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giovedì 10 dicembre 2020

Un puzzle mortale (Recensione "Saw")

Nel 2004, il regista James Wan realizzò il primo film che diede avvio ad una lunga serie cinematografica nota come "Saw". Il film horror - che è riuscito a superare persino Venerdì 13 per quanto riguarda il totale di incassi lungo la propria continua produzione di sequel - ha dato poi vita a un adattamento per i videogiocatori, creando un gioco sviluppato da Zombie Studios e pubblicato da Konami per PS3, X-Box 360 e PC.

Esso prende luogo tra gli eventi del primo e secondo film, ed impersoneremo il detective Tappche, catturato e rinchiuso dal malvagio Jigsaw in un vecchio manicomio abbandonato, che dovrà ricorrere a tutto il suo ingegno per fuggire e scoprire il motivo per cui è stato fatto prigioniero dal sadico serial killer. All’inizio dell’avventura ci ritroveremo all’interno di una delle toilette del manicomio, di fronte ad un televisore che mostrerà un breve filmato in cui Jigsaw spiegherà che, per riottenere la libertà, dovremo “stare al suo gioco”. Per fuggire dalla casa di cura sarà quindi necessario risolvere enigmi, superare trappole disseminate lungo i corridoi del posto e salvare le vittime di Jigsaw. La trama si svolgerà attraverso vari colpi di scena che riveleranno - proseguendo nel gioco - strani quanto inquietanti legami tra il protagonista e tutti gli altri malcapitati rinchiusi nel manicomio dal pericoloso killer.

A livello di gameplay è un survival horror in terza persona con enfasi su puzzle e mini-giochi da risolvere. Come in altri titoli del genere, avremo delle fonti di luce attivabili per rischiarare i dintorni, e queste fortunatamente non richiederanno carburante o batterie. 

Un meccanismo classificabile come una pallida imitazione di un survival horror alla "Silent Hill",per capirci. A distaccarlo in parte dal filone vi è la scelta di puntare su un grosso numero di enigmi logici. Questi possono inoltre contare su una buona varietà e in alcuni casi metteranno a dura prova i nervi del giocatore, in quanto spesso accompagnati da un implacabile conto alla rovescia. La situazione più tipica che ci troveremo ad affrontare sarà una stanza chiusa la cui uscita è bloccata da un codice di tre cifre, da scoprire risolvendo semplici enigmi ambientali.

Il gioco deincentiva inoltre il combattimento diretto. Sarà infatti esclusivamente ravvicinato, con un tasto per l’attacco normale, forte, e la parata/schivata. Ci sono poi i classici audiolog,che qui servono sia come relatori di informazioni ed indizi per risolvere il puzzle preparato, sia come collezionabili extra che riveleranno info sul manicomio e su Jigsaw. Il sistema di controllo, inizialmente poco intuitivo per quanto riguarda la piattaforma PC, risulta ostico e rende a volte quasi impossibile la soluzione degli indovinelli.

L'avventura sarà inoltre alquanto ripetitiva in alcuni punti, causando una certa noia nel giocatore medio, complice anche un livello di difficoltà in grado di impensierire più per lo scarso grado di risposta dei comandi che non per un sfida realmente impegnativa (il protagonista risulterà infatti molto impacciato nel rispondere ai comandi, anche quando gli si chiederà semplicemente di correre lungo i corridoi del manicomio). 

La resa grafica non è delle migliori. L'ambientazione risulta però discreta, grazie anche all’effetto cupo e tetro che essa comporta. Tuttavia, se ci si sposta sui personaggi, si nota facilmente come essi siano marcati da una scarsa realizzazione e da una mediocre resa dei movimenti e delle animazioni. A livello di audio è ottimo, con i doppiatori originali dei film che riprendono i loro ruoli, ed un buon audio design in generale.

Un'avventura horror ambientata in un manicomio abbandonato, con una trama decisamente interessante ed un finale da cardiopalma ed inaspettato. Il gioco riesce a spaventare e a creare nel giocatore quel senso di angoscia costante, ma il pessimo sistema di controllo e di combattimento, la scarsa varietà di armi e nemici senza personalità offuscano notevolmente quello che poteva essere un buon prodotto.
 
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giovedì 12 marzo 2020

Quando la carne muta (Recensione "Teratomorph")

Abbiamo già introdotto il terribile mondo in cui prende luogo "South Mill District" di Joe Meredith e, uno dei pochi compianti riguardo il corto del 2018 di Joe Meredith, era proprio che si sentisse la necessità di vedere di più, di avere un ulteriore squarcio su quel mondo distopico e popolato da alieni e mutanti orripilanti. Per fortuna, nel 2019, il regista è tornato sul suo progetto realizzandone un sequel: "Teratomorph".
I 33 minuti del corto girano attorno ad un bambino di soli otto anni, denominato Soggetto X (Elijah Meredith), il primo individuo in cui, l'assimilazione del virus Havoc, sembra aver dato i frutti sperati: in un flash forward iniziale lo vediamo, infatti, nei laboratori della Eon Corp dove viene studiato e tenuto sotto sorveglianza. Il ragazzino, in parallelo con l'evoluzione della sua mutazione, incurante dell'autoamputazione della sua stessa mano in pieno stile "Evil Dead 2", ci donerà un ulteriore squarcio sul mondo post-apocalittico ideato da Meredith, tra robot e mutanti dalle numerose teste armati di ascia mentre, in parallelo, quello che sembra essere un alieno, semina il terrore e miete le sue vittime senza alcuna pietà.

