continua a sfuggire, ma che lascia dietro di sé il bisogno di essere inseguita.

Tutto ciò che il film ha silenziosamente costruito, inquadratura dopo inquadratura, culmina nel suo poetico finale onirico. Romeo si ammala gravemente ma Callisto non può far nulla per salvare il compagno e, disperato per un’amicizia o forse un amore ormai finito, si tuffa nelle contaminate acque del Tevere, sangue di Roma sporco dei peccati di chi la abita. Inizia a nuotare sempre più in profondità, sempre più lontano dal mondo che conosce, verso un luogo nuovo. Arrivato sul letto del fiume, al centro di un perfetto cerchio di luci al neon, si ricongiunge con il suo caro amico. Callisto accoglie il corpo spento del compagno tra le sue braccia, in un’identica posa della Pietà di Michelangelo. Un pianto sommesso e soffocato, o forse l’accettazione stoica del dolore? Un invito a rifugiarsi nel ricordo e in sé stessi, o forse nella speranza che qualcosa lì fuori possa finalmente cambiare?

Ancora una volta, lontana e impassibile, la macchina da presa non dà risposte. I titoli di coda scorrono inesorabili sullo schermo nero lasciando dietro di sé un senso di vuoto, portato dalla consapevolezza che esistono un’infinità di importanti domande che magari, accecati o distratti, non ci siamo mai posti.
Ma trovare una risposta è fortunatamente spesso più semplice di porsi la giusta domanda.

Bassifondi rappresenta un invito a mettersi e a mettere in discussione, a ricercare quella giusta distanza critica tra noi e il mondo, ad interrogarsi su ciò che ogni giorno diamo per scontato. Per evadere dalla rassicurante cecità della società. Per non rimanere più indifferenti.
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NOTE
1 Traduzione di Tommaso Pincio dall’edizione de Il Grande Gatsby, Scott F. Fitzgerald, Minimum Fax, 2011.
2 Tipica fontanella pubblica d’acqua potabile di Roma, diventata uno dei simboli della città.
4 La bieca censura di Youtube colpisce il film “Nefasto Er mostro de zona” di Trash Secco, L'Antikulturale, La Meteora, via Internet Wayback Machine, 10/5/2018.
5 Per approfondire l’argomento si consiglia la lettura dell’articolo scritto da Francesco Pividori in risposta alle polemiche nate attorno al suo video musicale Rehab diretto per Ketama126. Il rap italiano ha un problema di droga?, Giacomo Stefanini, Vice, 15/10/2019.
6 Bassifondi, due amici e la vita ai margini di Roma, Giorgio Gossetti, Ansa.it, 9/6/2023.

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mercoledì 8 febbraio 2023

"Devil Times Two – Quando le tenebre escono dal bosco” - Ovvero una splendida lettera d'amore per i nostalgici di “Notte Horror” e “Lucio Fulci presenta"

Correva la fine del decennio degli anni '80 e l'inizio di quello dei '90 quando, accendendo la televisione un martedì estivo in seconda serata e sintonizzandola su Italia Uno, avreste sicuramente provato il brivido del ciclo “Notte Horror”, attesissimo da ogni appassionato di cultura e cinema horror. Il brivido però non sempre sarebbe stato dovuto all'eccessivo terrore di molti film trasmessi in quelle occasioni ma, a volte, capitava di trovare film di qualità abbastanza dubbie, spesso e volentieri con produzione italiana in grado di lasciar interdetti dopo la visione per i motivi più sbagliati. Tali pellicole non erano altro che veri e propri riempitivi realizzati solamente per essere mandati dopo film più celebri o con qualità certamente dubbia in modo da far durare di più il ciclo senza doverlo mozzare prima che l'estate fosse finita.

Chiunque abbia passato queste nottate davanti il vecchio televisore non può senz'altro dimenticarsi del ciclo “Lucio Fulci presenta”, ovvero un insieme di otto film supervisionati da Lucio Fulci in persona... o almeno secondo contratto viste le evidenti divergenze tra il prodotto ultimato e lo stile di Fulci. Ciclo che, dopo essere passato per emittenti televisive private e di minor fama proprio per la propria violenza e il proprio contenuto, ai tempi ritenuto fin troppo eccessivo per un emittente come Italia Uno, finì per raggiungere i propri simili sulla famosa emittente televisiva. Tali opere però, nonostante la qualità, erano piene di tanto amore e tanta passione per il genere che spesso e volentieri sfociavano in pellicole a fondo sperimentale, soprattutto dal punto di vista tecnico, indiscussamente unico.
Devil Times Two – Quando le tenebre escono dal bosco”, nuova opera horror sceneggiata e diretta da Paolo del Fiol che abbiamo avuto il piacere di visionare in anteprima, è un bellissimo e curatissimo omaggio a quelle notti e a quei cicli che tanto appassionavano gli spettatori, pur nella loro stranezza. La pellicola si apre con una scritta in scorrimento verso l'alto accompagnata da una voce narrante che racconta di come tante siano le opere cinematografiche e televisive provenienti dagli anni '60 e '70 ormai smarrite per via della mancata distribuzione, che ha portato alla perdita dei master originali in qualche vecchio magazzino dove ormai la polvere regna sovrana. “Devil Times Two” si piazza proprio tra queste opere, spacciandosi per una pellicola italo-giapponese trasmessa unicamente due volte in un'emittente televisiva veneta di nome “Telelaguna”, da cui fu registrata in una VHS ora ritrovata durante un trasloco. La pellicola, una lettera d'amore per gli appassionati di quelle notti, presenta un filtro VHS misto a uno televisivo abbastanza nostalgico e per nulla fastidioso (a differenza di tante altre pellicole che hanno tentato di raggiungere lo stesso effetto) con tanto di spot pubblicitari e logo televisivo in sovrimpressione, che non fanno altro che immergere sempre di più lo spettatore in quei bellissimi ambienti notturni, veri sovrani di quelle calde estati.

