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mercoledì 2 agosto 2023

Sporcizia in cellulosa - La dimensione aggiuntiva dei formati ridotti nel cinema horror

Negli ultimi tempi si sta assistendo a un importante ritorno della pellicola cinematografica, nonostante il suo essere decisamente meno pratica ed economica del digitale, complice forse quella fascinazione feticistica dell'oggetto “tangibile”, fisico e visibile agli occhi che da anni ha colpito irrimediabilmente anche chi sta scrivendo in questo momento.
Certo è che la pellicola stessa è in grado di donare al prodotto audiovisivo finito una sua precisa estetica più o meno riconoscibile, spesso in funzione del voler creare un “contesto metacinematografico” (ad esempio in senso temporale, come nel caso di Anderson col suo Licorice Pizza), definendo un layer in più in quanto mezzo di sensazioni visive, apportate dalla resa estetica tipica della pellicola cinematografica (una certa profondità di campo, la presenza di una vera grana fine, una specifica “morbidezza” dell'illuminazione).

Tuttavia, l'utilizzo del vero film per la produzione cinematografica, ovviamente dominante per la maggior parte della storia del Cinema, è stato soggetto ad ulteriori “variabili” visive. Nell'era pre-digitale, dal punto di vista del “metodo” di ripresa, come ci si poteva distaccare dalla pellicola se questa rappresentava il modello pressoché unico (nastro magnetico a parte) per la ripresa cinematografica?
La risposta ricade sui formati della pellicola stessa. Il modello principalmente utilizzato è stato (ed è) il formato in 35mm a 4 perforazioni, considerato sin dagli albori della settima arte il modello standard in fase di proiezione; un formato che, tuttavia, non rappresenta un unicum nel campo del film inteso come oggetto materiale.

La presenza dei cosiddetti “formati ridotti” è stata sicuramente fondamentale nel portare il cinema (o comunque le immagini in movimento), fuori dal meccanismo “ufficiale” delle case di produzione, portando alla nascita vera e propria della produzione video amatoriale. Per formati ridotti, come è intuibile, si intendono tutti quei formati che, per necessità pratiche ed economiche, risultano essere di dimensioni ridotte rispetto al classico 35mm (dove la definizione del formato rappresenta proprio la sua misura in larghezza). I più conosciuti ed utilizzati sono senza dubbio il Super 8 e il 16mm. Sebbene questi due formati (in particolar modo il primo) venissero utilizzati principalmente per la produzione di filmati amatoriali (i cosiddetti “film di famiglia”), appartenenti quindi ad una dimensione molto diversa del film di finzione, diversi sono i casi in cui tali formati sono stati utilizzati anche per la produzione di corti, medi e lungometraggi (questi ultimi ben più rari nello specifico caso del Super 8).
Riallacciandosi al discorso precedentemente affrontato dell'ulteriore layer tematico che l'utilizzo della pellicola cinematografica comporta, possiamo introdurne ancora un altro nel momento in cui parliamo dei formati ridotti, definendo quello che, in fin dei conti, è un vero e proprio “effetto matrioska”. L'utilizzo dei formati ridotti può essere figlio di una ricerca estetica specifica (vedasi il caso della sequenza “onirica” in Easy Rider, girata in 16mm); essendo il fotogramma stampato su una superficie minore, l'immagine risulta essere di qualità inferiore rispetto al 35mm, un aspetto che può essere particolarmente favorevole quando si parla di horror.

Molto spesso, quando un film è girato interamente in passo ridotto, ci troviamo di fronte principalmente a necessità produttive, visto il costo sicuramente minore delle pellicole sub-standard. L'aspetto interessante è che, pur essendo utilizzate per motivazioni puramente economiche, l'utilizzo di un Super 8 o di un 16mm è in grado di “vestire” il film di un'aura particolarmente suscettibile, che spesso si sposa alla perfezione con le tematiche affrontate in determinate pellicole orrorifiche.

Il caso più eclatante è sicuramente quello
di Non aprite quella porta, capolavoro di Tobe Hooper interamente girato in 16mm, e che, forse più di tutti, fa di questa necessità una virtù. Il film, come è noto, fa delle atmosfere della messa in scena il suo principale punto di forza, proprio sotto l'ottica del “trasmettere terrore”. Vien da sé che l'utilizzo di un formato ridotto, meno definito, non può fare altro che esaltare tutto lo “sporco” che Hooper vuole mettere in scena, per certi versi allineandolo (pur sempre inconsciamente) con un mockumentary alla Cannibal Holocaust, facendo forza sull'elemento realistico, avvicinando ulteriormente il film agli spettatori
e, di conseguenza, aumentandone, indubbiamente, il senso di paura e la sua atmosfera grottesca. Paradossalmente, una qualità minore dell'immagine su schermo porta lo spettatore ad immedesimarsi in maniera maggiore, aspetto che in un film come Non aprite quella porta, che fa proprio del “se fossi io in quella situazione” uno dei suoi punti forza principali, non fa altro che elevare il film al suo essere innegabilmente un capolavoro della storia del cinema.

Scendendo indubbiamente più in basso, sia
come qualità stessa del film, che come dimensioni del formato della pellicola, similare è il caso di Nekromantik di Buttgereit. Parliamo in questo caso di un film indipendente, girato con quasi nessun budget e quindi, per esigenze produttive, in Super 8mm. Non è un caso che il film, come quello di Hooper, affronti tematiche particolarmente scabrose, e di conseguenza non è un caso che l'utilizzo di un formato sub-standard, rappresenti uno dei punti di forza maggiori dell'opera grottesca di Buttgereit.

In un caso specifico, il Super 8 è stato anche utilizzato come elemento horror diegetico, un macguffin inquietante in grado di far funzionare il motore orrorifico di Sinister di Scott Derrickson. Nel film lo scrittore Ellison Oswalt (interpretato da Ethan Hawke) si trasferisce nell'abitazione dove poco tempo prima venne commessa la strage di un'intera famiglia, con l'obiettivo di poter scrivere un libro proprio su questa vicenda. Nella soffitta della casa, lo scrittore trova una scatola contenente diverse bobine in Super 8, che si scoprirà contenere le riprese di efferati omicidi.
Non è quindi un caso che i momenti horror più convincenti del film di Derrickson siano proprio quelli in cui il nostro protagonista visiona i Super 8 rinvenuti (realmente girati su pellicola), in modo da poter garantire un certo realismo e, diegeticamente, incentivare la paura (come nella sequenza del taglia-erba, forse quella che tutti ricordano più nitidamente). In questo caso l'utilizzo del film in passo ridotto risulta essere un espediente figlio della fascinazione per quello che possiamo definire “il mistero dell'amatorialità”, aspetto che tutti noi abbiamo provato almeno una volta: tutti quei momenti in cui abbiamo fantasticato sul contenuto di determinati filmati amatoriali, magari abbandonati, siano essi stati girati su pellicola o su nastro magnetico (VHS), immaginando diverse volte di poter davvero assistere a contenuti macabri ed inquietanti (come, d'altronde, ci ha insegnato il maestro David Cronenberg col suo Videodrome), o anche solo sorprendenti e da lungo dimenticati. Tutto questo è parte del fascino del film.

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mercoledì 1 febbraio 2023

L'ultima ricerca di un mondo perduto - Cosa ha rappresentato e cosa rappresenta ''King Kong'' (1933)

Pensare che oggi qualcuno possa non conoscere la figura del gigantesco primate che un tempo troneggiava tra le foreste dell’Isola del Teschio, e poi tra i grattacieli di New York City, è pressoché impossibile. Kong esiste da meno di un secolo eppure è diventato istantaneamente simbolo non solo del cinema, ma un'icona della cultura occidentale tutta. Uno di quegli oggetti culturali che si imprimono fortemente, in modo irreversibile, nella memoria collettiva.
Un personaggio ed un film così influenti da determinare un punto di rottura, un prima e un dopo. Cosa c’è stato prima di King Kong? Prima c’erano due persone, due tecnici dalle occupazioni diverse che si erano guadagnati con impegno e con fatica una certa fama nel proprio settore: da una parte Willis O’Brien pioniere della stop-motion che non solo aveva attirato con i suoi corti l’attenzione di Thomas Edison, ma era appena uscito dal successo de Il Mondo Perduto (1925) di cui aveva interamente curato quelli che allora erano tra gli effetti speciali più sorprendenti mai visti; dall’altra l’aviatore, cineasta ed esploratore dalla fervida immaginazione Merian C. Cooper che iniziò a concepire quello che diventerà il soggetto del film da quando andò a girare in Africa con Ernest B. Shoedsack, suo collaboratore storico, Le Quattro Piume (1929) e da quando l’amico W. Douglas Burden pubblicò un testo sui varani dell'isola di Komodo, allora appena esplorata, e ne portò due esemplari a New York.