A questo giro Meredith rincara la dose di gore, con effetti speciali decisamente di manifattura superiore a quelli del precedente e, allo stesso tempo, ancora più ambiziosi, pur rimanendo, tutti, effetti pratici. Lo stop motion, preponderante nel primo film, viene utilizzato anche nel suo sequel, nonostante in dose nettamente minore anche a causa del ritmo e dell'atmosfera generale diversa: se il primo film mostrava la quasi quotidianità di due infetti in attesa della loro imminente morte, vittime collaterali di una guerra che viene ulteriormente esplorata dalle narrazioni fuori campo del secondo film, qui abbiamo una breve avventura on the road, con più azione, tra ricercatori corrotti, spie russe e creature d'incubo che divengono vere e proprie minacce. Non tutti i mutanti hanno la fortuna di esser decapitati in tempo come accade nel primo film, insomma. La maggior parte dei props del sequel, oltre ad essere decisamente più realistici, in particolar modo quello di un cadavere nell'acqua all'inizio e quello del robot dal corpo dilaniato, rimediando all'aspetto da bambola dei manichini umani del primo film, sono in realtà indossati da degli attori e raffigurano creature riconducibili più a "La cosa" di John Carpenter ed alle mutazioni organiche dei film di David Cronenberg che a H. R. Giger ed ad "Alien", con l'ovvia esclusione dell'alieno: il capolavoro del regista di "Halloween", infatti, viene direttamente citato in una delle primissime scene con un corpo con due teste fuse, chiaro riferimento all'iconico corpo presente anche nel film del 1982 e nel suo prequel del 2011. 
Parlando di references cinematografiche, osservando la pellicola, non si può non pensare alla terrificante trasformazione mostrata nel caposaldo del body horror nipponico "Tetsuo: The Iron Man" del 1989 di Shinya Tsukamoto o, rimanendo in Giappone, al manga "Kiseiju - L'ospite indesiderato" di Hitoshi Iwaaki dove, similmente al Soggetto X, il protagonista Shinchi si ritrova con la sua mano mutata a causa di un parassita alieno. Ovviamente, però, l'opera di Meredith non lascia spazio ad alcun tipo d'ironia o di leggerenza. O a qualsivoglia speranza di guarigione, per chiunque fosse tanto illuso da averci pensato.

Sia la regia che la fotografia, decisamente più chiara e definita, subiscono un miglioramento tra il primo ed il secondo film, pur mantenendo la stessa impostazione generale, con scene non per forza in ordine cronologico, continue degressioni a frammenti passati dell'epidemia Havoc e con la tricomia di verdognolo nauseante, blu neutro e rosso acceso mantenuta. Addirittura, pare che Joe Meredith abbia voluto giocare ulterioremente con quest'ultima, ed in particolare con la bicromia rosso e blu già collaudata da Dario Argento in "Suspiria", ponendo la distinzione tra i due colori direttamente su scena in chiave esplicita: la stanza vuota e morta è blu mentre la porta che porta verso l'orrore alieno è illuminata da un acceso ed innaturale rosso brillante, metafora visiva per il pericole imminente. Seppur si perda alcuna della "sporcizia" perturbante del primo film, le scene risultano decisamente più chiare e, il montaggio più ordinato, non preclude alcuna scena grottesca o raccapricciante come la sequenza dell'amputazione della mano prima citata, assolutamente disturbante, o quella in cui una l'intera parte anteriore di una testa viene divorata tra zampilli di sangue e gli spasmi del cadavere.
La colonna sonora, nuovamente composta da Joe Meredith, che, ricordiamo, ha anche scritto il film, creato parte degli effetti speciali ed il design delle varie creature del film, attinge nuovamente a piene mani dalle classiche composizioni synth dei film anni '80/90, aumentando l'idea di star vedendo un film di quell'epoca che già dona l'uso di luci al neon colorate per l'illuminazione. Il comparto sonora, però, risulta inferiore a quello del primo: il sound design che enfatizzava rumori snervanti di carne strappata sono meno presenti e, la musica, copre la narrazione fuori campo del dottor Bottin (Toby Johansen), rendendo difficile comprendere ciò che viene detto e, di consguenza, seguire il filo della trama che, ricordiamo, era quasi del tutto assente nel primo cortometraggio.
Se Meredith gioca quindi una mano sicura con la stessa ambientazione e lo stesso cast, eccetto alcune aggiunte, alza la posta in gioco con scene decisamente più elaborate ed ambiziose che, però, ripagano l'impegno impiegato per la realizzazione di questo secondo corto horror-fantascientifico dal sapore retrò, non perfetto, ma sicuramente più che buono, con un immaginario interessante ed accattivante, un comparto tecnico ammirevole per il budget risicato e dall'atmosfera inquietante al punto giusto, seppur, forse, non quanto quella del suo predecessore.

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Il cortometraggio è acquistabile direttamente sul sito internet di Joe Meredith, nonostante non sia disponibile una traduzione italiana seppur la pellicola sia fruibile anche da chi non ha dimestichezza con la lingua inglese a causa del ruolo quasi "laterale" e ridotto che ha la narrazione. Potete seguire il regista Joe Meredith sia sulla sua pagina Facebook che sul suo profilo Instagram.

mercoledì 11 marzo 2020

Il parassita dell'uomo (Recensione "South Mill District")