Il film narra le vicende che circondano due esorcisti (Paolo Salvadeo ed Enrico Luly) e la superiora Madre Dolores (Amira Lucrezia Lamour) nei pressi dei boschi confinanti un vecchio convento, ormai in rovina, dove si narra del più grande esorcismo della storia, collegato a una strage. Dopo il misterioso ritrovamento di vittime di omicidio nei boschi, iniziano delle indagini che vedono l'assoluta volontà dei tre protagonisti nello scoprire la verità dietro le voci che collegano questi luoghi oscuri alla porta dell’Inferno. A dar filo da torcere ai tre della chiesa saranno due anime dannate Jamine e Umeko (Erika Saccà e Reiko Nagoshi) con le sembianze di due stupende e attraenti ragazze che si aggirano per i boschi, fino all'atto finale in cui lo scontro deciderà la vittoria del bene o del male.
Il cast che, oltre agli interpreti prima nominati, vede pure la presenza di Denise Brambillasca, Alessandro Carnevale Pellino e Martina Vuotti, risulta essere completamente azzeccato e inerente al progetto, riuscendo ad immergere sempre di più lo spettatore nell'atmosfera, anche grazie a delle tecniche utilizzate che non fanno altro che ricordare il modo di interpretare (e ridoppiare) i personaggi in quei film dell'epoca. 

Ovviamente con un materiale simile non possono mancare riferimenti a pellicole e B-movies amati dagli appassionati come “Il bosco 1”, con cui condivide molti dettagli della storia, pur rimanendo un film diverso rispetto all'ormai cult di Andrea Marfori. Il lato tecnico è caratterizzato da una regia molto buona che fa sentire la passione del regista verso questa tipologia di pellicole, da una colonna sonora composta principalmente da sintetizzatori abbastanza iconici per gli amanti di quelle nottate e da una fotografia molto curata e azzeccata.
Oltre a delle scene volutamente “trash” e a delle scene erotiche, quest'ultime però, a differenza di altre volte in cicli del genere in cui risultavano spesso essere piazzate lì casualmente, solo per far aumentare gli ascolti da parte del pubblico più adulto, sono abbastanza motivate dalla natura delle due anime dannate protagoniste; sono presenti anche delle inquadrature e delle scene molto inquietanti, forse proprio per la loro stranezza. Il film presenta numerosissime scene splatter realizzate con tanta passione e amore per l'arte che non fanno altro che migliorare il prodotto finale.

Per concludere, “Devil Times Two” è un'opera volutamente citazionista e a tratti intenzionalmente “trash”, girata con una passione non comune e con dei talenti abbastanza rilevanti, stra-consigliata ad ogni appassionato del genere e a chiunque debba molti dei propri “traumi” a quelle notti estive degli anni '80 (e non solo), passate davanti alla televisione a suon di film horror come “Il bosco 1” e “Bloody Psycho”.
Potete ottenere ulteriori informazioni corca "Devil Times Two" sulla sua pagina Facebook, mentre qui potete vederne il trailer.

ARTICOLO DI
FRANK BURTON

COPERTINA DI

REVISIONE DI
GIULIA ULIVUCCI E ROBB P. LESTINCI

mercoledì 25 gennaio 2023

Il mancato ritorno alla torre dell'orologio - Orrori Perduti: "REMOTHERED", il remake che non fu di "Clock Tower"

"Phenomena" del 1984 di Dario Argento è spesso considerato tra i migliori lavori del regista, nonché, a sua stessa detta, il suo film preferito. Oltre ad essere un caposaldo dell'horror italiano, però, ha anche il merito di aver ispirato uno dei grandi classici dell'orrore videoludico: Clock Tower

Il videogioco datato '95, in realtà, è ispirato alla filmografia di Argento in generale, omaggiandolo in diversi modi ed ispirandosi ai suoi capolavori come "Profondo Rosso" e "Suspiria" in modo anche diretto, ma mai quanto per "Phenomena": la protagonista stessa del gioco condivide fattezze e nome con la giovanissima Jennifer Connelly del film. Il titolo della casa di sviluppo nipponica Human Entertainment, diretto da Hifumi Kono, è un survival horror punta e clicca che riprende sia le atmosfere e le tematiche del giallo italiano, con una buona dose di slasher, ma anche ispirato al recente successo horror di quegli anni, "Resident Evil". La trama vede l'orfana Jennifer Simpson adottata, assieme ad alcune sue amiche, da un misterioso uomo che abita in una magione isolata nella quale le ragazze si trasferiranno. Ben presto tutte, eccetto la nostra protagonista, verranno ritrovate morte, uccise in modo brutale da un assassino malato mentale armato di un enorme paio di forbici (da qui il nome, Scissorman), dando via ad una corsa per la sopravvivenza della superstite, destinata a risolvere i misteri della casa e della famiglia che vi abita lungo la sua disperata ricerca di una via di fuga. 
Il successo del gioco darà il via a una serie di 4 capitoli, secondo il quale sarà il primo ad arrivare anche in occidente, spacciato per il numero uno della saga. A seguito del fallimento della Human Entertainment, nel 2002, Capcom e Sunsoft, acquisiti i diritti della serie, ne svilupperanno un quarto e ultimo capitolo, diretto dal regista Kinji Fukasaku (noto per la sua trilogia di "Battle Without Honor and Humanity") per la sua prima ed unica volta alle prese con il mondo videoludico. Sfortunatamente, questo sarà anche l'ultimo titolo per "Clock Tower". Kono, il game director del primo gioco, provò a convincere più volte Capcom a produrre un reboot, nonostante il flop che fu l'ultimo capitolo, ma ogni tentativo fu vano. Nel 2005, la Capcom rilasciò un titolo, "Haunting Ground", che sarebbe dovuto originariamente essere un capitolo della saga, nonostante il progetto sia stato poi cambiato, venendo comunque considerato un seguito spirituale per "Clock Tower" e, nel 2016, Kono riprenderà molti elementi del suo classico, omaggiandolo in "Project Scissors: NightCry", progetto nato grazie a Kickstarter, considerabile ancora più dell'altro un successore spirituale, se non un vero e proprio reboot, di "Clock Tower" e diretto dal regista della saga di "The Grudge", Takashi Shimizu. Il gioco non ricevette un benvenuto troppo caloroso sulla scena e finì velocemente nel dimenticatoio. E a questo punto della storia si torna in Italia

