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lunedì 5 agosto 2024

Il paradosso del clown triste: Stańczyk di Jan Matejko

Consistenza primaria dell’essere, linfa vitale che scorre nelle fenditure che separano i quadranti della nostra essenza: è la contraddizione. Siamo antinomie che respirano, fini paradossi di ardori incastrati in contenitori di tessuto epiteliale, ossa e organi; miscele eterogenee di sostanze apparentemente inconciliabili, che nonostante tutto coesistono più o meno pacificamente. Sarebbe, infatti, abbastanza riduttivo descrivere l’animo umano come un’onda che si dispiega su un percorso di linearità, infrangendosi solo quando incontra il limite della propria finitezza. Siamo, piuttosto, onde quadrate, tipiche delle intersezioni fra più mari, perché proprio come loro, oltre a scontrarci con i nostri limiti, ci scontriamo anche con gli altri segmenti della nostra essenza, alcuni più reconditi di altri. 

Tuttavia, è bene tenere a mente che l’esistenza di due aree, una nera e una bianca, non implica l’impossibilità ontologica di un’area grigia a dividerle, a fare da spartiacque fra i due estremi, a conferire continuità a ciò che sembra incompatibilmente diverso o, in alternativa, a indicare le varie opzioni fra i due eccessi. Non siamo calibrati per essere iperboli. È proprio per questa singolare duttilità dell’indole umana che i sentimenti sono tanto complessi, oberati da una carica quasi patetica, mantenendo un’intrinseca dignità d’azione nel momento in cui cooperano. Ci sono circostanze in cui, infatti, è possibile scrutare dietro l’inconsistente facciata di frivola apparenza ben più di quanto si mostri. Facciamo da equilibristi sul filo sottile che separa il labile confine fra l’essere e l’apparire, e a dimostrarlo sono gli studi pubblicati nel 1981 dallo psicologo Seymour Fisher, nei quali emerge quello che viene definito paradosso del clown triste.

Si tratta di uno studio che mette in evidenza il contrasto fra l’atteggiamento esuberante dei comici e dei clown con il loro mondo interiore, spesso caratterizzato da sofferenza e angosce, seguendo un andazzo tipico del temperamento ciclotimico, descritto da Emil Kraepelin come un alternarsi del temperamento ipertimico e temperamento distimico. L’umorismo diventa, in questo caso, un’arma di difesa e un meccanismo di coping, attraverso il quale si tenta di nascondere o, comunque, di arginare un aspetto più malinconico. 
È quello che emerge anche dall’opera di Jan Matejko, Stańczyk durante un ballo alla corte della regina Bona di fronte alla perdita di Smolensk (Stańczyk w czasie balu na dworze królowej Bony wobec straconego Smoleńska), che ritrae il celebre giullare della corte polacca in un atteggiamento assorto, triste, e decisamente inquieto.
Stańczyk divenne famoso durante il rinascimento polacco, presso la corte di Sigismondo I il Vecchio, lasciando trapelare dalle sue esibizioni anche tutta una serie di tematiche sociali e politiche. Sono proprio le riflessioni storiche a fare da genesi al malessere mostrato dal giullare, preoccupato per le sorti della Polonia, che aveva appena perso la città di Smolensk nel 1514, in una guerra contro l’odierna Russia. La struttura tripartita del dipinto, tuttavia, riesce eloquentemente a costruire una narrazione orizzontale in grado di descrivere a pieno lo stato d’animo di Stańczyk. 

La parte centrale del dipinto ha senza dubbio come baricentro visivo la figura del giullare, seduto col capo chinato e le dita delle mani intrecciate. Il suo corpo sembra rilassato, facendo da contrasto con la sua espressione contratta da quelli che si può ipotizzare siano consistenti flussi di pensiero. La sua marotte, il suo scettro da giullare, giace sul pavimento, creando l’ennesimo contrasto fra il segmento destro dell’opera, nel quale si vede svolgere una festa di corte, e l’aria tragica che si respira nel frammento centrale. Lo sguardo del giullare sembra perso nel vuoto, si potrebbe quasi immaginare che non sbatta le palpebre da svariate decine di secondi, troppo assorto nei suoi pensieri per poter essere rigido e diligente nei confronti dei compiti impostigli dalla fisiologia naturale del corpo. Il baricentro tematico di questa porzione di quadro è, in realtà, quella che è la causa di tanto turbamento, nonché la lettera posta sul tavolo di fianco alla sedia dove giace il giullare, epistola nella quale probabilmente si legge del fatto che il gran Duca della Lituania ha perso Smolensk, dovendola cedere al gran Duca di Mosca. Si intravedono sulla carta il nome Samogizia, una delle cinque regioni culturali della Lituania, e la data 1533. Si tratta, per quanto riguarda quest’ultimo dettaglio, di un’incongruenza storica, in quanto la città di Smolensk è stata in realtà persa nel 1514, e un ballo alla corte della Regina Bona sarebbe stato improbabile in quell’anno in quanto è salita al potere solo nel 1518. 
Nella frazione destra del quadro, separata abilmente attraverso l’espediente di un tendone, si svolge un ballo di corte. Le figure delle persone danzanti sembrano quasi fondersi fra loro, fatta eccezione per il nano che porta un liuto, in primo piano e raffigurato con una gradazione cromatica più scura rispetto allo sfondo; egli ha particolare importanza dal punto di vista simbolico, in quanto presagio di decadenza. Altrettanto importante dal punto di vista simbolico è la parte sinistra del quadro, caratterizzata da una finestra attraverso la quale si intravede la cattedrale di Wawel, nella quale venivano incoronati i re. Accanto a essa una cometa fa da ulteriore presagio di caduta dell’impero. 
Il quadro, globalmente, presenta un’incredibile coerenza cromatica, dominato dal rosso e da uno sfondo scuro che porta naturalmente l’occhio a cadere sulla figura di Stańczyk. Il giullare è, infatti, non solo un eloquente mezzo di critica sociale, ma anche un buon promemoria per noi, per ricordarci che pur facendo da equilibristi fra l’essere e l’apparire, l'esistere avrà sempre il sopravvento sul sembrare.