In un futuro non troppo remoto, a seguito dell’attacco di un nemico dalle stelle, l’umanità si trova decimata, in cerca di un modo per mandare avanti la razza nonostante la minaccia aliena he incombe. Un ragno-parassita, in simbiosi con il suo ospite umano, sembra essere la soluzione per rispondere agli invasori per la Eon Corp ed il suo Progetto Cerebra, tramite la creazione di ibridi umano-alieno, ma, forse, la cura è peggio della malattia… Questa la premessa di “South Mill District” di Joe Meredith, un cortometraggio del 2018 che analizza in chiave del tutto nuova il concetto di un mondo post-apocalittico mandato a brandelli, mandato avanti solo da ex cavie (Joe e Cidney Meredith) in attesa che il morbo che gli è stato imposto porti alla loro inevitabile morte.
L’atmosfera generale dell’opera è la medesima che avrebbe potuto avere un film fantascientifico horror degli anni ‘90, grazie sia alla colonna sonora che ai particolari effetti speciali, entrambi aspetti tecnici curati dallo stesso Meredith, con l'aiuto dei restanti due membri del cast. Proprio a riguardo degli attori, va detto che nel film non vi è praticamente alcuna interazione umana. Non tra vivi almeno. Questo porta, de facto, ogni scena ad essere una scena muta, eccezion fatta per una breve scene con un dottor Chris Bottin (Toby Johansen) della Eon Corp e le narrazioni fuori campo del nostro personaggio centrale senza nome che vediamo vivere nell’orrore in cui è costretto. Il film non ha un vero e proprio prologo o tanto meno un epilogo: vediamo i nostri due personaggi vivere la loro nuova condizione, in attesa del loro fato inevitabile, della loro mutazione a causa del Virus Havoc creato dal materiale genetico alieno, proprio nel bel mezzo della loro storia, senza mostrarne (in parte) una fine vera e propria. Insomma, il film decide di essere uno squarcio su quel mondo in decomposizione tanto quanto i cadaveri che oramai lo abitano, più che il narrare di una vera e propria storia ambientata in quel contesto. Dimenticate, insomma, eroi, antagonisti o qualsivoglia desiderio che muove i personaggi, noi non siamo altri che osservatori silenti che hanno il “privilegio” di spiare la loro terribile condizione all’interno di un mondo assai più ampio.
Gli effetti speciali prima citati sono, probabilmente, il punto di forza del film. Tutti sono effetti pratici, dal primo all’ultimo, ispirati all’immaginario che lo stesso Meredith ha creato nelle sue illustrazioni, in una mescolanza tra l’orrore cosmico alla H. R. Giger ed il più viscerale dei body horror. Le animazioni delle creature senz’occhi e dai grossi denti e del ragno-parassita sono realizzate in uno snervante stop motion, suggestivo e funzionale, che aumenta il senso d’inquietudine che deriva da quelle visioni orripilanti. Le limitazioni del budget, ovviamente, sono evidenti, è inutile nasconderlo, e divengono chiare specialmente quando, su schermo, appare un cadavere “fresco”. Questo, però, non da fastidio e non va a rovinare l’atmosfera generale, dopotutto è un qualcosa che ci si aspetterebbe di vedere in un prodotto del genere che, comunque, compensa con numerose altre visuali suggestive. Un altro punto debole di questi effetti, che non potrà non essere notato, sono i denti, chiaramente finti, quasi cartooneschi che, se da un lato possono funzionare su una razza aliena nata dalla mera fantasia, possono far storcere il naso se inseriti nella bocca di ciò che fu un umano.
La complessiva funzionalità degli effetti speciali e il turbamento che deriva dall’immaginario macabro di Meredith sono garantite grazie ad una fotografia nella quale si alternano luci più fredde, che donano un’aurea sia solitaria sia di malattia, e altre rosse, nauseanti, nella quale si alternano orrori organici e sanguinosi, organi pulsanti e appendici che fuoriescono da bocche, ragni che scavano nel cervello che li ospita e cadaveri carbonizzati ed amputati dei quali appendici continuano a muoversi spasmodicamente.
Anche il sound design è ben realizzato, con suoni viscerali che s’insinuano con prepotenza nelle orecchie dello spettatore scavalcando la colonna sonora, aumentando il senso di disgusto che causano determinate scene di pura matrice gore. Le ambientazioni sono limitate, ma sono comunque sufficienti a rafforzare il senso d’isolamento che pervade l’intera pellicola. Meredith riesce alla perfezione a creare una città apocalittica usando la sua stessa cittadina, riprendendone gli anfratti abbandonati e donandoci una panoramica di essa, rendendola una spettrale città fantasma. Nell’angusto appartamento del protagonista, inoltre, tra bottiglie di birra e quelli che sembrano feti alieni, fanno inoltre capolino alcune delle illustrazioni del regista che hanno ispirato le visuals dell’opera.
Un corto di soli 25 minuti, che racchiude in se stesso un intero mondo accattivante, seppur, tristemente, non esplorato nel suo complesso e, probabilmente, nel suo massimo potenziale. anche se a questo vi sarà rimedio, ed alcuni interessanti effetti speciali “alla vecchia maniera”, cosa abbastanza rara nel panorama dei cortometraggi contemporaneo, in perfetta simbiosi con ciò che sono la regia e la fotografia, in un’ottimizzazione massima e efficiente del budget ridotto. Questi sono gli elementi di "South Mill District", prodotto sicuramente più funzionale di quello della simbiosi tra uomo e ragno infetto proposto nel film.

Almeno, in questo caso, i cadaveri sono finti.

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Il cortometraggio è acquistabile direttamente sul sito internet di Joe Meredith, nonostante non sia disponibile una traduzione italiana seppur la pellicola sia fruibile anche da chi non ha dimestichezza con la lingua inglese a causa del ruolo quasi "laterale" e ridotto che ha la narrazione. Potete seguire il regista Joe Meredith sia sulla sua pagina Facebook che sul suo profilo Instagram.

martedì 7 gennaio 2020

Manifesto cannibale (Recensione "Antropophagus")

Cannibali di città e di campagna               
Dell’importanza ed influenza di Cannibal Holocaust nel genere horror italiano ne abbiamo già parlato nella nostra recensione di Apocalypse Domani di Antonio Margheriti. A cavallo tra gli anni 70’ e gli anni 80’ il cannibal movie si trovava nel suo periodo di maggior splendore, con ben otto pellicole uscite fra il 1978 ed il 1981 le quali, ovviamente, hanno fatto del gore il loro principale “punto espressivo”.  La maggior parte di questi film hanno in comune un utilizzo quasi documentaristico degli ambienti naturali che circondano i loro protagonisti , molto spesso foreste amazzoniche da far diventare il regno del terrore di spietate tribù indigene affamate di carne umana. Tuttavia, come sempre, ci sono le eccezioni. Se anche il film di Margheriti era già inusuale per la sua ambientazione urbana/bellica, Arisitide Massaccesi, in arte Joe D’Amato, ne girerà uno altrettanto insolito, unendovi insieme le caratteristiche dello slasher che tanto stava andando di moda in quel periodo.  Da un soggetto dello stesso Massaccesi e di Luigi Montefiori, meglio noto come George Eastman, il quale scriverà anche la sceneggiatura oltre che recitare nel ruolo del “mostro”, nasce Antropophagus, che diventerà, anche grazie alle sue sequenze estremamente cruente, una delle pellicole simbolo dello “splatter” all’italiana.
Breve sinossi                                                     
Un gruppo di giovani turisti decide di trascorrere le proprie vacanze in una piccola isola nell’arcipelago greco, apparentemente tranquilla. Non sanno che qualche giorno prima quella stessa isola è stata il teatro dell’omicidio di una giovane coppia, trucidata da un misterioso assassino, con un debole per il dolce sapore della carne umana...