Chris Darril, al secolo Mario Christopher Darril Valenti, è un game developer siciliano che, dopo alcuni progetti indipendenti realizzati con RPG Maker e ispirati a "Clock Tower" e "Silent Hill", viene notato dallo stesso Kono e affiancato a Shimizu e a Masahiro Ito (designer di "Silent Hill") proprio per il suo "NightCry". Il titolo per il quale ricevette l'attenzione del game developer, però, è un titolo che, almeno nella sua forma originale, non ha mai visto la luce del giorno, "REMOTHERED".
Pensato come un vero e proprio remake di "Clock Tower", ispirato a Dario Argento e H. P. Lovecraft per atmosfera, e sviluppato dal solo Darril in modo del tutto indipendente, il lavoro sul titolo iniziò nel 2007. Il gioco non entrerà, però, in produzione effettiva fino al 2009, quando, usando Adobe Photoshop, i primi asset 2D, ispirati a dipinti su tela classici nell'estetica, non vennero creati. Numerosi screenshot e filmati di gioco sono stati rilasciati nel corso della programmazione, ma era evidente che il titolo fosse in continua mutazione, apparentemente allontanandosi sempre di più dal materiale originale. Tra il 2009 e il 2012 diverse versioni del gioco si susseguirono e si parlò anche di un sequel in progetto, "Remothered: Grave Torments", che avrebbe visto una nuova protagonista (la violinista Katherine Gale) ritrovarsi in un sinistro paesino italiano (o della Bosnia) dopo aver ereditato la biblioteca di suo padre, finendo presto vittima di una misteriosa malattia. Venne presto chiarito, però, che qualsiasi lavoro su un seguito sarebbe iniziato solo dopo l'uscita del primo capitolo, che aveva ancora la priorità. 

La primissima versione, di cui si sa poco e nulla, è quella del progetto iniziale del 2007. Non si sa molto su questa build, se non che la protagonista, Jennifer, una ragazza sulla ventina, sarebbe stata accompagnata da delle amiche ad indagare in una magione dove avrebbero avuto luogo gli omicidi, non dissimilmente dal primo "Clock Tower". Esistono solo una manciata di immagini risalenti a questo periodo, nessuna rappresentante gli amici della protagonista o l'assassino, e, il solo filmato esistente, è considerato perduto. Nonostante poco sia noto, è verosimile pensare che anche nel resto degli elementi avrebbe seguito abbastanza fedelmente il gioco originale e che il killer sarebbe stato lo Scissorman. 
Screenshot di uno dei primi prototipi
La seconda versione del 2009 presentò un gioco molto più ricco e ambizioso di quello precedente: Jennifer Sutton (nome cambiato rispetto all'originale, Jennifer Simpson), nuovamente un'adolescente e non più un'adulta come nel titolo originale, avrebbe nuovamente esplorato un'inquietante magione popolata da stravaganti personaggi, intrecciando alcuni elementi del proposto sequel a quelle del progetto iniziale, iniziando a distanziarsi da "Clock Tower", pur mantenendolo come principale ispirazione. 