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mercoledì 17 gennaio 2024

Ivan il terribile e suo figlio Ivan - Orrori su Tela

Il più grande paradosso dell’esistenza umana è la stasi permanente creatasi nell’abisso che separa le emozioni provate e l’innata incapacità di controllarle. La voragine che le divide è piuttosto ampia: qualcuno potrebbe vederla come una benedizione, siamo liberi dai meccanismi del controllo che potrebbero intaccare in qualche modo la naturale fisionomia del sentimento; altri, invece, potrebbero interpretarla come una condanna.

Proprio il dominio sulle emozioni, che ne comprometterebbe l’autentico fluire, è lo stesso ingrediente segreto che renderebbe la vita più facile a tutti, meno segregata nella sfera dell’imprevedibilità. I tratti più dolorosi della nostra esistenza, legati indissolubilmente alle nostre passioni e tormenti, non sono altro che il paradigma di ciò che siamo e di ciò che non abbiamo.

La rabbia, in particolare, è un’emozione primaria (ossia generata a livello sottocorticale), che si innesca nel momento in cui il soggetto sente di aver subito un’ingiustizia, o si sente minacciato. È probabilmente l’emozione più impegnativa dal punto di vista fisiologico. Ad esempio, attiva a livello neurobiologico delle aree specifiche del cervello, cioè l’amigdala e il sistema limbico, responsabili dell’ira e dell’impulsività.

Nel corso dei secoli sono stati molti i filosofi che si sono espressi circa la rabbia, a partire dal mondo antico. Seneca ha definito l’ira come una passione dagli effetti assolutamente deleteri, responsabile di tutti i flagelli e le violenze del mondo, paragonandola ad una belva feroce che va domata. D’altro canto, le posizioni degli stoici non sono dissimili. Ritenevano, infatti, che se l'uomo eradicasse completamente la collera, avremmo un mondo moralmente migliore. È proprio la dimensione morale della rabbia a rappresentare il baricentro di tutte le discussioni circa l’argomento, ma è altrettanto discutibile che la rabbia sia moralmente necessaria agli individui nel meccanismo primordiale di difesa che accomuna tutti.

L’impulsività è forse la conseguenza più drastica della rabbia, che si concretizza spesso in atti di violenza. Un caso paradigmatico di tali effetti drammatici è il celebre dipinto, realizzato da Ilya Repin fra il 1881 e il 1883, intitolato Ivan il Terribile e suo figlio Ivan.

Il quadro è un olio su tela dalle dimensioni di 199.5 cm x 254 cm, raffigurante uno dei momenti più drammatici della vita dello zar Ivan IV Vasilyevich, anche conosciuto come Ivan “Grozny”, o Ivan il Terribile. Successivamente alla sua realizzazione, fu acquistato dall’uomo d’affari di Mosca Pavel Tretyakov, che lo mise in mostra nella sua galleria. Tuttavia, lo zar Alessandro III trovò l’opera d’arte irrispettosa e offensiva, tanto che fu temporaneamente bandita dall’esposizione pubblica.

Ivan era un individuo particolarmente complesso, che nel corso della sua giovinezza ha subito diversi traumi. Aveva appena tre anni quando fu scelto per succedere come Gran Principe a suo padre e, al momento dell’incoronazione, la Russia era divisa in vere e proprie fazioni di aristocratici, che si contendevano il dominio politico. Proprio a causa di questo scenario turbolento la madre di Ivan fu scelta per governare il paese fino a che il figlio non avesse raggiunto l'età adulta, ma il piano fallì quando fu avvelenata e morì tragicamente. Da quel momento in poi Ivan fu maltrattato dalle varie caste fino al 1538, quando poté subentrare politicamente. Durante il suo regno la Russia è passata da regno feudale a Impero e, in quanto primo zar del paese, stabilì i principi politici che ne fecero una vera e propria nazione. Il suo temperamento era decisamente incline all’impulsività irruenta, come testimonia il fatto che suo figlio, Ivan il Giovane, fosse frustrato dal numero di litigi infruttuosi che causava il padre, tanto che iniziò ad esprimersi contro la sua condotta. Il loro legame, nonostante ciò, era particolarmente forte, avendo anche combattuto fianco a fianco in passato. Per questo motivo, il giovane Ivan non avrebbe mai immaginato che proprio il temperamento iracondo di suo padre lo avrebbe condotto alla morte.

Il dipinto di Repin cattura l’attimo in cui, il 19 Novembre del 1581, Ivan il Terribile realizza di aver appena ucciso suo figlio. Secondo gli storici, una lite fra i due avrebbe innescato quell’atto di violenza inaudita, dopo che la terza moglie di Ivan il Giovane, Yelena Sheremeteva, sarebbe passata in sottoveste davanti allo zar, gesto oltraggioso nei confronti del monarca.
Иван Грозный и сын его Ива
Ivan il Terribile, vestito di abiti scuri, regge il figlio alla vita, mentre con la mano cerca di fermare l’emorragia alla testa, che lo avrebbe successivamente portato alla morte. L’arma del delitto è in bella vista, un bastone posizionato sulla parte anteriore del dettagliato tappeto, sul quale si svolge la tragica scena. Gli occhi spalancati esprimono le emozioni provate dallo zar, quasi si riesce ad immaginare ogni fibra del suo corpo in fibrillazione a causa dello shock. Ha appena ucciso suo figlio, nonché unico erede sano al trono. Il viso è sporco degli schizzi di sangue, provocati dall’impatto del bastone sulla testa di Ivan il Giovane, rendendone l'espressione ancora più inquietante.