Questi furono, fondamentalmente, i due uomini che diedero vita a Kong. È molto importante però pensare al contesto in cui entrambi erano calati: la grande depressione iniziata nel '29. Quando Cooper presentò la sua idea per un film con protagonista un gorilla (che in una scena avrebbe combattuto un drago di Komodo) al produttore della Paramount David O. Selznick, questi dovette declinare l’offerta dati i problemi finanziari dello studio. Più tardi nello stesso anno Selznick passò alla giovane casa di produzione e distribuzione RKO Radio Pictures e portò Cooper con sé.
O'Brien sul set
È tra quelle mura che avvenne l’incontro tra i due. O’Brien attirò l’attenzione di Cooper con il suo test footage Creation, progetto dell’animatore per una pellicola in cui avremmo visto l’uomo moderno entrare in contatto con dinosauri e altri animali preistorici su un’isola sperduta, scartato dai produttori a causa dell’elevato budget che avrebbe richiesto. Il regista avventuriero rimase estasiato dall’abilità che O’Brien dimostrò in quel corto, così convinse Selznick a commissionargli dei filmati di prova basati sul concept che aveva in cantiere dai tempi della Paramount. Una volta che O’Brien mostrò i risultati del proprio operato ai produttori RKO questi vennero accolti con grande entusiasmo, e venne dato il via libera alle lavorazioni. 
Cooper coinvolse, come al solito, il socio Shoedsack per aiutarlo nella regia e chiamò lo scrittore inglese Edgar Wallace per la prima stesura della sceneggiatura. Di lì a breve Wallace sarebbe scomparso, lasciando il copione nelle mani di James Ashmore Creelman e di Ruth Rose, moglie di Shoedsack, che creerà i personaggi di Carl Denham e di Jack Driscoll basandosi rispettivamente su Cooper e sul marito. Nel mentre O’Brien gestiva il lato artistico. Sotto le sue direttive Mario Larrinaga e Byron Crabbe realizzarono gli storyboard di diverse scene e dipinsero (sulla falsariga dei maestosi lavori di Gustav Dorè) i fondali su cui si sarebbero andati a muovere i modelli del gorilla e dei dinosauri da animare, che vennero ideati e costruiti da Marcel Delgado basandosi sulle iconiche rappresentazioni paleoartistiche di Charles R. Knight (fatta eccezione per alcuni direttamente riciclati dal precedente ‘’Creation’’). I modelli da animare di Kong erano alti poco più di mezzo metro e consistevano di uno scheletro metallico snodabile ricoperto di cotone, gomma, latex liquido e pelliccia di coniglio. Quanto è sopravvissuto al passare del tempo, cioè appunto un'armatura di metallo, è stato venduto in un'asta inglese nel 2009 per il valore di 200'000 dollari.

Uno dei più grandi meriti del film fu proprio il notevole passo avanti che comportò nel campo degli effetti speciali. Linwood Dunn fu il responsabile di un sistema di lenti montate su livelli differenti, di cui Cooper e O’Brien seppero sfruttare la straordinaria profondità di campo con grande maestria per dare vita all'ambientazione e alle creature che la popolano. Infatti ben prima che Ray Harryhausen perfezionasse l’integrazione di stop-motion e live action quasi ai limiti dell’impossibile con la Dynamation, già O’Brien e la sua equipe seppero inventare delle tecniche che permisero all’animazione e al girato di amalgamarsi con risultati che lasciarono gli spettatori a bocca aperta. I modellini venivano animati a passo uno di fronte a dei fondali in cui era lasciato, con ingegnosi stratagemmi, uno spazio aperto su cui proiettare da dietro le immagini degli attori frame per frame. Così facendo insieme alle maquette venivano rifotografate anche le sequenze live action. Altra trovata di successo fu quella di sfruttare delle transizioni fantasma nei campi lunghi o nei totali per passare dagli attori in carne e ossa a dei modellini con le loro fattezze; così come l’idea di utilizzare un enorme avambraccio meccanico che tenesse la protagonista (non a caso la stessa tecnica sarà reimpiegata da Carlo Rambaldi, ben quarantatre anni dopo, per il primo remake del 1976). La sequenza che ha luogo nella caverna in cui il gorilla titolare dimora, e in cui lo vediamo battersi con un mostruoso animale serpentiforme, è generalmente ritenuta la più grande conquista che potesse essere fatta a quel tempo dagli effetti speciali analogici.
Quanto rimane del modello del mostruoso brontosauro presente nel film, oggi conservato in un museo dello Utah
Terminate le riprese, nel corso della post-produzione  il direttore degli effetti sonori Murray Spivack si occupò del campionamento dei versi degli animali di uno zoo per poter creare i ruggiti degli abitanti dell’Isola del Teschio. L'attrice protagonista Fay Wray dovette passare una giornata in uno studio insonorizzato della RKO a registrare le grida che sentiremo spesso nel corso del film, non a caso è considerata una delle prime ''scream queen'' della storia del cinema (ricordiamo che il sonoro era stato introdotto da poco, e andava affermandosi su larga scala proprio in quegli anni). Infine il compositore Max Steiner realizzò in sole otto settimane l’intera colonna sonora, pagato direttamente dal regista, poiché la RKO aveva previsto che al posto di spendere per nuove tracce si sarebbe risparmiato utilizzando quelle di altri loro film.