Questa versione si sarebbe aperta in flash forward con una reporter, Dakota Wrang, intenta a descrivere gli abominevoli omicidi avvenuti nella magione nella campagna di Romsdalen, posseduta dalla famiglia Baroni (invece che Barrows come nel gioco originale), descrivendo il ritrovamento di cadaveri, principalmente di bambini, terribilmente mutilati. Come in "Clock Tower", Jennifer e le sue amiche, delle ragazzine orfane, sarebbero state accompagnate dalla loro maestra, Ms. Mary Reed, nella loro nuova abitazione. Seguendo abbastanza fedelmente la premessa del titolo del '95, il padrone di casa non sarebbe stato presente e Jennifer e le sue amiche, sospettose, avrebbero iniziato ad indagare per la casa. Appena arrivata, inoltre, la protagonista avrebbe immediatamente notato figure spettrali (non presenti nell'originale) aggirarsi per la magione, essendo stata capace di vedere entità spiritiche per tutta la sua vita, sentendosi pazza. Mary prende però la ragazza in disparte, spiegandole che non deve pensare questo, che si tratta solo di stress per il cambiamento e di iniziare a prendere la sua medicina.
A differenza del gioco di Kono, qui le amiche di Jennifer non avrebbero trovato tutte immediatamente la morte, ma sarebbero state ucciso una ad una lungo il progresso dell'avventura. Il numero di nemici sarebbe anche notevolmente aumentato: se il titolo originale presenta l'iconico Scissorman (il piccolo cannibale Bobby Barrows), Mary Barrows (corrispettivo di Mary Reed) e il deforme e mostruoso Dan Barrows, "Remothered" avrebbe introdotto Madame Svenska, Richard Felton, The Hungry Wolf, The Drowned Bald Man, The Ancestor e gli Homunculus (piccole bambole di porcellana dotate di vita propria), affiancati allo Scissorman, ora ribattezzato Robert Baroni. La mappa sarebbe stata anche ampliata con l'aggiunta di una foresta nei pressi della casa
Concept art di Robert Baroni
Della terza versione, datata 2011, non si sa molto, se non alcuni accenni di trama e i concept art di alcuni personaggi. Jennifer (questa volta non più il solo personaggio giocabile, in quanto affiancata da Rosemary Reed e Lindsay Silverhat, altre due orfane adottate dalla famiglia Baroni), si sarebbe ritrovata in Provenza, tra le Alpi, e il mistero sarebbe stato collegato al misterioso suicidio di una donna e alla morte di suo figlio, oltre che a un culto satanico. Anche in questa versione le ragazze sarebbero state fatte fuori una ad una da una sfilza di assassini, nonostante si conoscano solo la "Red Nun" e Robert Baroni, nuovamente lo Scissorman, nonostante gli evidenti cambiamenti estetici: sarebbe stato un adulto e non più un bambino, avrebbe indossato una maschera di porcellana (forse un richiamo agli homunculus della versione precedente) e le sue cesoie sarebbero state collegate direttamente al suo braccio destro. Nonostante fosse stato pensato inizialmente in 3D per PC e Wii U, il titolo venne poi ripensato usando RPG Maker XP

La soundtrack del gioco venne rilasciata digitalmente il 2 dicembre 2011, composta da Mattia Gosetti, David Gonzalez, Dan Beyer e con la collaborazione di Ueickap, ma lasciando fuori i pezzi remake di canzoni del primo "Clock Tower" che sarebbero stati presenti nella versione del 2009.
Dal 2013, però, il progetto venne messo in pausa a causa dei lavori per "Forgotten Memories: Alternate Realities" e "NightCry". Da quel momento, il titolo sarebbe finito in un limbo finché non venne ufficialmente cancellato. Chris Darril, però, ripensò il progetto nella sua interezza, unendo elementi di tutte le versioni e del sequel mai realizzato, includendo anche alcuni dei personaggi che aveva creato come Richard Felton o Rosemary Reed, seppur fortemente modificati, realizzando il suo horror di successo "Remothered: Tormented Fathers" del 2017, considerato il miglior gioco italiano dell'anno e vincitore di molti premi anche internazionali, e il sequel uscito nel 2020 "Remothered: Broken Porcelain", anch'esso vincitore di numerosi riconoscimenti compreso un "Community's Game of the Year". Il progetto originale di un remake di "Clock Tower", però, non vide mai la luce del giorno e, ad oggi, non vi è nessun piano per riportare il franchise in vita in alcun modo.

ARTICOLO DI



REVISIONE DI
GIULIA ULIVUCCI e LORENZO SPAGNOLI

martedì 27 dicembre 2022

Il pittore ancora vivo - Aldo Callà

Fra un atomo e l’altro della nostra anima ci sono interstizi intimi e remoti, ed è proprio lì che vanno ad innestarsi le elucubrazioni più ponderate rispetto al nostro senso d’identità. Tuttavia, questo microcosmo di soggettività viene dissipato nel più dispersivo macrocosmo dell’età contemporanea, teatro di una storia umana nella quale il confine tra gli estremi della moralità diventa sempre più labile. È la teologia del denaro ad aver avuto forse l’impatto più severo sull’uomo contemporaneo, alienandolo in modo attento e studiato dalla propria preziosa bolla di autodeterminazione. È proprio su questo sfondo, infatti, che la storia, sia individuale che del mondo, perde di consistenza spaziale e temporale, rilegando l’uomo in un’area di neutralità, indeterminatezza e irrilevanza, nella quale si corre il rischio di essere inglobati nell’anonimato come “oblio della memoria e dell’autocoscienza”, come sostenuto da Günther Anders. In questo stato di cose così caotico, costituito dall’ambivalenza di un’inerzia umana e di un eccessivo dinamismo secolare di sistemi e impianti, risulta fondamentale trovare un mezzo utile a recuperare la soggettività e l’individualismo, nonché uno strumento che elevi l’uomo da mero aggregato biologico (in greco antico zōḗ, ζωή) a persona con dei tratti identitari ben definiti, autocosciente, che brilli dunque di luce propria e non riflessa, proprio come il guerriero omerico (in greco antico phṓs, φώς). 