È interessante notare come lo sguardo di Ivan il Terribile, così carico di sofferenza e di orrore, non sia direttamente rivolto verso il figlio morente. Sembra quasi che lo zar, in preda al panico, non riesca a confrontarsi direttamente con le conseguenze del suo impeto di rabbia, scosso dal rimorso e consumato dal senso di colpa. La mano del figlio, poggiata sulla spalla del padre, è l’ultimo gesto di amore e perdono che Ivan il Giovane è stato in grado di compiere, mentre la vita abbandonava lentamente il suo corpo, come testimonia lo sguardo assente.

L’intento di Repin nella realizzazione del quadro era quello di sensibilizzare le persone sul tema della violenza, dopo gli eventi politici del 1881 (che si risolsero nella morte dello zar Alessandro II), sperando di dissuadere chiunque altro volesse impegnarsi in atti altrettanto truculenti.

A questo punto, risulta lecito chiedersi quanto moralmente necessaria sia la rabbia.
 
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martedì 27 dicembre 2022

Il pittore ancora vivo - Aldo Callà

Fra un atomo e l’altro della nostra anima ci sono interstizi intimi e remoti, ed è proprio lì che vanno ad innestarsi le elucubrazioni più ponderate rispetto al nostro senso d’identità. Tuttavia, questo microcosmo di soggettività viene dissipato nel più dispersivo macrocosmo dell’età contemporanea, teatro di una storia umana nella quale il confine tra gli estremi della moralità diventa sempre più labile. È la teologia del denaro ad aver avuto forse l’impatto più severo sull’uomo contemporaneo, alienandolo in modo attento e studiato dalla propria preziosa bolla di autodeterminazione. È proprio su questo sfondo, infatti, che la storia, sia individuale che del mondo, perde di consistenza spaziale e temporale, rilegando l’uomo in un’area di neutralità, indeterminatezza e irrilevanza, nella quale si corre il rischio di essere inglobati nell’anonimato come “oblio della memoria e dell’autocoscienza”, come sostenuto da Günther Anders. In questo stato di cose così caotico, costituito dall’ambivalenza di un’inerzia umana e di un eccessivo dinamismo secolare di sistemi e impianti, risulta fondamentale trovare un mezzo utile a recuperare la soggettività e l’individualismo, nonché uno strumento che elevi l’uomo da mero aggregato biologico (in greco antico zōḗ, ζωή) a persona con dei tratti identitari ben definiti, autocosciente, che brilli dunque di luce propria e non riflessa, proprio come il guerriero omerico (in greco antico phṓs, φώς). 

È proprio l’arte a rappresentare il mezzo più valido tramite cui tagliare drasticamente la distanza fra l’individuo e l’universale. Secondo, ad esempio, il paradigma estetico elaborato da Friedrich Leopold von Hardenberg, detto Novalis, l’arte rappresenta la concretizzazione dell’immaginazione, intesa come estensione dell’attività universale che confluisce nell’inesaustibilità dell’Io. Questa estetica è perfettamente riscontrabile nelle opere di Aldo Callà, il giovane “Pittore ancora vivo”. 
Con una magistrale abilità stende sulla tela non solo colori, ma anche storie ed emozioni, permettendo al fruitore dell’opera di immergersi nell’intricata rete di sentimenti e resoconti di vita che con la sua arte lascia al mondo come testimonianza di presenza ma soprattutto di profondità. Incastrata tra i suoi sfondi bordeaux e i suoi soggetti c’è esattamente l’essenza di tutta la soggettività e l’individualismo emotivo che in questo momento della storia umana va recuperato, mettendo in tal modo in primo piano le emozioni più crude, che a conti fatti sono esattamente ciò che ci rende vivi e autocoscienti. 

La sua filosofia artistica consiste, infatti, nello smembrare le emozioni con estrema eleganza, raccontandone la genesi e la deriva tramite narrazioni derivanti dalla sua esperienza di vita, senza remore nel mostrarne anche gli aspetti più malinconici, insofferenti e infelici. La classe e la finezza dei suoi dipinti consistono proprio nel trasporto emotivo che generano nell’osservatore, lasciando che siano le immagini a parlare al posto suo, e probabilmente dicendo anche più di quanto non possano fare le parole. Non esiste, infatti, un vocabolario adeguato per descrivere i sentimenti e le passioni, la loro intensità trascende qualsiasi declinazione linguistica, ma le sue tele riescono a carpire quanto di più astratto ci sia nel complesso meccanismo cognitivo che lega indissolubilmente le emozioni e l’esperienza. Si tratta dunque di un’arte intima, personale, ma allo stesso tempo con cui ci si identifica facilmente proprio grazie alla peculiare rappresentazione che riesce a svolgere di quegli interstizi remoti che separano un atomo e l’altro della nostra anima. 