Il 2 Marzo del 1933 King Kong fu presentato alla Radio City Music Hall e all’RKO Roxy Theater di New York. Nonostante quello sarebbe stato l’anno più buio della Depressione, con il 25% della forza lavoro di tutti gli Stati Uniti disoccupata e la crisi del settore cinematografico che aveva visto soccombere numerose compagnie e teatri in tutto il paese, si rivelò il film evento della stagione con più proiezioni nello stesso giorno e quasi sempre il tutto esaurito. Guadagnò nel suo primo fine settimana in patria ben 90’000$, cifre spropositate per l’epoca. Spesso si parla impropriamente di come King Kong salvò la RKO dalla bancarotta, in realtà questa finì comunque nel regime di amministrazione controllata come molte altre società del settore, ma è indubbio che le sia stato possibile sopravvivere alla crisi soprattutto grazie al colpaccio della squadra Cooper, Selznick, O’Brien.
Manifesto pubblicitario del tempo
Fu anche un film discretamente scandaloso per l’epoca. Determinate sequenze dal gusto più orrorifico terrorizzarono l'ingenuo pubblico statunitense tanto che, quando entrò in vigore il cosiddetto Production Code, subì numerose censure per le ridistribuzioni degli anni successivi. [Il Production Code, o Hays Code, fu proposto nel 1930 presso la Motion Pictures Association of America e divenne pienamente operativo nel 1934. Tale codice indicava quali contenuti fossero ritenuti moralmente accettabili o meno da mostrare nelle pellicole, e lo faceva in base a una serie di parametri. Tra i vari dogmi che imponeva ai produttori vietava categoricamente: profanità, nudità mostrata o suggerita, uso di droghe, schiavitù dei bianchi o scene di parto; richiedeva che fossero trattati con estrema cautela e nel rispetto del buon gusto temi quali la bandiera, l’utilizzo di armi da fuoco, furti, violenza, stupro, i
l matrimonio e l’attitudine nei confronti delle istituzioni e dei personaggi pubblici. Queste linee guida avrebbero tenuto sotto scacco l’industria hollywoodiana per decenni, e si sarebbero particolarmente inasprite tra gli anni ‘40 e ‘50, costringendo i creativi più arditi ad aggirarle fino al limite estremo. Dopodiché sarebbero entrate in declino e abolite nel 1968, a seguito di anni senza aggiornamenti, per poi essere sostituite dal più noto MPAA Film Rating System.] Una notoria leggenda metropolitana voleva che in un momento del film Kong, rapito dalla bellezza della bionda, la spogliasse fino a denudarla. Quindi, a quanto pare, la scena sarebbe stata tagliata a partire dalla seconda messa in sala per la raffigurazione della nudità. In realtà questa scena esiste ed è effettivamente stata rimossa per anni però, come ha confermato la stessa attrice, le sue grazie non venivano mai mostrate (nonostante fosse previsto nei primi concept art). In ogni caso ci possiamo godere il film nella sua integrità, o quasi, perché come anticipato i momenti particolarmente grotteschi furono tagliati in tronco e risultano perduti. Un esempio è la famosa sequenza del fosso, ricreata nel 2005 da Peter Jackson e dalla compagnia di effetti speciali Weta Digital come omaggio in vista del secondo remake a cui stavano lavorando, che sarebbe uscito nel dicembre di quell'anno.
Non solo campione d’incassi, la fatica di Cooper/Shoedsack fu molto amata dal pubblico mentre suscitò pareri contrastanti da parte della critica tra chi lo ha da subito elogiato e chi lo ha smontato, come il noto critico italiano Mario Gromo che lo definì all’epoca su La Stampa: <<Un film per miopi>>, criticando perfino i tanto amati effetti speciali. [Piccola nota curiosa è che nel suo articolo il giornalista fa riferimento a un presunto costume indossato da un attore per portare in vita il mostro; questa è una vecchia diceria che è andata avanti ben aldilà dell'uscita in sala, e in cui sono incappati in molti, secondo la quale in determinate sequenze si fece ricorso alla suit animation. Questa voce fu ulteriormente fomentata negli anni '60 da una serie di interviste rilasciate dallo chef Carmen Nigro, che dichiarò di aver impersonato Kong come stuntman non accreditato in alcune riprese. Il fatto è stato contestato e smentito da diversi storici cinematografici, e dai registi per primi.]
 
Quali sono le ragioni che hanno reso King Kong un'opera così importante e riconoscibile? Tanto per cominciare la contemporaneità in cui è (era) calato. Facendosi portatore della più grande delle qualità della settima arte divenne testimonianza di un mondo, di una New York anni ‘30 che non c’è più e di cui rimane ben poco. Un attestato degli States travolti dalla nera crisi economica che ha avuto profonde ripercussioni sociali, che possiamo vedere riassunte nella Women Home Mission in cui si aggira Carl Denham o nel disperato tentativo di Ann Darrow di rubare una mela al mercato pur di mangiare. 
 
I personaggi che ci vengono presentati sono figli di una cultura americana molto cambiata. Quando Denham si vede costretto a trovare una protagonista femminile il primo ufficiale della nave su cui si imbarca tutta la troupe, Driscoll, è decisamente infastidito dalla presenza di una donna a bordo. Infatti visto adesso potrebbe far accapponare la pelle per delle rappresentazioni culturali ambigue (vedasi il cuoco cinese Charlie o il ricorso alla blackface per ritrarre in maniera caricaturale gli indigeni dell’isola), ma sarebbe un grave errore perché non è un film realmente razzista come molti lo hanno accusato, forse in maniera ben più maliziosa dello stesso, ma semplicemente lo specchio datato di una forma mentis ormai obsoleta. [Contrariamente il precedente Le Quattro Piume, ambientato in Sudan, è stato ritenuto da molti studiosi un film profondamente razzista e schierato a favore dell'uomo bianco espansionista contro l'inferiore uomo nero.] Lo stesso Cooper disse, in un’intervista pubblicata postuma, che non ci fosse alcun significato razzista bensì l’ispirazione per tutta la storia derivasse semplicemente dal conflitto romantico fra il primitivo e la civilizzazione, e da La bella e la bestia. Non è però di secondaria importanza il sottotesto del film, molto poco indulgente verso i personaggi. Se Kong è un animale violento e feroce al contempo viene caratterizzato da una certa misura di umanità, soprattutto nei primi piani realizzati con un gigantesco busto meccanico che vi metteranno il sorriso sul volto, Carl Denham è invece un vero e proprio antieroe disposto a correre i più grandi rischi e mettere in pericolo tutto il suo equipaggio pur di rincorrere il successo. Soldi, Avventura, Gloria è il motto del regista, una massima che però all'interno del racconto convince solamente lui, mentre gli studios per cui lavora non vedono più di buon occhio il suo modo di fare eccentrico e dispendioso.

Il film può anche essere letto come l'oggettivazione di una mentalità affascinante ma estremamente naif per uno spettatore moderno: la convinzione, la speranza di trovare quei leggendari paradisi perduti disseminati in giro per il mondo di cui si parla solo nelle leggende. Viene sottolineato quello spirito colonialista tipicamente europeo-occidentale dell'uomo bianco, che lo ha più volte spinto nel corso della storia ad appropiarsi e a violentare meravigliose oasi del nostro mondo. La stessa sorte, purtroppo, toccherà all'Isola del Teschio e al suo re. 
 
È a questo punto che King Kong passa dall'essere un bellissimo film di orrore e avventura (dal ritmo al cardiopalma dal momento in cui il gorilla rapisce Ann, con spargimenti di sangue e scontri con bestie preistoriche a destra e manca) ad essere il paradigma di tutti i monster movie con la creazione della tipica componente erotica tra il mostro e la fanciulla, ma soprattutto una vera e propria tragedia contemporanea. Kong è l'incarnazione della natura manipolata dal genere umano, una natura violenta e caotica che gli si ritorcerà contro per punirlo della sua tracotanza. Nel finale, la parte più celebre, lo scimmione si arrampica sull'Empire State Building [riprendendo, concettualmente, tanto il finale de Il Mondo Perduto quanto quello de Il gabinetto del dottor Caligari (1920)], simbolo dell'avanguardia tecnologica umana, ma viene comunque piegato dalla sua potenza terribile e innaturale. Un messaggio non solo triste e malinconico, ma anche spaventosamente attuale.
Uno dei concept art originali, ad opera di Mario Larrinaga e Byron Crabbe
[In un'intervista rilasciata nel 1989 la Wray dirà: <<King Kong è un film duraturo e molto apprezzato, per me è un piacere esserne stata parte (...) Penso sia un bellissimo pezzo di storia del cinema (...) L’ultima volta che l’ho visto mi sono resa conto di quanto sia un lavoro eccezionalmente affascinante. Nel finale, quando Kong è sulla cima dell’Empire State Building mentre viene abbattuto, anche se sono sfuggita alle sue grinfie durante il corso di tutto il film, mi sono sentita affranta (...) se ti affezioni a qualcuno in un film vuol dire che ha raggiunto il suo scopo (...) Apprezzavo molto il regista, avevo già lavorato con lui e ammiravo la sua intelligenza e la sua immaginazione (Riferendosi alla mano meccanica) Era fastidioso, difficile e stancante (rimanere lì a lungo) ma anche emozionante perché dovevo immaginare come fosse il resto dell’animale (...) stavo in piedi sul palco del set e loro stringevano le dita intorno alla mia vita (...) e sollevavano il braccio per circa tre metri (...) e dovevo recitare, comportarmi come se fossi spaventata, mentre cercavo di non scivolare e cadere nel vuoto (...) forse è grazie a questo che si ha l’impressione che volessi fuggire (...) ma è stato molto stimolante farlo e simulare senza nient’altro che l’immaginazione (...) Per me era un mistero come riuscissero a combinare la mano, me, i pupazzi e farlo sembrare tutt'uno, e li rispetto molto per questo (...) l’uomo che si è occupato degli effetti speciali era un vero artista, conosceva l’anatomia e sapeva come rendere i movimenti credibili (...) La parte più bella è stata vedere il film una volta completato, la prima volta che l’ho guardato ho pensato che urlassi troppo (...) poi ho compreso la particolare maestosità che aveva, nel modo in cui si concludeva e te ne andavi con quell’immagine indimenticabile>>.]
 