È proprio l’arte a rappresentare il mezzo più valido tramite cui tagliare drasticamente la distanza fra l’individuo e l’universale. Secondo, ad esempio, il paradigma estetico elaborato da Friedrich Leopold von Hardenberg, detto Novalis, l’arte rappresenta la concretizzazione dell’immaginazione, intesa come estensione dell’attività universale che confluisce nell’inesaustibilità dell’Io. Questa estetica è perfettamente riscontrabile nelle opere di Aldo Callà, il giovane “Pittore ancora vivo”. 
Con una magistrale abilità stende sulla tela non solo colori, ma anche storie ed emozioni, permettendo al fruitore dell’opera di immergersi nell’intricata rete di sentimenti e resoconti di vita che con la sua arte lascia al mondo come testimonianza di presenza ma soprattutto di profondità. Incastrata tra i suoi sfondi bordeaux e i suoi soggetti c’è esattamente l’essenza di tutta la soggettività e l’individualismo emotivo che in questo momento della storia umana va recuperato, mettendo in tal modo in primo piano le emozioni più crude, che a conti fatti sono esattamente ciò che ci rende vivi e autocoscienti. 

La sua filosofia artistica consiste, infatti, nello smembrare le emozioni con estrema eleganza, raccontandone la genesi e la deriva tramite narrazioni derivanti dalla sua esperienza di vita, senza remore nel mostrarne anche gli aspetti più malinconici, insofferenti e infelici. La classe e la finezza dei suoi dipinti consistono proprio nel trasporto emotivo che generano nell’osservatore, lasciando che siano le immagini a parlare al posto suo, e probabilmente dicendo anche più di quanto non possano fare le parole. Non esiste, infatti, un vocabolario adeguato per descrivere i sentimenti e le passioni, la loro intensità trascende qualsiasi declinazione linguistica, ma le sue tele riescono a carpire quanto di più astratto ci sia nel complesso meccanismo cognitivo che lega indissolubilmente le emozioni e l’esperienza. Si tratta dunque di un’arte intima, personale, ma allo stesso tempo con cui ci si identifica facilmente proprio grazie alla peculiare rappresentazione che riesce a svolgere di quegli interstizi remoti che separano un atomo e l’altro della nostra anima. 

La continuità e il legame fra esperienza e sentimenti viene raffigurato dall’artista in modo particolarmente eloquente in una serie di dipinti, che descrivono la genesi, la durata e la fine di una relazione tossica. 
Il primo quadro della serie, “L’appuntamento”, rappresenta la fase germinale della relazione, il principio di quello che aveva il potenziale di essere un amore estremamente travolgente. Tramite un raffinato simbolismo, infatti, viene a delinearsi un’atmosfera di speranza e di curiosità, nutrita da un’inconsapevole idealizzazione – quasi platonica – dell’altra persona. L’occhio rivolto verso sinistra, infatti, sembra guardare avanti, galleggiando nel corpo smaterializzato del soggetto dipinto che perde di consistenza nel momento in cui la mitizzazione stessa dell’amata non ha consistenza. La sublimazione dell’amata viene narrata anche tramite l’uso della rosa, poggiata sul tavolo, simbolo di amore e passione a partire da tempi molto remoti. È presso gli antichi greci, infatti, che ha origine il mito della nascita della rosa, a cui si associa la successiva simbologia: la dea della primavera, Cloride, trasformò in rosa una ninfa morta nel tentativo di preservarne la bellezza mantenendola incorruttibile rispetto all’inesorabile mutare delle cose, e le Cariti (le tre dee associate al culto della natura secondo Esiodo) le elargirono una bellezza incantevole. Assieme alla fiamma dell’accendino, questa simbologia suggerisce un clima permeato dall’auspicio e dal desiderio, e intrecciati finemente con l’inconsistenza del soggetto rappresentato quasi riescono ad anticipare l’esito finale della narrazione.
Il secondo dipinto della serie, “Appuntamento con D”, illustra con estrema abilità la tensione fra i due lembi – introduttivi e conclusivi – della narrazione. È un momento di transizione, nel quale sembra che la figura idealizzata abbia soddisfatto le aspettative iniziali. La rosa è posizionata in una bottiglia, quasi fondendosi cromaticamente con lo sfondo, mentre la fiamma della speranza ha acceso una sigaretta. È necessario, tuttavia, tenere presente che entrambi questi elementi sono soggetti al deperimento indotto dal tempo, destinati a esaurirsi nell’etere impercettibile della vuota potenzialità, di un’infausta e bugiarda possibilità. 
È, infatti, solo col tempo che la donna raffigurata mostra la sua vera natura. Col terzo dipinto della serie, “La tossicità di aida”, Callà mette in evidenza l’evidente fallacia logica dell’idealizzazione, un’illusione destinata a logorarsi per lasciare posto a una crudele delusione. La rosa è appassita, nel posacenere quello che sembra il mozzicone di una sigaretta consumata è in realtà un Estathè al limone, tutto ciò di materiale che l’artista riusciva ad offrire all’amata. Tramite la metamorfosi della donna in serpente viene illustrata la sua vera inclinazione, in contrapposizione sia alle aspettative e alla curiosità descritte nel primo quadro, sia alla sua versione sublimata del secondo quadro. 