L’importanza delle sequenze                  
Partiamo subito con un aneddoto. Il film è stato profondamente massacrato dalla censura di mezzo mondo a causa di alcune sue particolari sequenze considerate eccessivamente forti e pesanti. Quasi paradossalmente il film trova nelle sue scene più crude (e qui parliamo di scene veramente crude) il suo culmine oltre che il fulcro del suo successo negli anni avvenire. E’ indubbio che D’Amato decida di premere forte su questo aspetto (rispettando d’altronde il suo stile) senza perdersi in eccessive caratterizzazioni o introduzioni superflue. Non è un caso che il film inizi mostrando la morte dei due malcapitati turisti  tedeschi con tanto di mannaia conficcata in faccia, utile per far capire allo spettatore quale sarà il tono generale che il film manterrà nel corso dei suoi 89 minuti.  Tuttavia, non staremo qui ad elencare tutte le sequenze più violente, anche perché sarebbe poi alquanto inutile vedere il film. Dall’altro lato, sappiate che nel Regno Unito sono state censurate tutte le sue scene forti, trasformando il film, probabilmente, in un cortometraggio.
Gli aspetti tecnici                     
Per la maggior parte delle pellicole horror di genere del tempo, la tecnica non è mai stato un fattore eccessivamente “importante”. Non si vogliono cercare virtuosismi particolari, piani sequenza mozzafiato o scelte di montaggio geniali. Basta una regia quadrata e un certo gusto nell’inquadratura in grado di supportare l’effetto speciale (questo sì curato in maniera maniacale) che la scena richiede. In Antropophagus assistiamo proprio a questo. Il regista romano, totalmente dedito al cinema di genere, decide di non osare eccessivamente, ma, appunto, di far parlare il sangue, le viscere, la carne, ovvero i veri protagonisti del film. L’asticella della tensione si mantiene comunque alta, grazie anche alla sporchissima fotografia di Enrico Biribicchi, in grado di evidenziare al meglio le bianche rovine del paesaggio greco, la polvere della grande mansione abbandonata, e lo sporco che ricopre i vetri delle abitazioni, impedendo di ammirare il bellissimo panorama marino, aiutato anche dall’insolita idea di girare il film in 16mm, convertito successivamente a 35mm, per le proiezioni in sala.  Ottima persino la colonna sonora del veterano Marcello Giombini, qui a una delle sue ultime apparizioni nella settima arte, mai invadente (ed utilizzata in misura molto ridotta) e posizionata perfettamente nelle scene più simboliche.
L’eredità                                                        
Come numerosi altri film horror prodotti nella nostra penisola Antropophagus si è ritagliato il ruolo di cult assoluto nella cerchia di appassionarti del genere soprattutto, ahimé, stranieri. Il regista tedesco Andreas Shnaas, grande appassionato del cinema di genere italico (a discapito di una tecnica cinematografica poco invidiabile), ne girerà un remake nel 1999 dal titolo Antropohagus 2000, ambientato non in Grecia, ma a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze. E chissà se forse non ne riparleremo in futuro, sempre qui, su Horror Moth...
Articolo di Andrea Gentili

Potete acquistare Antropophagus su Amazon

giovedì 3 ottobre 2019

Il Papa che uccideva pedofili: L'eroe che la Chiesa non si merita, ma quello di cui ha bisogno (breve analisi di "The Pope" di Brian Yuzna)

Si consiglia l'ascolto di questo brano durante la lettura.