In risposta al successo straripante la RKO mise subito in cantiere un sequel, Son of Kong, che sarebbe uscito appena otto mesi dopo. L'effetto King Kong ormai era travolgente, e non poteva essere arrestato. Avrebbe dato il via a uno dei più prolifici filoni di simili (e di spudorate imitazioni) mai visti. Il succitato Ray Harryhausen lo vide da bambino in sala, e ne rimase talmente colpito che da quel momento decise di dedicare la sua vita alla stop-motion. Anni dopo sarebbe diventato l'erede del suo idolo Willis O'Brien e, insieme a lui, avrebbe lavorato a Mighty Joe Young (1949) [per cui O'Brien vinse il premio oscar ai migliori effetti speciali] diretto da Shoedsack. Come già detto due sono stati i remake dedicati [senza contare King Kong vs Godzilla (1962), King Kong - il Gigante della Foresta (1967) -entrambi firmati Ishiro Honda- e King Kong 2 (1986), sequel diretto del precedente rifacimento], e possiamo ammirarne le gesta sul grande schermo ancora oggi nel MonsterVerse della Legendary Pictures. Non si può ignorare nemmeno la lista infinita di rimandi e parodie che la cultura pop gli ha dedicato (non basterebbe un articolo per citarli tutti) tra cui King Homer nello speciale di halloween de I Simpson del 1992, il personaggio Nintendo di Donkey Kong [per il quale, negli anni '80, MCA/Universal tentò di portare in tribunale il colosso videoludico giapponese], o il suo cameo in Ready Player One (2018). Insomma quella scommessa visionaria del 1933 è diventata un caposaldo, forse proprio perché rappresenta uno degli ultimi baluardi di quel desiderio tipicamente romanticista di andare alla scoperta di fantasiosi luoghi inesplorati, ormai tramontato definitivamente con l'avvento della contemporaneità. 

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BIBLIOGRAFIA e VISIONI CONSIGLIATE
ARTICOLO DI
ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA DI
REVISIONE DI
ROBB P. LESTINCI e GIULIA ULIVUCCI

lunedì 23 maggio 2022

X-Files...con i kaiju? - Una panoramica di ''Ultra Q'' (Parte 2)

Proseguiamo finalmente la nostra visione generale della serie Ultra Q passando in rassegna altre tre puntate stravaganti e dagli spunti originali.

Questo episodio rappresenta una delle più riuscite combinazioni di fantascienza e orrore di tutta la serie, oltre che essere uno dei più folli e di quelli che risulteranno più influenti negli anni a venire specialmente per la futura produzione televisiva e cinematografica Tsuburaya. Il racconto si apre con un oggetto non identificato che viene rilevato dai radar del Japanese Self-Defence Forces. Il maggiore Amano, responsabile della base JSDF, invia dei jet presso la posizione del misterioso apparecchio ma questi vengono distrutti e l'UFO sparisce nel nulla. Convocato per fare rapporto sull'accaduto, lo scioccato maggiore non viene creduto dai superiori ed è qui che parte la singolare introduzione della puntata, con un effetto negativo che si sposa molto bene alla narrazione e al solito tema principale di Ultra Q. Nel mentre in giro per Tokyo si verificano fatti anomali: si accumulano testimonianze di persone scomparse da un momento all'altro, anche Yuriko cattura una delle sparizioni facendo un servizio fotografico a una donna su un go-kart. Così la giovane in cerca di scoop collega velocemente quanto accaduto alla notizia dell'UFO, contatta Amano e lo porta con sé da Jun e Ippei. Jun e Amano vanno a sorvolare il luogo dell'avvistamento finché il pilota non scompare nel nulla, invece Yuriko prosegue da sola le proprie ricerche. Consultando le foto scattate, la ragazza si accorge che la donna sul kart è sparita dopo essere entrata in contatto con una sostanza gelatinosa sconosciuta. Ippei sostiene che quanto sta accadendo sia scritto in un libro di fantascienza dal titolo ''Sfida dall'anno 2020'', scritto da tale professor Kanda (che sosteneva di non aver inventato nulla, ma di aver basato il romanzo su conversazioni telepatiche fatte con gli alieni del pianeta Kemur, provenienti dal futuristico anno 2020). Nonostante Yuriko non creda alla tesi dell'amico si accorge che c'è qualcosa di strano e che qualcuno la sta osservando quando scompaiono il suo assistente e un collega, così le viene mandato un agente di scorta dalla polizia, il buffo detective Udagawa. Guarda caso si scopre che Udagawa fosse il migliore amico del professor Kanda, fu lui stesso a farlo internare a seguito di quelli che riteneva essere deliri circa alieni provenienti dal futuro che avrebbero rapito gli umani per assorbirli e vivere in eterno. Dopo poco i due si imbatteranno finalmente nel mostruoso Kemuriano che seguiva Yuriko e controllava mentalmente la sostanza viscosa, creatura dal design talmente bizzarro da essere tanto inquietante quanto comica (sicuramente la successiva fuga in corsa dalla volante della polizia propende più per la seconda). Finalmente il maggiore Amano crede a Ippei e insieme vanno alla ricerca dello scrittore pazzo, che però scopriranno essere già stato fatto sparire. Al suo posto trovano un dispositivo, che Ippei ricorda dal racconto, in grado di trasmettere delle onde elettromagnetiche dannose per il Kemuriano. Contemporaneamente l'invasore spaziale riesce a rapire Yuriko, ma viene rincorso da Udagawa fino a un parco divertimenti. Qui troviamo la sequenza più angosciante in cui Yuriko si trova a metà tra la realtà e l'onirico in mezzo alle luci colorate delle giostre, alle musiche allegre e alle proiezioni di un Jun divertito e sorridente, che in realtà non è altri che il mostro alieno. Udagawa e la polizia aprono il fuoco sul Kemuriano che di tutta risposta diventa gigantesco (giustamente), e contrattacca mentre agita le mani in modo strambo e spruzza un liquido non meglio identificato dall'appendice che ha sulla testa. Dalla Tokyo Tower, però, Amano e Ippei posizionano lo strumento elettromagnetico con cui riescono a colpire e uccidere l'alieno una volta per tutte. Dopodiché tutte le persone scomparse, Jun compreso, si rimaterializzano sul posto. Il tutto si conclude con un cliffhanger tragicomico ai danni del povero investigatore, che pesta una delle ultime pozze di gelatina lasciate dal Kemuriano morto e scompare. Nonostante un tono altalenante, che alterna momenti paurosi ad altri sfacciatamente umoristici, questo risulta essere uno degli episodi più curati sotto il profilo tecnico con una regia, dei giochi di montaggio e transizioni molto interessanti. Piccola chicca: il Kemuriano (che tornerà più volte nelle successive serie di Ultraman) qui è stato interpretato da Bin Furuya, primo attore a vestire i panni del supereroe della Nebulosa M-78.
A Tokyo è arrivato il circo del mago Akanuma, personaggio a dir poco eccentrico il cui tratto distintivo è un'espressione continuamente accigliata e che si diletta nell'ipnotismo. Il numero che sta riscuotendo più successo è quello in cui il circense coinvolge sua figlia, la piccola Lily, chiusa in una scatola mentre lo spirito appare nell'aria e si mostra al pubblico per poi riunirsi con il corpo. Lo spettacolo è talmente popolare che viene visto anche da Yuriko, Jun e Ippei in compagnia dello scettico Dr. Ichinotani, che ne esce incredibilmente scosso. Allo stesso tempo, però, di notte in giro per la città si susseguono dubbi incidenti accomunati dalla sparizione di oggetti di bassa lega o chincaglieria come giocattoli, anelli e ciondoli. Man mano che il celebre spettacolo di Akanuma e Lily viene riproposto la piccola sembra  sempre più provata ed è vittima di un mancamento, intervenendo per darle una mano i nostri protagonisti scoprono che il padre sottopone tutte le sere la figlioletta a delle sedute di ipnosi attraverso un carillon per farla dormire, e notano che nella stanza della bambina ci siano oggetti molto particolari rimediati chissà dove. A questo punto il Dr. Ichinotani convoca i tre per mostrargli il frutto dei suoi studi sulla corrente bioelettrica del corpo umano; secondo lo scienziato quella che definiamo ''anima'' sarebbe tale energia, l'estensione dell'essere umano, il risultato del bilanciamente tra bioelettricità negativa e positiva. Il dottore ritiene che lo spirito di Lily non sia altro che la manifestazione delle correnti bioelettriche negative del corpo della ragazzina, ormai del tutto instabili perché costantemente sollecitate dall'ipnosi, dunque sarebbe lei il misterioso spettro visto da molti vagare nel cuore della notte e causare incidenti. Il gruppo torna al circo ma trova Akanuma disperato, Lily è sparita. Lo spettro maligno di Lily sta infatti conducendo la bambina verso le montagne (il padre le ha sempre raccontato che è in quelle zone che si trova la madre, in realtà defunta) per farla morire schiacciata dal prossimo treno, ripercorrendo insieme il percorso dei binari. Fortunatamente Jun e Ippei le raggiungono in tempo per utilizzare la macchina di Ichinotani, stabilizzare la corrente bioelettrica di Lily, farle riassorbire il fantasma e salvarla da morte certa. Infine Akanuma decide di dedicarsi a delle performance che non mettano più a rischio Lily. Altro episodio abbastanza compatto, probabilmente uno dei migliori in assoluto, in cui il bilanciamento tra sci-fi e horror risulta davvero riuscito: il fantasma della bambina è effettivamente inquietante e molto vicino al più recente J-Horror che siamo abituati a conoscere, oltre ad essere costantemente accompagnato dall'irritante effetto sonoro della risata. Interessante anche il discorso morale pronunciato alla fine dal narratore Lily non era una bambina diavolo, se ci dovesse essere stato un demone non era in lei ma nel mondo distorto che la circondava. Per favore, fate caso a come Lily abbia riacquisito la sua energia e la sua gentile innocenza sul palco.
Una notte Jun e Yuriko sono impegnati in un giro in macchina romantico, di ritorno verso casa, finché non si imbattono in un uomo privo di sensi steso al centro della strada. Credendo sia semplicemente ubriaco lo soccorrono e lo portano sull'autovettura. Fermi all'altezza di un passaggio a livello, però, l'uomo si sveglia di botto e reagisce scompostamente al rumore del treno come se lo terrorizzasse. Così Yuriko e Jun decidono di portarlo dall'amico Dr. Ichinotani che, dopo averlo visitato e ipnotizzato per farlo riposare, rivela loro di aver ricevuto in cura altri pazienti che hanno manifestato simili turbamenti. L'indomani l'uomo, Sawamura, racconta di essersi improvissamente ritrovato la notte prima a bordo di un treno fantasma apparentemente vuoto. Aggirandosi per i vagoni avrebbe incontrato prima un freddo controllore (in pieno stile Lloyd di ''Shining''), e poi qualche altro passeggero tra cui lo scrittore di fantascienza Kenji Tomono. Quest'ultimo avrebbe spiegato all'incredulo Sawamura di trovarsi su un surreale treno in grado di viaggiare oltre allo spazio e al tempo, per portare lontano dalle loro vite monotone e stantie tutti coloro che hanno sognato almeno una volta di poterle abbandonare. Disperato per l'eventualità di perdere la propria routine, gli amici e la famiglia l'uomo si fa prendere dal panico e sviene. A questo punto Yuriko e Jun vanno alla ricerca di Tomono, scoprendo però che si è allontanato dalla sua dimora da più di un anno e mezzo e che raramente invia per posta gli ultimi manoscritti, o fa delle brevi telefonate, senza che nessuno sappia dove si trovi. Nel mentre Sawamura viene ritirato dalla figlia e dalla moglie, entrambe deluse e arrabbiate credendolo un povero ubriacone che ha disonorato la famiglia, e con grande ritardo si presenta sul posto di lavoro dove viene maltrattato dal capo ufficio. Facendo molta difficoltà a reinserirsi nella società Sawamura comincia finalmente a capire il discorso che gli ha fatto Tomono su quel misterioso treno e si mette a richiamarlo a squarcia gola, nella speranza di poter fuggire una volta per tutte da quella trappola che definiva vita. La peculiarità di questo ultimo episodio della serie è che sia privo di un finale vero e proprio, di una risoluzione o un punto di arrivo, si chiude in una condizione di sospensione più totale. L'atmosfera ultraterrena viene resa visivamente in modo efficace: le sequenze ambientate sul treno transdimensionale danno effettivamente il senso di trovarsi fuori dal mondo, con angoli e inquadrature distorte. Molto ben riusciti sono anche gli effetti visivi del susseguirsi dei ricordi del passato di Sawamura aldilà dei finestrini. Alla base di questo racconto si trova un discorso tipicamente giapponese, una specie di velata condanna ai sogni infantili di escapismo e alla sottrazione ai propri doveri, che però può essere contemporaneamente interpretato come il recondito desiderio di fuga dalla grigia realtà mondana da parte di una società che ancora oggi risulta particolarmente rigida.