La continuità e il legame fra esperienza e sentimenti viene raffigurato dall’artista in modo particolarmente eloquente in una serie di dipinti, che descrivono la genesi, la durata e la fine di una relazione tossica. 
Il primo quadro della serie, “L’appuntamento”, rappresenta la fase germinale della relazione, il principio di quello che aveva il potenziale di essere un amore estremamente travolgente. Tramite un raffinato simbolismo, infatti, viene a delinearsi un’atmosfera di speranza e di curiosità, nutrita da un’inconsapevole idealizzazione – quasi platonica – dell’altra persona. L’occhio rivolto verso sinistra, infatti, sembra guardare avanti, galleggiando nel corpo smaterializzato del soggetto dipinto che perde di consistenza nel momento in cui la mitizzazione stessa dell’amata non ha consistenza. La sublimazione dell’amata viene narrata anche tramite l’uso della rosa, poggiata sul tavolo, simbolo di amore e passione a partire da tempi molto remoti. È presso gli antichi greci, infatti, che ha origine il mito della nascita della rosa, a cui si associa la successiva simbologia: la dea della primavera, Cloride, trasformò in rosa una ninfa morta nel tentativo di preservarne la bellezza mantenendola incorruttibile rispetto all’inesorabile mutare delle cose, e le Cariti (le tre dee associate al culto della natura secondo Esiodo) le elargirono una bellezza incantevole. Assieme alla fiamma dell’accendino, questa simbologia suggerisce un clima permeato dall’auspicio e dal desiderio, e intrecciati finemente con l’inconsistenza del soggetto rappresentato quasi riescono ad anticipare l’esito finale della narrazione.
Il secondo dipinto della serie, “Appuntamento con D”, illustra con estrema abilità la tensione fra i due lembi – introduttivi e conclusivi – della narrazione. È un momento di transizione, nel quale sembra che la figura idealizzata abbia soddisfatto le aspettative iniziali. La rosa è posizionata in una bottiglia, quasi fondendosi cromaticamente con lo sfondo, mentre la fiamma della speranza ha acceso una sigaretta. È necessario, tuttavia, tenere presente che entrambi questi elementi sono soggetti al deperimento indotto dal tempo, destinati a esaurirsi nell’etere impercettibile della vuota potenzialità, di un’infausta e bugiarda possibilità. 
È, infatti, solo col tempo che la donna raffigurata mostra la sua vera natura. Col terzo dipinto della serie, “La tossicità di aida”, Callà mette in evidenza l’evidente fallacia logica dell’idealizzazione, un’illusione destinata a logorarsi per lasciare posto a una crudele delusione. La rosa è appassita, nel posacenere quello che sembra il mozzicone di una sigaretta consumata è in realtà un Estathè al limone, tutto ciò di materiale che l’artista riusciva ad offrire all’amata. Tramite la metamorfosi della donna in serpente viene illustrata la sua vera inclinazione, in contrapposizione sia alle aspettative e alla curiosità descritte nel primo quadro, sia alla sua versione sublimata del secondo quadro. 

L’impianto speculativo di Callà non si esaurisce a riflessioni di questo tipo, ma si estende sino a comprendere anche una critica meticolosa e spietata nei confronti del teatro dell’arte contemporanea. Il suo interesse per l’arte nasce sin dalla tenera età, a partire da quando a 7 anni durante un viaggio in macchina suo zio, docente di storia dell’arte, gli raccontava delle travagliate biografie di alcuni artisti, suscitando in lui grande interesse. Notò subito che, sullo scenario del mercato dell’arte, il valore degli artisti aumentasse spesso e volentieri solo dopo la loro morte, costringendoli così a vivere una vita nell’anonimato. Non si tratta di un anacronismo: al giorno d’oggi, infatti, si sta consolidando una cultura dell’arte incentrata esclusivamente sul denaro e sul guadagno, rilegando l’artista in una zona grigia nella quale la sua creatività, il suo valore e le sue capacità comunicative non vengono valutate nel modo giusto. Da qui l’appellativo di “Pittore ancora vivo”: è un invito a volgere lo sguardo verso un orizzonte diverso, sollecitando la trattazione di una materia ancora palpabile, prima che sia troppo tardi. Questa critica si concretizza nella brillante serie di dipinti che Callà ha realizzato sul teatro dell’arte, i cui soggetti sono la metafora degli attori protagonisti di questa cornice. 
Il gallerista”, ad esempio, assume le sembianze di un cervo, animale regale, elegante, incarnazione del lavoro più bello del mondo. Le corna, tuttavia, hanno fattezze di mani umane, a rappresentare il vizio e l’avidità di chi ha trasformato l’esperienza dell’arte in mero guadagno. 
Il collezionista”, allo stesso modo, è rappresentato da un maiale, simbolo intramontabile di abbondanza e avarizia. Lo sfondo azzurro, un cielo, è metafora della sua irraggiungibilità, mentre i soldi nella sua mano sembrano privi di consistenza, simbolo di un guadagno esclusivamente monetario, che in realtà svaluta incredibilmente l’artista e l’arte stessi. 
“Il polipo pittore” dovrebbe tecnicamente essere il protagonista dello scenario in quanto produttore e forza creativa dell’arte. Viene, però, raffigurato quasi come un personaggio secondario, intento a osservare quasi inerme il fluire caotico dell’industria dell’arte, depersonalizzante e svilente. Lo sfondo giallo senape è carico di valore, in quanto è, secondo l’artista, un colore che non dovrebbe esistere, ma esiste, e proprio perché esiste che è possibile l’esistenza di tutto il resto. Nonostante la sua marginalità e impotenza in quello che è lo spietato mercato dell’arte, infatti, l’artista è in realtà il nucleo vivo e acceso dell’arte. 
La musa” svolge allo stesso modo un ruolo chiave in questo scenario: la peculiarità del dipinto è che la musa è l’unica raffigurata dietro a un tendone chiuso, mentre le precedenti tre tele mostrano i personaggi di questo teatro in rapporto dinamico e partecipativo. La musa, infatti, siede dietro le quinte, ispira l’arte e l’artista, operando sia una funzione costruttiva che distruttiva nella duplice accezione attribuibile alla più generica accezione di sentimento, di piacere o di dispiacere. 