L’impianto speculativo di Callà non si esaurisce a riflessioni di questo tipo, ma si estende sino a comprendere anche una critica meticolosa e spietata nei confronti del teatro dell’arte contemporanea. Il suo interesse per l’arte nasce sin dalla tenera età, a partire da quando a 7 anni durante un viaggio in macchina suo zio, docente di storia dell’arte, gli raccontava delle travagliate biografie di alcuni artisti, suscitando in lui grande interesse. Notò subito che, sullo scenario del mercato dell’arte, il valore degli artisti aumentasse spesso e volentieri solo dopo la loro morte, costringendoli così a vivere una vita nell’anonimato. Non si tratta di un anacronismo: al giorno d’oggi, infatti, si sta consolidando una cultura dell’arte incentrata esclusivamente sul denaro e sul guadagno, rilegando l’artista in una zona grigia nella quale la sua creatività, il suo valore e le sue capacità comunicative non vengono valutate nel modo giusto. Da qui l’appellativo di “Pittore ancora vivo”: è un invito a volgere lo sguardo verso un orizzonte diverso, sollecitando la trattazione di una materia ancora palpabile, prima che sia troppo tardi. Questa critica si concretizza nella brillante serie di dipinti che Callà ha realizzato sul teatro dell’arte, i cui soggetti sono la metafora degli attori protagonisti di questa cornice. 
Il gallerista”, ad esempio, assume le sembianze di un cervo, animale regale, elegante, incarnazione del lavoro più bello del mondo. Le corna, tuttavia, hanno fattezze di mani umane, a rappresentare il vizio e l’avidità di chi ha trasformato l’esperienza dell’arte in mero guadagno. 
Il collezionista”, allo stesso modo, è rappresentato da un maiale, simbolo intramontabile di abbondanza e avarizia. Lo sfondo azzurro, un cielo, è metafora della sua irraggiungibilità, mentre i soldi nella sua mano sembrano privi di consistenza, simbolo di un guadagno esclusivamente monetario, che in realtà svaluta incredibilmente l’artista e l’arte stessi. 
“Il polipo pittore” dovrebbe tecnicamente essere il protagonista dello scenario in quanto produttore e forza creativa dell’arte. Viene, però, raffigurato quasi come un personaggio secondario, intento a osservare quasi inerme il fluire caotico dell’industria dell’arte, depersonalizzante e svilente. Lo sfondo giallo senape è carico di valore, in quanto è, secondo l’artista, un colore che non dovrebbe esistere, ma esiste, e proprio perché esiste che è possibile l’esistenza di tutto il resto. Nonostante la sua marginalità e impotenza in quello che è lo spietato mercato dell’arte, infatti, l’artista è in realtà il nucleo vivo e acceso dell’arte. 
La musa” svolge allo stesso modo un ruolo chiave in questo scenario: la peculiarità del dipinto è che la musa è l’unica raffigurata dietro a un tendone chiuso, mentre le precedenti tre tele mostrano i personaggi di questo teatro in rapporto dinamico e partecipativo. La musa, infatti, siede dietro le quinte, ispira l’arte e l’artista, operando sia una funzione costruttiva che distruttiva nella duplice accezione attribuibile alla più generica accezione di sentimento, di piacere o di dispiacere. 

L’invito di Callà non è mai stato così attuale come oggi. In una dimensione nella quale la soggettività tende a disperdersi nel caos, è fondamentale ritrovarla tramite l’arte e l’emozione, nonostante i tentativi disperati dell’industria di trasformare in soldi tutto ciò che tocca. 

Potete seguire i lavori del Pittore ancora vivo su Instagram o su TikTok.