Il ventottesimo episodio, uno dei primi ad essere scritti e prodotti, non venne trasmesso fino a più di un anno dall'originale messa in onda. Questo perché, come abbiamo visto, nel mentre la Tsuburaya Productions si stava anche dedicando ad Ultraman, e aveva deciso di anticipare al suo posto una presentazione speciale del nuovo prodotto dal titolo ''La Nascita di Ultraman''.

Nel 1967 Ultra Q e Ultraman vennero acquistate in un singolo pacchetto dalla CBS Films, casa produttrice di ''Ai Confini della Realtà''. CBS si mise da subito al lavoro per far doppiare entrambe le serie, e Tsuburaya fornì loro i copioni tradotti e la sigla già adattata. A lavori inoltrati, però, la CBS Films si fece indietro e le serie vennero rilevate dalla United Artists Television che decise di mettere da parte Ultra Q essendo un prodotto da proporre sul mercato televisivo statunitense in bianco e nero, in un periodo in cui si spingeva sempre più per il colore. A quanto pare la maggior parte degli episodi di Ultra Q erano già stati adattati e doppiati in Inglese, e vennero archiviati nei vault della MGM fino a che nei primi anni 2000 la Tsuburaya non si riprese tutto il materiale. Ad oggi sono sopravvissute pochissime tracce di questo doppiaggio, tutte principalmente nelle mani dei collezionisti, ed è anche questo dato ad avere sicuramente contribuito alla scarsa fama della serie.

Oltretutto nel 2004 la Tsuburaya Productions ha realizzato una serie celebrativa del suo primo lavoro dal titolo Ultra Q: Dark Fantasy, a metà tra il sequel e il remake dell'Ultra Q originale.

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martedì 17 maggio 2022

X-Files...con i kaiju? - Una panoramica di ''Ultra Q'' (Parte 1)

Se leggete Horror Moth da qualche tempo saprete che qui in redazione siamo appassionati ai limiti del malsano di film di mostri giganti, quelli di Godzilla su tutti. Dunque se siete un minimo familiari col mondo di cineasti, artigiani e tecnici che hanno dato vita al Re dei Mostri e al suo pantheon tra gli anni '50 e gli anni '70 (la cosiddetta Era Showa), avrete quantomeno sentito nominare Eiji Tsuburaya
Questo signore è semplicemente considerato il padre del Tokusatsu (ossia quel genere di film e serie televisive che fanno grande uso di effetti speciali, una forma di intrattenimento popolare fantastico/sci-fi consolidata in Giappone che ruota intorno a kaiju o supereroi mascherati. Un sottogenere del Tokusatsu, che combina tali elementi, è il Super Sentai di cui esempi famosi possono essere Kamen Raider o Power Rangers. Su questo ultimo punto torneremo a breve). 