L’invito di Callà non è mai stato così attuale come oggi. In una dimensione nella quale la soggettività tende a disperdersi nel caos, è fondamentale ritrovarla tramite l’arte e l’emozione, nonostante i tentativi disperati dell’industria di trasformare in soldi tutto ciò che tocca. 

Potete seguire i lavori del Pittore ancora vivo su Instagram o su TikTok.

ARTICOLO DI
MANUELA GRIFFO

venerdì 22 gennaio 2021

Teschio con sigaretta accesa - Orrori su Tela

Il ritmo cassinese risale al XII secolo, ed è una delle prime testimonianze poetiche in forma scritta della tradizione letteraria italiana. Riprendendo la tradizione dei contrasti, nonché l’antica fonte latina Collatio Alexandri cum Dindimo rege, il testo descrive la discussione intrapresa tra due sapienti, Alessandro Magno e re Dindimo, il primo occidentale e il secondo orientale, che si scontrano sulle loro visioni del mondo: al materialismo di Alessandro Magno si contrappone la visione ascetica e mistica di re Dindimo. L’autore del testo – tutt’oggi sconosciuto – si descrive come una candela, che lentamente si consuma, si distrugge per poter giovare agli altri, come fosse un sacrificio offerto a beneficio dei lettori.

Questa metafora, seppur in modo diverso, viene ripresa spesso nel corso della storia, sia della letteratura che dell’arte. Vincent Van Gogh, ad esempio, ripropone una figura retorica analoga in una delle sue opere giovanili, “Teschio con sigaretta accesa”. 

Il dipinto fu realizzato nell’inverno del 1885, e risale al periodo di Anversa, dove Van Gogh si recò per iscriversi all’Accademia d’arte della città. Non è un caso, dunque, che il soggetto del quadro sia un teschio: durante i suoi studi all’Accademia, infatti, il pittore olandese disponeva di una vasta gamma di modelli umani ai quali fare riferimento per lo studio di anatomia umana, disciplina ritenuta indispensabile per la formazione di un’artista. Van Gogh, tuttavia, non apprezzò particolarmente gli insegnamenti dell’Accademia, e li definì inutili e noiosi, lasciando già intravedere una profonda avversione alle pratiche accademiche conservatrici.

Nello stesso periodo Van Gogh realizzò altri tre dipinti che avevano come protagonisti proprio dei teschi. La scelta del soggetto richiama varie influenze, a partire dalle atmosfere cupe proposte dai celebri pittori Hercules Segers e Félicien Rops, suo contemporaneo. 

 ulteriore dipinto di Vincent Van Gogh raffigurante un teschio, 1887/1888
 
L’opera, dalle dimensioni di 32 cm x 24,5 cm, fu inizialmente conservata da Theo Van Gogh dopo la morte dell’autore, per poi essere acquisita nel 1962 dalla Van Gogh Foundation, e dal 1973 è esposta al Van Gogh Museum di Amsterdam, dove è tutt’ora conservata.

Sin dal primo impatto risulta un dipinto in grado di causare profonde suggestioni nell’interlocutore, principalmente grazie alla specifica qualità tonale dei colori, che spenti e cupi creano un’atmosfera inquietante e macabra. Il soggetto raffigurato richiama, inequivocabilmente, alla morte, alla tematica della fine, ma soprattutto alla decomposizione: la sigaretta che il teschio regge tra le arcate dentali si consuma lentamente, proprio come la vita consuma e decompone lentamente le qualità organiche del corpo. Si tratta di un memento mori importante e che è piuttosto ricorrente nelle opere di Van Gogh, a causa delle sue pessime condizioni di salute sin dalla giovane età. Nel periodo di composizione di quest’opera, in particolare, l’artista lamentava fastidiosi dolori allo stomaco e ai denti che lo rendevano inquieto, probabilmente spaventato. Tuttavia non è ben chiaro se il dipinto fosse il sussurro un po’ ipocondriaco della coscienza di Van Gogh o l’urlo sfacciato dell’autore, che sfida la sua stessa salute. 

"Teschio con sigaretta accesa", 1885

Se il teschio simboleggia la morte imminente e la sigaretta il lento consumarsi della vita, allo stesso tempo potrebbe anche rappresentare una vera e propria sfida che l’autore lancia alla sua salute vacillante. Proprio come il protagonista del monologo dell’autore russo Dostoevskij Memorie dal sottosuolo”, che si rifiutava categoricamente di curare il suo fegato per fargli un dispetto, Van Gogh raffigura se stesso sotto forma di scheletro, con una sigaretta accesa, con un’aria di sfida intrinseca nell’atto stesso del fumare nonostante versasse in pessime condizioni di salute. Si tratta, dunque, di un dipinto dalle mille interpretazioni.

Terzo dipinto con un teschio, 1887/1888

Ma la suggestione che il dipinto trasmette, probabilmente, è più esterna che interna al dipinto stesso. Non è il teschio a incutere timore, non è la sigaretta. È l’istinto di conservazione umana che, di fronte alla morte, viene stimolato, e si risveglia più forte che mai. Ma, in fondo, se potessimo parlare con madre natura probabilmente riderebbe del terrore umano per la morte, e ci spiegherebbe che non è altro che un banale passaggio di stato della materia. 