ARTICOLO DI
MANUELA GRIFFO

sabato 16 luglio 2022

Schiaparelli, la moda surrealista e l’oltre-umano

Elsa Schiaparelli (Roma, 10/9/1890 - Parigi, 13/11/1973) è stata una stilista, costumista e sarta italiana naturalizzata francese; proveniva da una famiglia di intellettuali, il padre Celestino fu professore di lingua e letteratura araba all’Università di Roma e fu il primo bibliotecario dell’Accademia dei Lincei; Elsa studiò filosofia e si dedicò alla scrittura di poesie, ma la pubblicazione della raccolta “Arethusa” nel 1911 creò attriti con la famiglia, che la mandò in un convento della Svizzera Tedesca. Nel 1913 partì per Londra, dove conobbe e sposò il conte William de Wendt de Kerlor, teosofo con cui si trasferì a New York nel 1916. Dopo il fallimento del matrimonio e la malattia della figlia, Elsa entrò in contatto con la scena dadaista, grazie a Francis e Gaby Picabia, coppia che le fece conoscere il fotografo Man Ray e Marcel Duchamp.
A Parigi ebbe il primo contatto con la moda, visitando la casa dello stilista Paul Poiret, di cui divenne allieva e per cui disegnò alcuni modelli; nel 1925 divenne per breve tempo stilista della Maison Lambal, ma dopo essere stata respinta dall’atelier Maggy Rouff iniziò a lavorare nel suo appartamento, creando gli iconici maglioni neri decorati con disegni bianchi trompe-l’oeil. Il maglione era considerato ancora un indumento da campagna, non adatto alla moda cittadina perché informe, ma l’ispirazione venne da una donna americana e dalla sarta armena Aroosiag “Mike” Mikaëlian, che aveva un piccolo laboratorio artigianale familiare. Sebbene già Coco Chanel avesse iniziato a produrre maglieria a macchina, l’innovazione di Mike e poi di Schiaparelli fu nell’uso di due fili di lana a contrasto; il maglione a doppio nodo della Schiaparelli, con scollo a V e nodo disegnato a trompe-l’oeil, suscitò l’interesse di Vogue nel dicembre 1927 e quello dei produttori di massa degli Stati Uniti, che lo imitarono, portando la moda fuori da Parigi e all'attenzione della ditta di New York Abraham & Straus, con cui la Schiaparelli iniziò un sodalizio.
Nel 1928, grazie alla grande richiesta, Elsa Schiaparelli fondò la Schiaparelli - Pour le sport, caratterizzandosi per i suoi maglioni tatuaggio, i pullover con ossa, costumi da bagno e accessori; le decorazioni della prima collezione erano papillon trompe-l’oeil, scheletri, righe, motivi geometrici, tatuaggi marinari, animali marini dai colori accesi. Ben presto la sperimentazione decorativa divenne sperimentazione nei materiali, con borse di metallo, abbinamenti fra lana e seta, o gomma e pelle. Il crollo dell’haute couture parigina del 1929 permise comunque alla Schiaparelli di lavorare con l’America, aprendo un negozio anche a New York. Nel 1932 la maison cambiò nome in Schiaparelli - Pour le sport, pour la ville, pour le soir, espandendo la propria produzione, aprendo un negozio a Londra e degli uffici a New York, portando la Schiaparelli sulla copertina del Time nel 1934, prima stilista donna a comparirvi.
Sono da ricordare le boutique aperte a Place Vendome a Parigi, decorate dai disegnatori e designer Jean-Michel Frank e Diego Giacometti; la Schiaparelli rivoluzionò la moda parigina aprendo una sezione pret-a-porter nei propri negozi e divenendo la prima a creare collezioni composta da elementi legati ad un unico tema, esposte in sfilate spettacolo, con musica ed effetti di luce, diventando opere teatrali. Fra le più assidue clienti vi erano attrici di tutto il mondo come Marlene Dietrich, Katharine Hepburn, Greta Garbo e Ginger Roberts, e personaggi illustri come Wallis Simpson (duchessa di Windsor e moglie di Edoardo VII dopo la sua abdicazione) e Gala Dalì (modella, artista e commerciante d’arte, moglie di Salvador Dalì); i modelli di Elsa Schiaparelli entrarono nell’arte, con il ritratto di Nusch Eluard creato da Picasso, e nella movida francese, con la creazione di costumi per numerosi balli in maschera, con ispirazioni orientali, dalla moda della maharani Sita Devi, fatte di turbanti e sari.
Negli anni ‘30 la Schiaparelli visitò numerose volte New York e nel 1935 anche una fiera commerciale in Unione Sovietica; divenne costumista per il teatro e il cinema, creando opere come l’abito aragosta per Mae West in Every Day’s a Holiday (1937). Sebbene l’arte in generale sia sempre stata una importante fonte di ispirazione per Schiaparelli, si possono ricordare le iconiche collezioni Pagana, ispirata all’arte di Botticelli, L’art italien de Cimabue à Tiepolo, il vero influsso artistico venne dall’arte surrealista e da quella cubista, con rapporti stretti con artisti del calibro di Jean Cocteau, Salvador Dalì, Tristan Tzara, Jean Dunand, Elsa Triolet, Alberto Giacometti e Meret Oppenheim. Il lavoro con questi artisti fu diretto, disegnando modelli, creando accessori veri, come i guanti con artigli, cicatrici, unghie fatte di pitone rosso e non, fino ai guanti finti dipinti sulle mani da Picasso. In questo periodo nacquero i celebri cappelli di feltro con piume di metallo, cappelli a tricorno o a bombetta con velette da abbinare tanto a vestiti da sera quanto ad abiti sportivi. Il surrealismo di Schiaparelli si declinò anche nei materiali, come il tessuto simile alla carta basato sulla tecnica, usata da Picasso e Braques, del Papier collé, oltre alle decorazioni di stile cadavre exquis, con articoli sulla Schiaparelli e disegni di Cecil Beaton. Molte furono le creazioni surrealiste che suscitarono scalpore, come il cappello a forma di cervello, bottoni che sembrano lucchetti, arachidi e graffette prodotti in collaborazione con Jean Schlumberger. Elsa Schiaparelli utilizzò anche tessuti innovativi, creando abiti da sera in tessuti sintetici o tweed, un abito effetto corteccia d’albero e un mantello da sera in rhodophane, chiamato cape de verre.
Ad Elsa Schiaparelli si deve anche l’invenzione di un nuovo colore, il rosa shocking, forse ispirandosi a un colore usato dal pittore Christian Bérard; il nome della tinta divenne anche nome per il profumo Shocking! del 1937, con flacone creato dalla scultrice Leonor Fini riproducendo la silhouette dell’attrice Mae West.
Nel 1935 creò il primo accessorio con Dalì, un portacipria a forma di quadrante telefonico: l’oggetto meccanico divenne così opera d’arte, tema che ritornò in una borsa a forma di telefono; con Dalì nacquero abiti in organza decorati con prezzemolo e aragoste, decorazioni con labbra rosse a patchwork, cappelli a forma di scarpa rovesciata o di calamaio con tanto di piuma, oppure di cosciotto di montone e di nido di gallina: questi pezzi vennero esposti all’Exposition internationale du surréalisme del 1938.
Nel 1936 Schiaparelli creò un tailleur decorato con cassetti, ispirandosi alla Venere di Milo con Cassetti di Dalì e Dalì stesso creò una decorazione per una boutique della maison, un orso impagliato, dipinto rosa shocking e decorato con cassetti.
Le collezioni del 1938 si distinguono per i temi molto diversi, la prima, Il circo, ricamata da Fracois Lesage, comprendeva il vestito da sera nero con uno scheletro imbottito, mentre la seconda, Pagana, sfoggiava ricami più elaborati, di fili di metallo, e decori a specchio, che formavano delle armature per la donna, ispirandosi agli abiti ecclesiastici medievali e alle divise militari dell’800. le decorazioni trompe-l’oeil, spesso derivate dall’Antica Grecia, e i bottoni gioiello diventarono elementi chiave dello stile Schiaparelli.
La seconda guerra mondiale causò il declino della casa Schiaparelli, con la diminuzione della produzione a causa della guerra e poi con il mutamento della silhouette femminile a causa dell’avvento del New Look di Dior e dei modelli di Balenciaga; tuttavia Schiaparelli fu fondamentale per lanciare nuovi volti della moda come Hubert de Givenchy, Pierre Cardin e Philippe Venet. Nel 1954 Schiaparelli dichiarò bancarotta e chiuse la casa di moda, per poi morire nel 1973 a Parigi.