Classe 1901, Tsuburaya ha lavorato in oltre duecentocinquanta produzioni di genere e rappresenta insieme a Ishiro Honda a tutti gli effetti il co-creatore di Godzilla, avendo realizzato la tuta del primo film e molte altre con le proprie mani. E' stato una figura talmente importante e riconosciuta nel cinema del Sol Levante post Seconda Guerra Mondiale che oggi nella città natale, Sukagawa, sorge un museo in suo onore. E' stato il fautore di personaggi e di mostri talmente influenti da avere superato i confini della sua terra ed essere diventati parte della memoria collettiva contemporanea, a proposito di questo forse ricorderete il Google Doodle che gli fu dedicato nel 2015.
Tsuburaya e la sua troupe sul set
Nel 1963 fondò la casa di produzione Tsuburaya Special Effects Production (ad oggi solo Tsuburaya Productions) trovandosi ad essere contemporaneamente uno dei dipendenti più potenti e rispettati della TOHO e uno dei suoi maggiori competitor, specialmente grazie al celeberrimo show televisivo super sentai Ultraman (1966-1967) che avrebbe generato un franchise infinito. Data l'uscita di Shin Ultraman nelle sale giapponesi lo scorso venerdì, ad opera di Hideaki Anno e Shinji Higuchi già autori del grande Shin Godzilla (2016), ne approfittiamo per parlare di quello che fu il primo lavoro della ''carriera solista'' di Tsuburaya: Ultra Q (1966-1967), una serie TV composta da ventotto episodi che potremmo definire in qualche modo il prologo spirituale della sua opera magna.

Il progetto nelle intenzioni di Tsuburaya sarebbe dovuto essere una serie antologica di tredici episodi che inizialmente doveva intitolarsi ''Unbalance'', ispirata a prodotti statunitensi come Ai Confini della Realtà (1959-1964) o The Outer Limits (1963-1965), con racconti dalle tinte horror e fantascientifiche. Entrò in produzione per mano della Tsuburaya Productions quando fu trovato un network disposto a finanziarla e trasmetterla, cioè il colosso Tokyo Broadcasting System Television, che però convinse il produttore esecutivo Tsuburaya a concentrarsi di più sui mostri dato che stava decollando il ''Kaiju Boom'' degli anni '60 e il pubblico, specialmente i bambini, era particolarmente attratto dai film di Godzilla e di Gamera.

Per quanto riguarda il titolo si optò per la parola ''ultra'' data la popolarità della strategia informale denominata Ultra-C, utilizzata dalla squadra di ginnastica olimpica giapponese nei Giochi della XIX Olimpiade a Città del Messico; ''Q'' invece stava per ''question'', domanda. 

Le lavorazioni iniziarono ufficialmente nel 1964 e il primo episodio sarebbe stato trasmesso il 2 Gennaio 1966, girato in bianco e nero in 35 mm. Nonostante i grandi limiti produttivi fu la serie televisiva giapponese più costosa prodotta fino a quel momento. La serie sarà resa disponibile anche in versione colorizzata nel 2013 per l'edizione home-video in blu ray.
Il prodotto finale vede un cast corale di tre protagonisti: l'avventuroso pilota Jun, il suo assistente e linea comica Ippei e la giornalista Yuriko, a formare il trio che si imbatterrà volta per volta in mostri giganti, alieni, fenomeni paranormali ecc. Inoltre spesso appariranno delle guest star, volti noti del cinema giapponese di allora. A fare breccia nel cuore degli spettatori, però, più che i personaggi umani saranno diversi mostri che diventeranno tanto iconici da tornare nelle future produzioni della Tsuburaya.

Prenderemo in considerazione sei episodi appositamente selezionati per dare un'infarinatura generale su quella che è la natura di questo telefilm, e cosa ha rappresentato per la cultura pop giapponese. Sei episodi che mettono in risalto la poliedricità, i guizzi, la follia e le grosse ingenuità del primo esperimento di Eiji.
La serie si apre con una tradizionale storia di mostri giganti condensata nel minutaggio di venticinque minuti grazie a ritmo e montaggio serrato, probabilmente perché rappresentava un colpo sicuro per la casa di produzione che già aveva esperienza in questo campo di gioco; il tutto con dei titoli di testa degni di nota, ben girati da Hajime Tsuburaya (il figlio maggiore) e ben musicati, che ci accennano dei dettagli minacciosi del mostro protagonista dagli occhi, alle zanne, alle possenti zampe, alla coda. In un cantiere dove si scava per realizzare la galleria di un treno tra Tokyo e Osaka i lavoratori si imbattono in una caverna sotterranea, dalla quale dissotterrano un oggetto misterioso. Jun, Yuriko e Ippei vengono inviati sul posto a seguire la situazione, i primi due si avventurano all'interno del sito di scavo in cerca di altri indizi, mentre il terzo rimane in superfice. Poco dopo un giovane ragazzo appassionato di paleontologia giunge alla conclusione che l'oggetto in questione non sia altro che un uovo risalente al Paleozoico, in maniera abbastanza arbitraria e senza che nessuno si ponga troppe domande in merito.  Nel mentre, continuando a scavare, la squadra incontra anche il terribile mostro Gomess (in modo abbastanza comico, con una scavatrice che lo colpisce in pieno da un momento all'altro, scatenando la sua ira). A questo punto anche Jun e Yuriko si trovano faccia a faccia con Gomess e, non avendo altra scelta, scappano verso l'uscita della gola inseguiti dalla creatura. Ippei e il ragazzo vengono ad apprendere una leggenda locale secondo cui l'uovo apparterrebbe al leggendario uccello Litra e quando verrà riportato alla luce comporterà il risveglio del suo nemico naturale che distruggerà il mondo, l'unico in grado di contrastarlo sarà Litra stesso. Gomess giunge in superfice e inizia ad attaccare il cantiere, inciampando su sé stesso un paio di volte, nel mentre il gruppo si è ricongiunto e cerca di scaldare l'uovo per accellerare il processo di schiusa. Così nasce Litra, sicuramente l'effetto più dozzinale e meno riuscito, e tra i due titani inizia un violento scontro che si concluderà con la triste morte di entrambi, uno accasciato sull'altro. Già abbiamo parlato dell'importante ruolo che Tsuburaya rivestiva in TOHO, motivo per cui il costume di Gomess è stato creato modificando quello del sauro atomico  visto nei film Mothra vs Godzilla (1964) e Ghidorah! Il Mostro a Tre Teste (1964). Anche Litra è stato realizzato a partire da delle componenti del mostro Rodan. Oltretutto la tuta di Gomess viene indossata da Haruo Nakajima, storico stuntman interprete di Godzilla.
Una notte la solita compagnia (stavolta allargata) è di ritorno da una festa. Durante una breve sosta, però, Ippei e un amico finiscono accindentalmente in un profondo pantano rischiando di annegare. Vengono salvati per un pelo e hanno bisogno di riscaldarsi così il gruppo si reca presso l'unica abitazione nei paraggi, una gigantesca villa in mezzo alla palude. La casa sembrerebbe disabitata, eppure una sola delle tante finestre è illuminata. Una volta entrati la trovano totalmente abbandonata e piena di ragnatele, perfino la famosa finestra non è altro che una stanza che affaccia al faro lì vicino. Mentre Ippei e l'altro ragazzo cercano di scaldarsi al camino, Jun ricorda la vecchia storia di un barone che dimorava in una simile residenza ed era appassionato di ragni che teneva come animali domestici. Un giorno la figlia del barone venne punta da una delle sue tarantole e, nella disperazione, scappò verso la palude circostante dove annegò. La ragazza sarebbe riemersa dalle acque rinata come un gigantesco ragno, portando il padre alla follia. C'è chi viene suggestionato dalla storia di Jun e chi meno, in ogni caso nel luogo in cui si trova la comitiva aleggia un brutto clima. Ben presto i ragazzi verranno aggrediti da due enormi ragni, scoprendo loro malgrado di essere capitati proprio nella casa del barone. A seguito di una fuga rocambolesca e di violente colluttazioni riusciranno a ucciderli entrambi e a scappare. Nel finale la villa crolla su sé stessa e prende fuoco in seguito alla morte dei due ''residenti'', il tutto accompagnato da queste parole evocative: Si teme che il ragno sia il messaggero del diavolo. C'era una triste storia di un umano che si trasformò in ragno, la ragione per cui attaccava gli uomini potrebbe essere la sua speranza di tornare un giorno ad essere uno di loro...se incontrate un ragno nell'oscurità, per favore, lasciatelo in pace... Decisamente l'episodio più horror tra quelli che vedremo in questa occasione, quasi una leggenda di yōkai, quello dal gusto più squisitamente raccapricciante e con una grande atmosfera, infatti si concede dei movimenti di macchina più arditi, dei tempi vagamente più dilatati (sempre nei limiti del minutaggio) e una direzione fotografica più ricercata. Promossi anche lo stile gotico dell'ambientazione, il bel modellino della casa infestata nel cuore della palude e i ragnoni, molto efficaci nella loro semplicità. Unico elemento abbastanza discutibile è il verso, non particolarmente minaccioso, che gli è stato attribuito.
Si torna al classico sci-fi con l'episodio che tra i tre si apre nel modo più scoppiettante, con un astronauta di ritorno da Saturno verso la Terra (rigorosamente privo di casco all'interno della navicella spaziale) che scopre un materiale non identificato attaccato alla nave, e di avere esaurito il carburante tanto da andare in totale over acting. L'astronave si schianta in mare, causando la morte del pilota, dunque Jun e Yuriko si recano sul posto. Qui Jun scopre un misterioso essere della forma e dimensioni di un palloncino, che decide di portare con sé a Tokyo per farlo esaminare. Col tempo l'essere continua a crescere e a consumare le fonti energetiche e il carburante che lo circondano, arrivando a ferire gravemente Ippei per le proprie dimensioni smisurate. La creatura è diventata un mastodontico blob (che viene ribattezzato dai giornali con l'intimidatorio nome ''Baloonga'') e adesso fluttua sul cielo di Tokyo per dissipare quanta più energia possibile, costringendo la città a spegnersi completamente per non continuare ad alimentarlo. Yuriko comincia ad indagare, scoprendo che anni prima uno scienziato era già entrato in contatto con una piccola parte di questo materiale alieno e lo aveva studiato. La giovane si mette sulle tracce dello studioso, preoccupata per l'amico Ippei che (come tante altre persone) ha bisogno di essere operato d'urgenza e, senza energia elettrica a disposizione degli ospedali, rischia la vita in un inaspettato risvolto drammatico. Rintracciato il vecchio professore (che giustamente gira portando sempre un palloncino con sé), si viene a scoprire con un colpo di scena che l'astronauta schiantatosi recentemente non fosse altri che il figlio. Questo scienziato è un personaggio ambiguo che continua ad apparire casualmente nel corso della puntata e serve più che altro a fornire degli spiegoni, ma conferisce al racconto anche molta di quella filosofia tipica dei kaiju eiga TOHO del periodo; non vede Baloonga come un mostro ma come una calamità naturale, un messaggero divino, il vero mostro è la metropoli di cui si nutre. Rassegnatosi all'invicibilità della creatura, il dottore suggerisce come ultimo tentativo per salvare l'umanità di detonare un missile nucleare al di fuori dell'atmosfera terrestre. Così facendo, per qualche motivo, si genera un sole artificiale che attira a sé Baloonga allontanandolo dalla civiltà.