ARTICOLO DI

MANUELA GRIFFO 

giovedì 8 ottobre 2020

La suggestiva arte di Grinnel Jibaja - Orrori su tela

 L’errore più grave che si possa fare quando si parla di arte è quello di circoscriverla in un’epoca passata, di considerarla come un fenomeno puramente sincronico. Al contrario, l’arte è ancora viva, teatro attuale delle contemporanee spinte sociali, politiche, filosofiche, talvolta anche residuo di influssi passati. È il punto di approdo di una storia vecchia come il mondo, ma che ai giorni nostri risulta particolarmente interessante: è proprio in questa momento storico che l’arte ha subito uno dei mutamenti più ingenti e significativi, con l’approdo della tecnologia. La cibernetica ha generato un nuovo strato di alienazione, difficile da descrivere a parole, già avviato con l’industrializzazione.L’effetto che ha avuto la nascita dei macchinari, che sostituirono i lavoratori nelle fabbriche, è vagamente paragonabile a quello che ha avuto la tecnologia, con una differenza sostanziale: se l’alienazione capitalista aveva conseguenze principalmente nella casta del proletariato (generando uno squilibrio significativo a livello sia sociale che economico), l’alienazione tecnologica ha conseguenze su tutti. La tecnologia è a disposizione di tutti, ed ha trasfigurato la realtà in una dimensione quasi trascendentale, mediata da uno schermo. Si sono, dunque, avverate le profezie di Thoreau, che già nell’800 affermò che “gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro stessi strumenti”. 

La particolarità di questa nuova alienazione tecnologica (che si accompagna ai non meno importanti nuovi influssi filosofici che derivano anche da essa) è il fatto che sia quindi omogenea, e dunque risulta difficile, per coloro che usufruiscono assiduamente di questi nuovi strumenti, riuscire a parlare di una “neo-alienazione”, in quanto si è insidiata negli interstizi più intimi della nostra vita, al punto da non riuscire più a scinderla da essa. Le conseguenze, tuttavia, sono ingenti. Un senso di perenne solitudine è il leitmotiv di una generazione che la condensa privatamente, la linea che separa la realtà dall’astratto si sbiadisce sempre di più. 

Ed è proprio in questo contesto di confusione, di angoscia e negazione che si inserisce Grinnel Jibaja (@grinneljibaja30 su instagram), giovane pittore che con la sua arte riesce a comunicare al mondo il suo sgomento, e che mi ha gentilmente concesso di intervistarlo per questo articolo.

"The Savior", olio su tela, 2018

Nasce nel 1990, da genitori immigrati franco-tedeschi. Poliglotta, manifesta interesse per l’arte sin da bambino, sostenendo di non aver mai avuto grandi capacità sociali e che fosse l’unica cosa che apprezzasse nella sua solitudine. È, dunque, cresciuto in simbiosi con l’arte, usata come strumento di indagine prima esteriore, e poi interiore.

Studia presso la facoltà di arte della Pontificia Università Cattolica, specializzandosi nelle arti pittoriche, sua attuale occupazione, e nel 2012 inizia a dipingere professionalmente, all’età di soli 22 anni. Effettua la sua prima vendita presso la Kunstgalerie di Berlino, ed è stato pubblicato dalla rivista di arte spagnola Flamantes (nelle edizioni 1 e 2), nella rivista di arte peruviana Cuenta Artes (nelle edizioni 1 e 2), e nella rivista di arte tedesca Dreck Magazine. Le sue opere sono state esposte a Lima, Buenos Aires Aires, Madrid, Berlino.

È difficile definire la sua operazione artistica in modo sintetico, si tratta della risultante di più forze che convergono nel tema primario, che è quello della solitudine e dell’angoscia, nel quale più o meno qualsiasi essere umano riesce a riconoscersi. È proprio da qui che deriva la comunicatività della sua arte.

 
"Gefieder mit Fleisch auf meine gequälten Kindheit fallen", olio su tela, 2018

I colori che dominano le sue opere sono quasi perennemente il viola ed il rosa, che, per Grinnel, simbolizzano le malattie mentali, in particolare la schizofrenia. 

Un’opera emblematica, che più o meno riassume la sua intera e geniale filosofia artistica, è “Nobody is real”, attualmente in vendita a 500 euro. Come recita il titolo del quadro, nessuno è reale in quest’opera. La scena pittorica si svolge orizzontalmente, ed è dominata da quattro figure antropomorfe, sedute in un angolo buio di quella che pare essere una caverna, o un angolo remoto dell’inconscio. Grinnel, infatti, ha ribadito di non essere in grado di decodificare troppo precisamente i meccanismi del suo inconscio. Si tratta, dunque, di una pittura di pancia, spontanea, non ragionata e che lascia spazio all’interpretazione del fruitore con numerosi spunti di riflessione. 

La prima figura a partire dalla destra è profondamente consumata all’esterno, come a voler equiparare per osmosi la propria corrosione interiore. Col corpo squarciato, sembra portare in grembo un bambino, mentre ha tra le labbra in bilico una sigaretta. Questo personaggio sembra essere in netto contrasto con le altre tre figure, che urlano disperatamente alla ricerca di aiuto, e lo stridere delle loro voci diventa un elemento figurativo sopra le loro teste. È un perfetto chiasmo pittorico, che simula la stessa sensazione di angoscia che si prova ad essere intrappolati nella propria testa. 

Le interpretazioni che potrebbero essere date sono tante, distribuite in più direzioni e destinate esclusivamente alla sensibilità del fruitore.

"The Pimp", olio su tela, 2012

L’arte che Grinnel produce non è un’arte per tutti, ma non è neanche un’arte per pochi. È il sillogismo della sofferenza umana, il perfetto paradigma dell’esistenza, la più timida confessione di chi vive in un mondo che non gli appartiene e il più straziante grido di dolore. 

ARTICOLO DI

MANUELA GRIFFO

venerdì 26 giugno 2020

Bufera di neve: Annibale e i suoi uomini attraversano le Alpi - Orrori su tela

L'arte moderna, con la sua intrinseca complessità e le sue numerose ramificazioni, affonda le radici nella tradizione culturale artistica dell'Illuminismo: un'arte concepita in seno al rifiuto della retorica figurativa del barocco e delle sue allegorie storico-religiose.  Si tratta di un'arte che, dunque, ha come tema portante quello dell'analisi della realtà naturale e della realtà sociale, rappresentati rispettivamente dalla tradizione paesaggistica e dalla tradizione ritrattistica tipiche della cultura illuminista.