Supereroi e figure ecclesiastiche: due tra i più artefatti e illusori modelli di una società falsa e ipocrita, che caparbiamente ammira e anela (anima e corpo) schemi comportamentali e ideologici che non gli sono propri, né mai lo saranno; e con le dovute eccezioni, prevalentemente solo nell'ambito supereroistico (ma tenendo sempre conto che le innumervoli declinazioni anche della sola dottrina cattolica sono costantemente votate a scansare questa e altre critiche), questi due esemplari di superuomo nietzschiano, mascherato e inquinato da un sistema di valori che non gli appartengono per definizione, non potevano non incorrere in alcune tra le più infime e discutibili performance artistiche e sociali tanto bramate e adorate dalle masse (non necessariamente le stesse, sia chiaro) che compongono tale società; così come Brian Yuzna, noto produttore (prima che regista e sceneggiatore) di alcuni dei più riusciti figli del New “New Horror” americano (i nostri beniamini “Re-animator” e “From Beyond” di Stuart Gordon, insieme al proprio celeberrimo “Society – The Horror”) non poteva non piegare per l'ennesima volta i biechi desideri delle suddette masse (purtroppo senza necessariamente rientrare nel raggio limitato della loro attenzione), che da buon produttore ha sempre tenuto in considerazione, alle proprie sovversive ed anticonvenzionali mire artistiche anche in quel suo ultimo tripudio elegantissimo di sessualità e violenza blasfeme che è il suo primo (e finora unico) romanzo edito nel 2015 (e persino da noi già l'anno successivo grazie alla Gremese), che va sotto il titolo di “The Pope”.
Il produttore-regista si era in realtà già cimentato in un cinefumetto ante-litteram e anti-eroico venato di blasfemmia, avendo diretto per la neonata e da lui stesso creata Fantastic Factory quel “Faust” tratto dall'omonima opera cartacea scritta da David Quinn (pure sceneggiatore del film) e illustrata da Tim Vigil, e che, pur fallendo nel riproporre un prodotto che avesse la medesima struttura narrativa e subtestuale anarchicamente deflagrante di un fumetto all'epoca (correva l'anno 2001) ancora in corso d'opera, riusciva quantomeno a regalare allo spettatore momenti di puro delirio geniale che ben si prestano a compendiare tanto la poetica del regista e del suo effettista di fiducia Screaming Mad George, quanto quella dell'opera cartecea di Quinn e Vigil; momenti che non possono non aver fatto rimpiangere agli amanti dei quattro differenti artisti la mancanza di un budget più elevato o di uno script più coerente per una pellicola quello che comunque, se paragonata al conato dilagante di cinefumetti contemporanei, non può non considerarsi un piccolo capolavoro mancato del genere più amato dai nerd del nuovo millennio (che rimandiamo per una recensione più approfondiata del “Faust” di Quinn e Vigil all 'ottimo video presente sul canale di Altroquando).
Contrariamente a “Faust”, in opposizione al confronto tra cinema e letteratura che continuiamo a proporre senza amor proprio in questa rubrica e contrariamente a quelle che erano le iniziali intenzioni di Yuzna a John Penney, sceneggiatore de “Il ritorno dei morti viventi 3”, di trarre un film e,  prevedibilmente, anche un fumetto dalla loro sceneggiatura poi divenuta “The Pope”, la controparte cinematografica di questo romanzo , a circa tre anni dal suo primevo tentativo di venire al mondo, continua a figurare tra le schiere di lavori morti sul nascere tanto di Yuzna, oramai fermo nell'ambito dei lungometraggi dal suo “Amphibious 3D” del 2011 (pure scritto da Penney), quanto di tutti i maestri dell'horror degli anni '80, archiviati come anziani in un'ospizio che attendono (perlomeno quelli rimasti) una morte che ci priverà per sempre della possibilità di godere di un loro nuovo capolavoro che non sia un disinteressato ed ennesimo riarrangiamento di qualche storico score fatto solo per rimediare un paio di spiccioli. 
Tuttavia, almeno questo “The Pope” è miracolosamente giunto fino a noi in un'edizione più che dignitosa, e le possibilità di confronto con il medium cinematografico non vengono ridotte dalla mancanza di una versione filmica dell'opera, che, caro Brian, noi qui attenderemmo, neanche tanto metaforicamente visto l'argomento, come la seconda venuta di Cristo; questo perchè il viaggio spirituale decisamente poco nirvanico compiuto dal protagonista del romanzo, e di cui non riveliamo il nome per evitare uno spoiler solo perchè possa rivelarlo anzitempo  l'opera stessa dopo avervi illuso di essere una sorta di slasher in cui scoprire l'identità dell'assassino solo alla fine, è narrato attraverso tutta una serie di espedienti e stilemi letterari riconducibili al linguaggio cinematografico, non inteso come legato alla mera forma tecnica di una sceneggiatura, ma piuttosto come indicatore di una tecnica narrativa estremamente evocativa e visiva, oltre che cosciente della possibilità di manipolare il punto di vista di una diegesi proprio come si potrebbe fare per l'inquadratura di una scena (anche se a volte si può intravedere nell'uso dei puntini sospensivi un vero e proprio tentativo di restituire l'effetto di un taglio di montaggio).
Già la stessa struttura fromale del romanzo, difatti, si presenta subito basata sul montaggio alternato tra la narrazione principale, che vede il nostro protagonista mascherato con una copia dei paramenti papali fare strage con una spada-crocefisso di tutti i preti pedofili che affollano la parrocchia cattolica (e seminario minore) di San Simone a Pacifica (Ca.), e citazioni da vari pseudobiblia, concetto cui da (in)fedele adattatore di Lovecraft al cinema lo scrittore non è estraneo,  che narrano, attraverso riferimenti a fatti e personaggi reali della Roma della fine del Quindicesimo Secolo, la nascita di un fittizio ordine religioso di fede cattolica chiamato “Ordine di Ottavio”, provvidenzialmente risorto durante l'ascesa al papato di Rodrigo Borgia e avente, guardacaso, come scopo la “purificazione” del Vaticano dal libertinaggio e delle iniquità che vi covavano; e fin dal primo di questi inserti storiografici, a cui si aggiungono pure alcuni frammenti di rescoconti processuali che sono ovviamente conseguiti alle gesta probe del nostro Papa omicida, vediamo che Yuzna (al contrario di Borgia) non prende prigionieri e in questo primo estratto da “La Dichiarazione Preliminare dell'Adepto”, di cui avremo un quadro completo solo a romanzo concluso e che viene posto a mo' di prologo, mette alla berlina (o, se preferite, sputtana) tanto il corrotto mondo ecclesiastico quanto quello laico, in fondo non poi così meno crudele e opportunista. 