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lunedì 31 gennaio 2022

La Raccapricciante Genesi di Godzilla - Il diario di Goro Maki

Data l'uscita su Prime Video lo scorso Agosto di Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time, quarto componente della tetralogia dei cosiddetti 'rebuild' nonché tassello conclusivo del grande mosaico che rappresenta la saga vogliamo tornare con la mente al 2015 anno in cui Hideaki Anno, suo autore, andando contro tutte le aspettative (specialmente contro a una certa cultura di Internet che lo ha bacchettato per aver impiegato tanto tempo a portare a termine il progetto) accettò la co-regia, con Shinji Higuchi, di un reboot di Godzilla made in Japan messo in cantiere da TOHO in risposta al buon successo della versione statunitense firmata da Gareth Edwards per Legendary/Warner Bros nel 2014.

Il resto è storia Shin Godzilla (2016), dopo la messa in sala ed il successo sconfinato ottenuto in patria, si muoverà lentamente oltreoceano dove verrà accolto tiepidamente per poi essere prontamente riscoperto e compreso riuscendo così a conquistare il pubblico e soprattutto la critica occidentale. Non solo una reinterpretazione inedita di un personaggio che al tempo era già stato proposto una trentina di volte, ma anche un film straordinario realizzato con un criterio ed una tecnica degni di ossequio. La più grande freccia al suo arco è l'ecletticità con cui si presta a molteplici chiavi di lettura: dal kaiju-eiga con forti ispirazioni alla cultura pop nipponica; all'aspra satira e/o critica nei confronti della società e di determinate usanze giapponesi; ad una trasfigurazione fantastica di disastri drammaticamente reali del passato recente, come l'incidente nucleare di Fukushima o lo tsunami del 2011.
Uno degli aspetti più interessanti ed enigmatici è il personaggio di Goro Maki, il professore scomparso che per primo aveva scoperto dell'esistenza di Godzilla e aveva lasciato delle informazioni che infine si sarebbero rivelate fondamentali per neutralizzarlo. Una figura apparentemente indecifrabile il cui ruolo, volutamente lasciato ambiguo, è molto difficile da inquadrare specialmente alla prima visione. 

Perché un personaggio così importante non appare mai, e perché si è dedicato a studiare Godzilla in segreto prima che si scatenasse sul Giappone? Qual è stato il suo destino? Ai fini del racconto imbastito da Anno questi sono interrogativi accessori, che vengono messi da parte in favore di altro, ma a cui possiamo provare a rispondere partendo da più fonti. 

Iniziamo col poco che riusciamo a vedere nel film, raccogliendo degli indizi sfuggenti: nelle ore precedenti alla prima apparizione del mostro Goro Maki scompare ed il suo yatch, il Glory Maru, viene trovato abbandonato nella baia di Tokyo (in perfetto ordine, privo di alcun segno che possa far pensare a un incidente o peggio) con le scarpe riposte nella cabina in maniera ordinata, chiaro segnale di suicidio nella cultura nipponica. Nello yatch vengono trovati numerosi file criptati, oltre che un origami e una breve nota: Ho fatto come ho preferito. Adesso, fate lo stesso. In realtà scopriremo che l'origami nasconde il cuore delle ricerche di Maki, descrivendo il principio alla base del metabolismo e della capacità del mostro di continuarsi ad adattare e evolvere. Inoltre apprenderemo che il professore rimase vedovo della moglie, morta per esposizione alle radiazioni, e che qualche tempo dopo venne espulso dalla comunità scientifica del proprio paese natale, il che lo costrinse ad abbandonarlo e lavorare per un'azienda energetica statunitense. Sarebbe stato proprio in quegli anni, mentre studiava gli effetti dei rifiuti nucleari scaricati nell'Oceano Pacifico, che lo scienziato sarebbe entrato in contatto con Godzilla, o almeno con la sua prima forma. Venuto a sapere del suo nuovo oggetto di studio, il dipartimento dell'energia americano gli avrebbe impedito di pubblicare la ricerca.
A questo punto possiamo passare a delle informazioni più consistenti che provengono dal materiale extra cinematografico, in primis dall'artbook The Art of Shin Godzilla, che contiene un resume in cui il dottore ipotizza come questa creature marina preistorica possa essere rimasta per anni in stretto contatto con le scorie, nutrendosi di esse, e mutando. Oltretutto, nel documento viene sottolineato come le straordinarie capacità evolutive di un simile organismo vadano al di là di qualsiasi possibile concezione umana. Sarà grazie ad altri due libri, Historian Monstrum (Godzilla Theory) di Shigeru Kuratani ed il Goro Maki Journal, che potremo entrare nel vivo della vicenda e ricostruirne degli aspetti inquietanti fino a questo momento rimasti sconosciuti. Una piccola parte del primo e l'interezza del secondo, come il titolo suggerisce, sono proprio appunti e note scritte dallo scienziato nel corso della sua ricerca. Di seguito, riporteremo alcuni dei passi utili per cercare di capire qualcosa in più:

RAPPORTO DEL COMITATO DI INDAGINE SU GODZILLA

DIARIO DEL DR. GORO MAKI 

MANEGGIARE CON CURA - CONTENUTO CONFIDENZIALE

Questo rapporto dimostra che il Dr. Goro Maki, il 4 Gennaio 2016, dagli Stati Uniti è tornato in patria dove è rimasto per sette giorni prima della sua misteriosa scomparsa nella baia di Tokyo. Il diario venne lasciato nella stanza 205 dell'Hotel Shiosai di Zushi-Kamakura. E' probabile che l'intero contenuto di questo diario dovesse essere scritto dal dottore, e che egli fosse rimasto a bordo dello yatch fino a poco prima di recarsi nella stanza.