Il tema della natura viene trattato, in particolar modo, da due artisti inglesi la cui produzione artistica si colloca nella prima metà dell'Ottocento: John Constable e William Turner, la cui influenza fu decisiva nello sviluppo della fase embrionale del Romanticismo francese. Tra i due artisti, tuttavia, le differenze non sono poche a partire dalla formazione: se Constable muove dallo studio del realismo e dalla paesaggistica olandese, Turner muove dallo studio del paesaggio classico, delle vedute prospettiche del Canaletto.

Se per Constable non esiste uno spazio universale immutabile vero e proprio, per Turner è l'intuizione a priori dello spazio universale a concretizzarsi e a dare la percezione nei “motivi” particolari. La visione di Constable è prettamente impressionistica: l'impressione visiva è indissolubilmente legata all'impressione affettiva che l'interlocutore ha dell'oggetto rappresentato. La sua, è dunque, l'arte di una veduta “emozionata”.
Il Carro di Fieno di John Constable

Per Turner invece, lo spazio è caratterizzato da un dinamismo cosmico, che sfugge alla ragione e trascende il sensibile. Quello che accomuna entrambi, tuttavia, è la visione della natura come ambiente della vita, che può essere ostile o accogliente, con cui s'instaura necessariamente un rapporto reciproco di “rispetto” o, talvolta, di autentico timore, come testimoniato dall'opera di Turner “Bufera di neve: Annibale e i suoi uomini attraversano le Alpi”. Il dipinto, realizzato nel 1812 ed attualmente conservato alla Tate Gallery a Londra, è un olio su tela dalle dimensioni di 145x236,5 cm, e tratta del tema classico attorno al quale ruota il romanticismo: il rapporto dell’uomo moderno rispetto alla natura. Al momento dell’esposizione il quadro recava alcuni versetti del poema incompiuto, realizzato dallo stesso Turner, Fallacies of Hope:

«Craft, treachery, and fraud – Salassian force, / Hung on the fainting rear! then Plunder seiz'd / The victor and the captive, – Saguntum's spoil, / Alike, became their prey; still the chief advanc'd, / Look'd on the sun with hope; – low, broad, and wan; / While the fierce archer of the downward year / Stains Italy's blanch'd barrier with storms. / In vain each pass, ensanguin'd deep with dead, / Or rocky fragments, wide destruction roll'd. / Still on Campania's fertile plains – he thought, / But the loud breeze sob'd, "Capua's joys beware!"»
Joseph Mallord William Turner 081.jpg
Il dipinto rappresenta l’armata cartaginese, guidata da Annibale, nel momento in cui si trova a fronteggiare una drammatica bufera di neve. La scelta di Annibale come soggetto del quadro affonda le radici in una serie di influenze che, più o meno direttamente, hanno influenzato Turner, in particolare un quadro dell’artista John Robert Cozens (oggi disperso), nel quale viene trasfigurata la figura di Napoleone, che aveva ammaliato ed affascinato l’artista, in un moderno Annibale. Turner, come Cozens e molti altri artisti del periodo, fu ugualmente esposto all’influenza del generale francese. Molti studiosi, infatti, riconoscono nel quadro un autentico parallelismo tra le guerre puniche e il conflitto tra Inghilterra e Francia, che andava consumandosi in quegli anni.

Ma, nonostante la forte valenza storico-politica del momento rappresentato nell’opera, Annibale ed i suoi uomini sono messi in secondo piano rispetto ai veri protagonisti del quadro: la bufera, il paesaggio, la brutalità della natura e l’angoscia che deriva da essa. I colori scuri utilizzati, sfumati nello sfondo e che evidenziano il contrasto con uno stralcio di tela illuminato, suggeriscono il senso di orrore e sgomento degli uomini, così piccoli e indifesi, rispetto alla grandezza e alla crudezza della natura.  La tempesta rappresentata da un nero scuro e intenso, si spiralizza, quasi, nella parte superiore del quadro, smorzando la luce proveniente dalla parte sinistra del quadro e incupendo notevolmente l’ambiente pittorico, coprendo l’orizzonte tramite un abile gioco di luci e ombre.
Viene, dunque, sviluppato il tema dell’indefinito, trattato anche dall’autore italiano Giacomo Leopardi (in particolare nello Zibaldone), che sviluppa la cosiddetta poetica del vago e dell’indefinito, comune a quasi tutti gli artisti romantici. L’autore definiva la natura “matrigna”, crudele, analogamente alla rappresentazione paesaggistica di Turner,  e sosteneva che l’”indefinito”, inteso in senso stretto, stimoli la fantasia e l’immaginazione, generando nell’interlocutore o nel lettore un piacere quasi estatico, come riportato nello Zibaldone:
"L'antico non è eterno
e quindi non è infinito,
ma il concepire che fa l'animo
di uno spazio di molti secoli,
produce una sensazione indefinita,
l'idea di un tempo indeterminatoo
ovel l'anima si perde."
Giacomo Leopardi
Ed è proprio l’indefinito a rendere la natura tanto crudele e tanto spaventosa, perché non se ne individuano i limiti o le possibilità di azione, ed il rapporto dell’uomo con essa non è cambiato molto nel corso dei secoli. Resta ugualmente complesso e articolato in molte sfumature, in una scala che va dall’ammirazione quasi religiosa di essa alla paura autentica dei fenomeni naturali, che non si possono tenere sotto controllo. 