Per tornare al discorso della scrittura estremamente “cinematografica” di Yuzna, l'autore non si risparmia quei dettagli espliciti e truculenti che da sempre caratterizzano il suo cinema («L'effetto era quasi comico nella sua grottesca assurdità» è il commento allo spettacolo offerto dal primo omicidio, continuando a portare avanti una rappresentazione artistica della vita nata fin da “Re-animator” dove orrore e grottesco sono due facce della stessa medaglia); ma quello che veramente colpisce e disturba anche il lettore più navigato nello splatter più viscerale è la genuina efficacia di queste scene che, lungi dall'essere ridotte ad una mera conversione in parole à la google translator della violenza visiva minando le potenzialità del differente medium in favore di un risultato  meramente “pornografico”, sono tanto concettualmente esplicite quanto stilisticamente potenti: come in altri momenti meno outrè del romanzo, il narratore entra ed esce repentinamente dai pensieri dei personaggi, che spesso, in punto di morte, ci rivelano la loro vera e meschina natura mentre sperimentano il trapasso attraverso le emozioni più disparate, ma che Yuzna compila scrupolosamente come le pagine di un vasto schedario della psicologia umana che, una volta sfogliato, ci permette anche di scorgere tra le righe e in maniera più distaccata tutte le mutilazioni atroci infilitte a quei personaggi nella cui mente solo un 'attimo prima avevamo sbirciato, resa spaventosamente lucida in confronto alle sofferenze corporali dall'approssimarsi della dipartita; facendo il verso ai flussi di coscienza kinghiani e alle violenze carnali barkeriane, Yuzna dimostra uno stile assolutamente personale e consapevole nel maneggiare l'orrore fisico attraverso un medium in cui non può essere direttamente mostrato, e scene come quella in cui è descritto il cadavere dell'ennesimo prete pedofilo arso vivo in un falò da campeggio di chierichetti sono deliziosamente insostenibili; invece, meno deliziose (se non avete particolari tendenze sessuali) e più insostenibili sono proprio le scene di “tentata” pedofilia, dove l'impossibilità di essere più di tanto esplicito di Yuzna è ancora una volta un'esigenza commerciale che l'artista sfrutta senza ritegno per ottenere il risultato artistico che desidera, e il suo insistere sulla descrizione delle tendenze pedofile degli ecclesiastici del libro in modo ellittico e allusivo non fa altro che sottolineare il modo subdolo e circospetto con cui cercano di soddisfarle.
Ma in tutta questa sessualità e violenza sconsiderate che sembrano proprio uscite da uno dei film di quel malato Brian Yuzna, vi chiederete, i supereroi si può sapere che cazzo c'entrano? È presto detto: il protagonista non è un semplice serial killer dagli evidenti disturbi mentali, dovuti alla morte di una persona cara, e dalla sessualità repressa, dovuta alla rigida educazione cattolica; o perlomeno non solo: egli è divenuto, senza neppure accorgersene, un vero e proprio iniziato all'”Ordine di Ottavio”, e solo dopo aver, come ogni eroe che si rispetti (lui stesso paragona i Papi alla Justice League), intrapreso un percorso di crescita fisica e spirituale, qui ritualisticamente suddiviso in “Protocolli di Ascensione” il cui primo non può che essere la mortificazione, o il martirio come per ogni Santo operante miracoli che si rispetti, quando, in una scena descritta con un palese rimando alla tecnica del ralenty cinematografico, viene sodomizzato da un gruppetto di omofobi che lo credono un travestito – insomma, solo dopo questo bel viaggetto formativo che il nostro Papa Vendicatore compie, in puro stile “I guerrieri della notte” (o “Edmond” di Stuart Gordon, se preferite), attraverso i sordidi vicoli di una San Francisco notturna in cui si era incautamente spinto per giustiziare una delle proprie vittime, egli potrà finalmente dirsi capace di padronare l'”Arte Trasmutatoria”, un nome come un altro per indicare la telecinesi che gli permetterà, in un finale delirante e sanguinolento che esplode inaspettatamente ed esattamente come quello del capolavoro yuznaniano “Society”, di lanciare tutti i preti pedofili che vuole contro le pareti e fuori dalle finestre, oltre che far rifulgere la propria spada-crocefisso di mortale luce divina: a darci conferma del fatto che tutto il romanzo, in fondo, non sia nient'altro che la genesi di un supereroe, solo riletta nel modo più malato e sconveniente possibile, è lo stesso Brian Yuzna in qualunque intervista presente sul web dove abbia risposto ad una domanda sull'argomento (e dove ogni tanto ha pure ammesso di ritenere “La passione di Cristo” di Gibson un film dell'orrore; noi a dargli torto non ci teniamo).
Le implicazioni del romanzo sono fin troppo evidenti e spaventosamente deprimenti: qualunque sistema di pensiero, per quanto secoli e secoli di adattamento possano averlo reso infinitamente più malleabile rispetto ai tempi dell'Inquisizione, si ponga come anche solo lontanamente dogmatico, nei suoi precetti o nei suoi preconcetti, non può non essere altro che il seme di una potenziale teocrazia, ed un mondo dove davvero dovesse esistere un'entità anche solo lontanamente riconducibile al Dio cristiano, con tutte le interpretazioni che Tommaso D'Aquino (che pure si ritaglia una citazione una volta tanto veritiera in “The Pope”) possa avergli apportato, resterebbe un mondo dove a difendere il Bene dalle innumervoli abiezioni del genere umano non potrà non esserci che un ordine di devoti psicopatici, dei veri e propri Solomon Kane dai poteri sovrumani che si pongono come eroi solo in quanto strenui oppositori del Male (il caprone nero à laThe Witch” che tenta il protagonista nel “Terzo Protocollo”), non importa se attraverso un male (stavolta con la minuscola) ancora più grande; e non importa se la Vergine Maria o la bella da salvare trovano entrambe corpo in una novizia disgraziata messa in cinta dallo stesso monsignore della parrocchia in cui dovrebbe prendere i voti, o se chi, come il padre della sventurata madre del protagonista (e probabilmente lo stesso Yuzna), pensa che «[m]angiamo, cachiamo […] e tutto il resto è solo sesso in una forma o nell'altra» meriti di essere messo a tacere per sempre non meno di quanto meriti l'empio sacerdote. Il Fine giustifica i mezzi.
Come detto all'inizio, il mondo supereroistico non esce meno illeso di quello cattolico/religioso (o fondamentalista per i più scassacazzo) da una seria analisi dell'opera di Yuzna, in cui perfino la questione del simbolo che tanta importanza deteneva nella pipistrellescha trilogia di Christopher Nolan qui perde tutta la sua ideologia autoriferenziale, divenendo più simile ad un mezzo per «la comprensione innata dell'origine mistica e miracolosa dell'esistenza», secondo la definizione data da uno psichiatra che cerca di spiegare le azioni e motivazioni del Papa assassino e del suo identificare con i paramenti papali il lasciapassare di un'autorità superiore: una concezione fortemente simbolista e che non può non ricordare, viste le continue incursioni cinematografiche di Yuzna nell'opera lovecraftiana (ormai onnipresente in questa rubrica), quella di simbolo quale squarcio del velo che nasconde la vera e orrenda natura del mondo presente nel fondamentale racconto di Arthur Machen “Il Grande Dio Pan”, dove uno dei personaggi, appunto, «ricorre all'immagine del velo, e aggiunge che essa è simbolo» (“Il Grande Dio Pan”, Tre Editori, 2016, p. 110): proprio come la tiara, la tonaca, il mantello, l'anello piscatorio e il crocefisso sono in “The Pope” simboli della reale esistenza, oltre il velo di indifferenza dei poveri miscredenti come noi, di Dio, la qual cosa non porterebbe ad una presa di coscienza meno orribile di quella cui porta della realtà orrorifica simboleggiata dal dio Pan o dalle derivative entità lovecraftiane: perchè se Dio esistesse (e diamo per scontato che non sia così, non essendo questa la sede per tali speculazioni), «se un caso simile fosse possibile, la nostra terra sarebbe un incubo» (Ibidem, p. 22).
L'unica scappatoia da questa desolante realtà governata dal Dio cristiano, peggiore di qualunque racconto orrorifico, ci viene data dallo stesso fittizio psichiatra che citavamo prima, cui Yuzna la affida, anticipando il tema che di M. Night Shyamalan avrebbe poi proposto in “Glass” (2019), quando, chiamato a testimoniare, il medico afferma che quella del protagonista potrebbe benissimo trattarsi di una schizofrenia causata dal prematuro smascheramento, poi sfociato in una «fantasia di supereroi».
Ora sta a voi comprare come dei veri Soldati di Cristo questo stramaledetto romanzo, sperando che così facendo si possa un giorno vederne una versione cinematografica, e sta a voi decidere quale delle due decisamente poco allegre alternative del romanzo vi sembra quella corretta.