Questa non fu la fine della maison, che venne comprata e rilanciata dall’imprenditore Diego della Valle a partire dal 2007, cominciando una parabola ascendente che continua fino ad oggi, partendo dall’haute couture e dedicando dal 2016 risorse anche a collezioni di pret-a-porter. Lo stile Schiaparelli è stato finora portato avanti e rinnovato da quattro direttori creativi: Christian Lacroix (tra 2012 e 2013), Marco Zanini (tra 2013 e 2015), Bertrand Guyon (tra 2015 e 2019) e, oggi, Daniel Roseberry.
Le caratteristiche dello stile di Schiaparelli sono rimaste sinonimo del marchio, anche nella rinascita negli anni 2010 e, soprattutto, nel lavoro dell’odierno direttore creativo Roseberry: abiti neri con intarsi e accessori dorati, ispirati alla natura, allo spazio, ma anche all’anatomia umana, gioielli e accessori vari che diventano il punto focale del completo, stampe trompe-l’oeil. L’emblema delle parti del corpo dorate sembrerebbe derivare sia dalla tradizione dei santi tedeschi, incrostati di gioielli e oro (celebre è lo studio del fotografo e storico dell’arte Paul Koudounaris, cristallizzato nel libro Heavenly Bodies: Cult Treasures & Spectacular Saints from the Catacombs, che riecheggia l’omonimo tema del MET Gala del 2018), e la più lontana pratica decorativa dell’Antico Egitto, fatta di parti del corpo dorate, quasi maschere funerarie (bisogna ricordare che Ernesto Schiaparelli, senatore del Regno d’Italia, ma soprattutto egittologo e direttore fino alla morte nel 1928 del Museo Egizio di Torino, era il cugino di Elsa e la sua influenza può essere individuata in decorazioni di questo tipo).
La statuaria delle opere di Schiaparelli è reminiscente della metafisica del contemporaneo De Chirico, ma il contrasto con le forme sciolte, colate fluide di metalli che sembrano ancora caldi e tessuti avvolgenti, sono degne delle influenze più che dirette di Dalì, come se si trattasse di perle barocche (pluri-mediali) su tessuti semplici. Ma la duplicità continua con le stampe e i ricami, fantasie caleidoscopiche, spesso composte da innumerevoli perline colorate e appliques, che formano spirali, fiori e raggi di corpi celesti.
Anche le silhouettes risultano ambigue, con contrasti di geometria e fluidità, con spalle estremamente enfatizzate in larghezza quanto in verticalità, sopra semplici tubini di tessuto morbido e avvolgente. Il risultato complessivo ha qualcosa di alieno, esterno al piano umano, maschere faraoniche o accessori extraterrestri che portano all'ennesima potenza oggetti del tutto naturali: l'ammirazione iniziale nel vedere sbocciare da un punto vita peonie e steli rende ancora più grande lo stupore nel trovare al centro di esse bocche e occhi, in un gioco di scatole cinesi che rende l’oggetto dinamico e surreale.
Il sentimento preponderante è quello di vedere una rappresentazione della natura e dell’uomo dal punto di vista di qualcosa o qualcuno di oltre-umano, che enfatizza i dettagli ponendoli in un contesto insolito, quasi fossero elementi messi in mostra, gioielli creati da un anatomista o da un botanico. Questa visione, seppure in qualche modo aliena, si presenta come una celebrazione della sfera naturale, in cui scultura, stoffa e corpo umano coesistono e collaborano per creare un’unica opera d’arte. L’evoluzione stilistica di un altro marchio già nominato, Balenciaga, risulta sì altrettanto aliena, ma sembra celebrare una vittoria della stoffa sul corpo, sulla natura, con geometrie che estremizzano le proporzioni o, al contrario, con tessuti high-tech che avvolgono il corpo diventando una seconda pelle, sostituendosi ad essa.
L’ultima frontiera dell’innovazione della moda sembra venire dalla digital fashion, in cui i prodotti non sono più vestiti e accessori tangibili, ma modelli digitali proiettati su di una scansione 3D del corpo umano. La base di questo concetto sta nella biomimicry/biomimesi, ossia l’emulazione dei modelli, dei sistemi e degli elementi della natura per l’innovazione tecnologia e la missione ecologica, uno strumento versatile e, in questo caso, applicabile anche alla moda. Un esempio è la maison digitale Auroboros (debuttata il 12 giugno 2021 con una linea totalmente digitale alla London Fashion Week), che  unisce moda e scienza per creare “digital only ready-to-wear”, ponendo come propri principi l’innovazione, la sostenibilità e il design immersivo. Il futuro della moda, vista l’importanza dell’immagine nel nostro secolo, sembrerebbe essere la realtà aumentata, in cui mondo fisico e mondo digitale si uniscono e interagiscono per creare opere d’arte visiva e, allo stesso momento, indumenti di haute couture.

ARTICOLO DI
GIULIA ULIVUCCI