Ma il nostro pianeta, ogni giorno che passa, sembra essere sempre più affaticato, ai limiti del sopportabile, sopraffatto da un’estrema civilizzazione. È
 dunque lecito chiedersi: siamo noi a temere madre natura o è lei a temere noi?

ARTICOLO DI
MANUELA GRIFFO

mercoledì 4 marzo 2020

L'incubo - Orrori su tela

La dimensione onirica ha, da sempre, affascinato generazioni intere di scienziati, studiosi, artisti o semplici curiosi. Probabilmente gran parte dell’interesse che suscita deriva dall’alone di mistero insito nel concetto stesso di sogno, così astratto ma al contempo così coinvolgente. Si tratta, in effetti, di un processo organico e psichiatrico particolarmente interessante: i circuiti neurali si liberano dal peso dell’interazione col mondo esterno, e si ricalibrano. È come se il cervello si chiudesse in un breve letargo di una manciata di ore, per evitare condizioni di affaticamento estremo che, al contrario, causerebbero lo shut down dapprima delle aree non fondamentali del cervello, poi uno spegnimento totale dell’organismo. 

È proprio dai sogni che nasce l’indagine portentosa di Freud rispetto alla psiche umane, dando luce alla psicoanalisi. Sosteneva infatti che “il sogno è la via maestra per esplorare l’inconscio”, ritenendo che, attraverso di essi, si riuscissero a ricostruire tutti gli impulsi che di giorno vengono soppressi dall’inconscio. Oggi, tuttavia, non è una teoria unanimemente accettata, sostenendo che piuttosto che i desideri i sogni riescano a scoprire aspetti endopsichici conflittuali e ad esplorare processi intrapsichici più complessi. Nella cultura di massa, in particolare, il mondo onirico è stato più volte esplorato, come, ad esempio, nel celebre dipinto di Johann Heinrich Füssli, l’Incubo.
Realizzato nel 1781 e conservato attualmente al Detroit Institute of Arts, fu esposto per la prima volta alla London Royal Academy un anno dopo la sua realizzazione, suscitando vivaci reazioni negli osservatori. Era un soggetto insolito, l’atmosfera macabra e criptica riuscì a perplimere una buona fetta del pubblico, entusiasmandone il resto. Al momento della sua esposizione l’opera era accompagnata da una poesia di Erasmus Darwin, intitolata Night-Mare

«So on his Nightmare through the evening fog Flits the squab Fiend o'er fen, and lake, and bog; Seeks some love-wilder'd maid with sleep oppress'd, Alights, and grinning sits upon her breast»
(trad.) 
«Così nel suo Incubo attraverso la nebbia serale Si scaglia il grassoccio Fied o’er fen, e il lago e la palude; Cerca una ragazza da amare oppressa dal sonno, Posandosi, e ghignando sopra il suo seno»

La tela riscosse immediatamente un enorme successo in tutta Europa, venendo apprezzata nella sua globalità, ma nonostante la sua fama venne venduta per sole 20 ghinee (monete britanniche dal valore originario di un pound, ossia 20 scellini). Divenne, inoltre, l’ispirazione di una grande quantità di vignette satiriche che vedevano come protagonisti personaggi di spicco dell’epoca, come ad esempio Napoleone Bonaparte, Luigi XVIII, William Pitt e Charles James Fox.
Il quadro si compone di 3 soggetti: una donna stesa sul letto, vestita con una tunica bianca (unica fonte di luce del quadro), con la testa che pende dal letto stesso e con le braccia che cadono a peso morto, un cavallo nascosto dietro alla tenda ed un demone, seduto sull’addome della donna. Si tratta di un soggetto molto controverso e che si presta ad una multipla interpretazione. Potrebbe, infatti, essere vista come un’allucinazione onirica, un accostamento apparentemente insensato di elementi giustificato da percorsi psichici del dormiente, oppure potrebbe essere la rappresentazione grafica di un incubo vero e proprio. Il dipinto, tuttavia, richiama inequivocabilmente alla mente un disturbo del sonno piuttosto comune, le cosiddette paralisi nel sonno. Si tratta di un “malfunzionamento” che si verifica durante la fase REM (rapid eye movement), nella quale il cervello elabora i sogni vividi e i muscoli presentano uno stato di atonia. Molto spesso, però, la fase del risveglio non coincide con la fase di ripresa di tono dei muscoli, causando dunque uno scompenso: è come se il cervello non riuscisse più a collaborare col corpo, causando dunque una paralisi, per cui ci si ritrova coscienti ma incapaci di muoversi. La sensazione di terrore e, talvolta, le allucinazioni che si verificano durante questa fase sono il frutto di un’iperattività dell’amigdala, zona del cervello responsabile, appunto, dei meccanismi del terrore e della paura. È un quadro, dunque, che può essere capito a fondo da coloro che fanno esperienza di tali fenomeni. 
I colori utilizzati sono perlopiù scuri, cupi, a voler suggerire un senso di macabro e contribuendo all’atmosfera tetra del quadro, grazie anche al sapiente uso di luci ed ombre. 

Un'altra ipotetica interpretazione del quadro riprende alcuni eventi biografici di Füssli. L’artista amò una donna che, a causa della non approvazione della famiglia, fu costretta a rifiutarlo, e si sposò qualche tempo dopo con un altro uomo. La donna distesa, dunque, potrebbe coincidere con la donna da lui amata, e il demone non sarebbe altro che una metafora che rappresenta lui, che non riesce a lasciarla andare. 

La protagonista del quadro somiglia, inoltre, all’Ariadne addormentata che si trova al Vaticano, mentre il demone somiglia molto ad alcune figure rinvenute a Selinunte, un sito archeologico in Sicilia.
Articolo di Manuela Griffo