Essere salvati da un Papa psicopatico o non essere salvati affatto. 

Forse è proprio vero che quei due stronzi vestiti di frasche non devono averci lasciato molta scelta.

Articolo di Donato Martiello

Potete acquistare il libro a questo link

venerdì 27 settembre 2019

Gustosa carne umana - Orrori perduti: "El alimento del miedo"

Luglio 1971, in uno sperduto paesino messicano, all’interno di un piccolo locale di gestione familiare, parenti e amici spensierati gustano dei deliziosi tamali preparati in casa con carne freschissima, un taglio particolare e assai ricercato, nonostante di difficile reperibilità. Una carne tenera e succulenta sazia le papille gustative di tutti i clienti. Per chi non lo sapesse, il tamale è un piatto di origine messicana a base di carne trita con peperoncino piccante e farina gialla, che viene cotto avvolto nel cartoccio del granoturco, un piatto, tutto sommato, abbastanza semplice, difficile da sbagliare: la cosa fondamentale per un ottimo tamale è solo un buon taglio di carne.

E, fidatevi, Trinidad, la cuoca, ne sapeva abbastanza di tagli di carne.

Il ristorante era, infatti, mantenuto da lei e dal marito Pablo, un uomo alcolizzato e violento che non esitava di abusare e recare violenza nei confronti di moglie e figli, usando come attenuante per le sue violente gesta l’alcol che, a litri scorreva, nel suo corpo quotidianamente. Non ebbe mai alcun ostacolo, nessuna resistenza, fino a quando, un giorno, Trinidad, oramai stanca di ciò che era costretta a subire come se fosse una routine non voluta e tanto meno necessaria, fece ciò che di più ragionevole le passò per la testa: prese una mazza, una di quelle di legno duro, di quelle che ti fanno saltare i denti con un colpo ben assestato, e massacrò il marito nel sonno colpendolo ripetutamente, ancora ed ancora, fin quando non fu certa che nessuna traccia di vita potesse risiedere in un quell’ammasso di carne sanguinante.
Il passo successivo fu altrettanto ragionevole e calcolato, dopotutto avrebbe dovuto disfarsi del cadavere senza che venisse ritrovato, e cosa meglio che prendere due piccioni con una fava? Staccando i brandelli di carne dal letto di cui il colore originale era oramai indistinguibile, lo trasportò nella cucina del ristorante e, con un affilato coltellaccio che era solita usare per tagliuzzare la carne, fece esattamente ciò che faceva normalmente ogni giorno per vivere. Le braccia dell’uomo vennero spezzettate, arricchite di peperoncino piccante e farina gialla e riposte in cartocci di granturco pronti per essere serviti a tutti i suoi affamati clienti. Il corpo dell’uomo restò in cucina, sarebbero durato abbastanza ad occhio e croce, mentre la testa, probabilmente fusa con il cuscino, venne lasciata nell’ultimo luogo in cui si era posata.
Oppure no.

Forse la donna, Trinidad, non era stanca del marito Pablo, pover’uomo, magari alzava sì il gomito qualche volta, ma era uno di quegli ubriaconi bonaccioni che trasmettono allegria a chiunque sia loro intorno. Forse era la donna la squilibrata e, vedendo il saldo del ristorante, chiaramente in fallimento, pensò che, a ragione, la carne più tenera è quella dei cuccioli e che, seppur non ci fossero molti vitelli nei paraggi, vi era una scuola elementare piena di cuccioli d’uomo che ci si perdono attorno. Chi mai si sarebbe accorto di star mangiando i propri figli dopotutto?
Eppure potrebbe non essere nemmeno questa la storia, forse questa storia non è mai esistita in primo luogo, dopotutto si tratta di una leggenda popolare, una di quelle che cambiando negli anni, ad ogni narrazione, arricchendosi di grotteschi dettagli o impoverendosi di ben congegnati colpi di scena che il narratore precedente aveva posizionato strategicamente sul finale.

In realtà sappiamo la presunta verità su questa storia, ossia che la donna effettivamente uccise il marito e ne cucinò la testa, ma quale sia la sua veridicità non è in realtà ciò che c'interessa appurare in questa sede specifica, ciò che c’importa è quello che ha ispirato e che, similmente alla leggenda originale, resta avvolto in un alone di mistero: “El alimento del miedo” (“The Food of Fear”, “Il cibo della paura”), un film horror del 1993 diretto dal maestro dell’orrore messicano Juan López Moctezuma, uno dei cineasti preferiti del premio Oscar Guillermo Del Toro che lo annovera tra i suoi principali ispiratori dal punto di vista stilistico.
Cristina Ferrare in "Mary, Mary, Bloody Mary'
La pellicola, girata in America tra febbraio e marzo del 1993,  basata su una sceneggiatura di Jorge Victoria, ispirata alla leggenda di cui avete appena letto due variazioni, purché non attinga strettamente a nessuna di loro, risultando un’interpretazione più autoriale e originale del mito; dopotutto anche il suo “Mary, Mary, Bloody Mary” del 1974, nonostante il titolo, narra di un’artista che realizza di essere una vampira bisessuale di nome Mary (Cristina Ferrare) che semina il terrore in Messico in parallelo agli omicidi di suo padre (John Corradine), un vampiro mascherato impazzito per la fame: una storia ben lontana da quella del fantasma evocato allo specchio che siamo soliti immaginare.

La trama vedeva infatti, come protagonista, Petra (Isaura Espinosa), la moglie del proprietario di circo Don Ramón (Moctezuma stesso), responsabile della figlia dei vicini finiti in carcere per traffico di droga, Flea. Quest’ultima viene costretta da Petra a lavorare in casa e a cercare un lavoro nonostante abbia solo cinque anni, finendo per stringere amicizia con Pepito, un pagliaccio che si esibisce per strada. Tutto sfocia nell’orrido quando un satanista si avvicina al circo e inizia un rapporto amoroso con Petra, finendo per uccidere Flea che, in modo da occultarne l’omicidio per proteggere l’amante, viene servita in tamali dalla donna che avrebbe dovuto vegliare su di lei.
Juan López Moctezuma
Il film, nonostante fosse stato proiettato in diverse sale messicane, da quanto è noto, finì velocemente perso e, se non bastasse, non fu apprezzato dai pochi che ebbero l’opportunità di vederlo. Anche un altro progetto girato in parallelo del regista, morto nel 1995, un anno dopo le presunte proiezioni, è considerato ad oggi perso, “Yo el vampiro” (“I the vampire”, “Io il vampiro”), una miniserie di tre episodi su cui non si sa assolutamente nulla e che, probabilmente, non vide mai la fine delle riprese a causa del ricovero del regista in un istituto psichiatrico a causa dell’Alzheimer.