Il ''diario' è una sorta di documento di ricerca che è stato scritto nel corso di circa un anno, mentre il dottore era scomparso dopo essersi dimesso dall'Istituto di Genetica dello Sviluppo di Miskatonic nel Massachusetts, USA. Le indagini hanno rivelato che dopo le dimissioni ha cambiato nome ed è rimasto nel paese.

E' un taccuino scritto a matita, per la maggior parte in corsivo in Inglese, talvolta in Tedesco e Francese e raramente in Giapponese (solo per le memo). Tuttavia, ci sono alcune parti che sono state coperte con dell'inchiostro, altre che se sono state tagliate o strappate. Si ritiene che tali modifiche siano state fatte dal dottore stesso durante il suo soggiorno in albergo (basandosi sulla corrispondenza delle impronte digitali lasciate sul taccuino). Per quanto è stato ipotizzato, è un'impressione consensuale che ciò che è stato lasciato fosse destinato ad essere letto dalle autorità. Il Dr. Maki sembra aver deliberatamente omesso la parte che conduce al cuore del progetto, il lavoro di decodifica biologica è estremamente difficile a causa di metodi come l'analisi al computer o tecniche sperimentali. 

Tuttavia, sono già stati scoperti dei dati che potrebbero scuotere le fondamenta della biologia moderna. 

14 febbraio 2015,
C'è stato il sole tutto il giorno. Eppure il mio cuore era in subbuglio. 
Il computer continuava a dire ''no''. Era come se quell'oggetto inutile si prendesse gioco di me! 

Ovviamente sono io che sbaglio. E' inutile prendersela con delle macchine. Il risentimento non è un punto di partenza.

Devo fare attenzione e continuare a provare. Non sarei in grado di fare il calcolo a mano, può farlo solo questa macchina abominevole. 
Avrei dovuto scegliere il modello più semplice, rimuovere diverse variabili, ridurre i parametri, semplificare il fenomeno e cercare di concludere il piano del corpo animale più semplice ma...cosa manca? Assumendo la proliferazione di tutte le linee cellulari, i percorsi di differenziazione e tutte le possibili interazioni maligne (e non il numero di cose che accadono nel vero embrione), anche se ci provo, il processo di generazione fallisce lungo la strada.

A mancare è qualcosa di cruciale e primitivo. Non so cosa!

14 marzo 2015,
Sono stato occupato nella regolazione del vettore per tutto il giorno. E' stata una giornata molto fredda. Dopo colazione, il postino che è venuto a consegnare il DNA sintetico sembrava sorpreso di vedere la mia faccia. 

Sembra che stia lavorando troppo, quando mi sono guardato allo specchio i miei occhi erano spenti e avevo paura. Ho pensato ''cos'è questo mostro'' ?

Nel corso della giornata ho avuto una conversazione col mio computer. Sto diventando pazzo. Questa macchina è un pessimo interlocutore. Almeno è la migliore al mondo. A volte sono tentato dall'impulso di distruggerla.

INTERRUZIONE

Il contenuto che ne deriva rivela già che il suo carattere è vicino all'epistemologia.
ILLEGIBILE

È come se una creature simile a un artropode, come il mostro del Cambriano Anomalocaris, avesse un sistema nervoso centrale sul lato dorsale come un vertebrato. In questo momento sto affrontando un problema semplice. Ora posso immaginare tale struttura e persino sezionare la creatura basandomi su quella stessa immaginazione. Esattamente con le mie mani...

Quello stupido computer insiste dicendo che è ''impossibile''. Dunque le macchine non hanno immaginazione?

19 Marzo 2015,
Oggi ha fatto un freddo terribile. Mi è tornato in mente di uno ''scienziato pazzo'' cacciato 200 anni fa dall'università in Germania in cui ho studiato da giovane. In breve, cercò di rispondere alla domanda su come manipolare l'informazione genetica per ottenere un auto-fenotipo. Nel presente, tale consapevolezza non sarebbe stata definita un delirio. Se ci si pensa ora, ebbe grande lungimiranza. Me lo ha ricordato.

Da giovane ero attratto da tale ipotesi sconsiderata, ma più propenso a deridere l'orgoglio di quell'uomo irriverente. Dopotutto, a quel tempo, non riuscivo nemmeno a pensare alla modificazione genetica. Nelle note lasciate dall'apprendista di quello scienziato, dalle quali appresi la sua storia, era scritto: ''Una persona che non è dio non cerca di progettare un calice''.
Oltre a queste poche testimonianze dirette del dottore abbiamo anche appunti e bozzetti che ritraggono proprio la creatura con cui entrò in contatto nel Pacifico, la prima forma di Godzilla mai mostrata nel film che possiamo intuire Maki abbia catturato, studiato, sezionato e tentato di ricostruire a partire dalla forma embrionale. Perché ha fatto tutto questo? Perchè è stato così determinato nel proseguire le proprie ricerche, e come ha risolto il problema che lo ostacolava? 
 
Una risposta certa non ci è mai stata data, ma la verità dietro a tutti questi segreti si può capire faticosamente, e nasconde un tetro segreto. Concludiamo questa ricostruzione con il parlare della coda di Godzilla. Tutti vedendo il film ne hanno notato la stranezza, la deformazione, la mostruosità ma non tutti si sono accorti di come questa coda cambi lentamente col proseguire degli eventi anche quando non viene inquadrata direttamente. Nel finale, una volta che l'avanzata di Godzilla viene arrestata ed il mostro congelato ci si sofferma su di essa da cui si stava per sprigionare qualcosa di orribile: una nuova evoluzione della creatura che, capace di adattarsi a qualsiasi situazione, stava generando dei suoi simili dalle fattezze antropomorfe pur di sopravvivere. 

La realtà, al di là di quanto visto nella pellicola, è ancora peggiore. Guardando con attenzione diversi oggetti di scena o il modello realizzato da Takayuki Takeya, si è infatti scoperto che dal suo interno si stava liberando un intero essere di forma umanoide delle dimensioni di Godzilla. Ciò si può dedurre dagli enormi occhi e dalle mandibole e mascelle che si possono scorgere al suo interno.

Cosa diavolo è successo nel laboratorio di Goro Maki nel corso di quell'anno di studi? Dove è finito lo scienziato? Godzilla è scappato dal suo laboratorio o è stato liberato? Come ha fatto a replicare, in qualche modo, il DNA umano? Soprattutto è stato un incidente o Goro Maki ha voluto scatenare il mostro sul paese che gli aveva voltato le spalle e permesso alla moglie di morire irradiata, a causa di taciti accordi con gli Stati Uniti a cui permettevano di continuare a condurre test e ai quali si sono aggiunti nello scaricare scorie nucleari inquinando l'oceano? O forse ha voluto testare il coraggio e la prontezza di una società che oramai disprezzava da tempo? Dopotutto ha lasciato dietro di sè gli elementi necessari per sconfiggerlo, seppur ben nascosti.  

Interpretatelo come volete, il bello dell'opera di Anno e Higuchi è anche questo, ma ricordate che a volte il silenzio può essere più eloquente di mille parole...

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