Sfortunatamente non pare esista alcuna copia dell’opera disponibile e sembra poco probabile che verrà mai rilasciato a causa della morte della quasi totalità del cast e della crew, con alcuni dei pochi ancora in vita lontani dai social network, anche se la Cineteca Nazionale Messicana ne conferma l’esistenza sul proprio portale online, lasciando speranza che una copia possa esser conservata nel loro archivio fisico.
Qualsiasi sia la realtà ed il fato del film, è improbabile che lo vedremo mai, così come è improbabile che, se in un ristorante ti venisse servita carne umana, tu potresti accorgertene,
Buon appetito.

Articolo di Robb P. Lestinci

martedì 10 settembre 2019

...eat me alive (Recensione "Apocalypse Domani")

Il tema del cannibalismo ha sempre suscitato grande interesse nel nostro panorama cinematografico. A cavallo fra gli anni 70 ed 80, numerosi autori di genere come Sergio Martino ("La montagna del dio cannibale”), Umberto Lenzi (“Il paese del sesso selvaggio”, “Mangiati vivi!”, “Cannibal Ferox”), Joe D'Amato (“Antropophagus”), influenzati dall'enorme successo del magnifico “ Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato, decisero (sotto l'influenza della scalpitante produzione italiana) di mettere in scena i propri “mangiatori di uomini” nelle pellicole sopracitate. Caratteristica comune di questo sotto-genere era (anzi è, come ci ha dimostrato Eli Roth nel suo notevole “ The Green Inferno” ) un'ambientazione prevalentemente “selvaggia”, fatta di giungle e villaggi, con il verde della vegetazione in primissomo piano, accompagnato dal rosso del sangue e della carne dei malcapitati di turno, fino a far prevalere quest'ultimo, con scene di violenza estramamente efferata, che unite, appunto, al “taboo” del cannibalismo, contribuivano a shockare lo spettatore, fino ad allora abituato ai ben più “semplici” zombie movie
.
Possiamo dire che questo shock provato dallo spettatore non sia dato tanto dall'atto, già inquietante di per sé, ma ormai non più inedito, di “essere divorati”, ma piùttosto dal sapere “chi divora chi”. Un morto che mangia un vivo è sì inquitante, ma non provoca quella sensazione di disagio che crea vedere un vivo mangiare un vivo, ed è questo il fattore che, molto probabilmente, ha portato al successo il filone in questione.  Ma come per ogni genere, non tutti i film che vi appartengono seguono le medesime convezioni. Siamo tra il 79 e l'80 quando il grande regista romano Antonio Margheriti decide di evitare lo stiole ormai rodato del cannibal movie, girarando “ Apocalypse Domani”. Il titolo già suggerisce una tematica importante, quella del conflitto bellico, delineato alla perfezione da Francis Ford Coppola l'anno prima, con l'indescrivibile “ Apocalpse Now".
La storia è quella del capitano Norman Hopper (interpretato dal grandissimo John Saxon), reduce del Vietnam rimasto traumatizzato dalla visione di due suoi commilitoni, prigionieri dei vietcong, intenti a sbranare il corpo di una giovane. La situazione degenera quando uno di questi due, Charlie Bukowski (Giovanni Lombardo Radice) evade dall'ospedale psichiatrico nel quale era rinchiuso seminando il panico per le strade della città, in un delirio di violenza provocato dalla drammatica esperienza della guerra e da una strana fame che lo pervade. È solo l'inizio di un terribile incubo.

Possiamo già notare da questa trama quella rottura di convenzioni che accenavamo prima. Qui l'ambientazione (fatto salvo per i primi, folgoranti, cinque minuti del film) è esclusivamente urbana, andando ad esplorare la città in ogni suo angolo, dalle strade, alle stazioni di polizia, agli ospedali e persino alle fogne. E' l'incubo dell'uomo-mangia-uomo, normalmente considerato come appartenente ad una realtà estramamente tribale e sottosviluppata, trasportato nella nostra “civiltà”, nel nostro mondo, non più esclusivo di terre lontane e, fortunatamente, irraggiungibili.
 
Ma la nostra è davvero una “civiltà” tanto migliore? Sembra questa la domanda che Margheriti vuole fare al pubblico. E' da considerarsi civile un paese che manda al macello i propri cittadini per un benessere superiore, che li fa uscire di testa, per poi piazzarli in delle cliniche psichiatriche? Non è forse anche questa una forma di cannibalismo? Così fosse, parleremmo di un cannibalismo certamente peggiore di quello indigeno, perché non provocato dagli istinti corporei, ma dagli interessi, per i quali siamo disposti anche a “ mangiarci ” fra noi.Tuttavia, dal momento in cui stiamo parlando comunque di cinema di genere, vien da sé che queste tematiche profonde non rappresentano il perno centrale della pellicola, ma solo il contorno di un secondo piatto abbondante a base di

Le scene splatter, infatti, sono innumerevoli ed estramamente crude, in alcuni casi persino gratuite, oltre che molto convenienti, frutto del lavoro del veterano Giannetto De Rossi, un nome che a molti lettori del nostro sito risulterà estremamente familiare. Per dare ancora più forza alle scene più violente, Margheriti predilige una regia retta prevalentemente dai primi piani e dai dettagli dei particolari più cruenti, come ad esempio nella scena, ormai divenuta cult, del “buco nella pancia”, in cui la macchina da presa inquadra, attraverso lo stomaco della vittima, i poliziotti intenti a sparare).

 
Altro elemento interessante è sicuramente la caratterizzazione e l'evoluzione dei personaggi principali, soprattutto quella del protagonista, che porterà lo spettatore a non essere mai totalmente dalla parte di qualcuno, rendendolo un osservatore passivo delle vicende in atto, vicende nelle quali anche i personaggi appartenente meno importanti iniziano ad avere un loro ruolo sempre più fondamentale, culminando in un finale dove capiamo, anche quando sembra tutto finito, che l'Apocalisse , una volta scatenata, è inarrestabile, e soltanto Domani ce ne accorgeremo.

Articolo di Andrea Gentili