mercoledì 22 gennaio 2020

Fulci, il seviziatore del giallo (Recensione "Non si Sevizia un Paperino")

Lucio Fulci: un nome che ovviamente non suonerà nuovo alla maggior parte dei nostri lettori. Ci piace sempre ribadire come il maestro romano (che già abbiamo imparato a conoscere nella nostra recensione di "Quella Villa Accanto al Cimitero" ) sia sicuramente uno dei cineasti che più di altri ha dato al cinema horror italiano, ma anche internazionale. Avendo affrontato diverse branche del cinema di genere nostrano, Fulci è riuscito a prendere elementi distinti da ogni genere da lui affrontato, dando vita ad un horror sicuramente molto personale e diverso dai soliti connotati. 

Uno dei generi più cari al regista romano è senza ombra di dubbio il giallo, caricato di elementi profondamente horror, una caratteristica tipica di Fulci, che caratterizza anche film generalmente lontani dal cinema orrorifico (come lo spaghetti-western "Le Colt Cantarono la Morte e fu... Tempo di Massacro!" con Franco Nero), e uno degli esempio simbolo di questo suo stile è, senza dubbio, il celebre Non si Sevizia un Paperino del 1972.
Girato nel primo periodo del giallo/thriller all'italiana di argentiana memoria, Fulci non decide di realizzare un più semplice clone delle opere del concittadino Dario, ma una sua personale rivisitazione con alla base profonde differenze rispetto ai tre film di Argento usciti fino a quel momento, a partire dall'ambientazione.  Se in film come, ad esempio, L'uccello dalle piume di cristallo, si è deciso di utilizzare un'ambientazione totalmente cittadina, anche per far trasparire con forza lo spirito noir, in questa pellicola la città è praticamente assente.

Esattamente come farà Pupi Avati quattro anni dopo col suo capolavoro La Casa dalle Finestre che Ridono (qui la nostra recensione), il terrorista dei generi si addentra profondamente nelle sterminate valli della Basilicata, rendendole terreno fertile per i brutali omicidi intorno ai quali gira la storia principale del film: la piccola comunità di Accendura è terrorizzata dalle misteriose e improvvise morte di alcuni ragazzini. Una misteriosa donna, chiamata Maciara (Florinda Bolkan) per le terrificanti storie che girano su di lei, viene subito etichettata come la possibile responsabile, mentre sul caso iniziano ad indagare il giornalista Andrea Martelli (Tomas Milian) e la bella Patrizia (Barbara Bouchet).
Da un soggetto dello stesso Fulci, coadiuvato da Roberto Gianviti (già sceneggiatore delle due precedenti opere thriller del regista, ovvero Una sull'Altra e Una Lucertola Dalla Pelle di Donna) che successivamente, e sempre insieme al regista, ne stilerà anche la sceneggiatura, esce nelle sale il 29 Settembre 1972 col suggestivo titolo Non si Sevizia un Paperino, primo film prodotto dalla (allora) giovane Medusa Film.

Dopo un'accoglienza entusiasta da parte del pubblico, il film inciampò subito nel grande ostacolo della censura. Il film, infatti, venne vietato ai minori di 18 anni per le scene di esplicita violenza e per l'elemento sessuale al centro delle tematiche del film tanto che, nel 1973, Lucio Fulci in persona venne chiamato in tribunale a causa della scena (bellissima per altro) in cui Barbara Bouchet si mostra nuda di fronte ad un bambino; ipocrisia d'altri tempi. Forse. Questo tipo di imprevisti non ha impedito al film di diventare, più col passare del tempo a dir la verità, uno dei principali cult del cinema thriller italiano.  Possiamo dire che questa pellicola è l'ennesima testimonianza dell'enorme talento e della grande confidenza con qui questo regista riusciva a mettere in scena le sue pellicole. Le scene più cruente, infatti, sono girate con l'occhio di un vero maestro del genere, con la particolarità, forse unica, di rifarsi persino al cinema neorealista, corrente che il regista conosceva bene.
Non abbiamo mai fatto spoiler nelle nostre recensioni, ma in questo caso non possiamo non citare la pazzesca scena del linciaggio dei genitori delle piccole vittime ai danni della Maciara. Il ritmo del montaggio, la potenza delle inquadrature, il realismo della violenza messa in scena, e l'idea, anticonvenzionale per l'epoca, di unire alle scena di un brutale omicidio le dolci note di "Quei giorni insieme a te" di Ornella Vanoni la rendono una delle sequenze più memorabili della storia del cinema nostrano.

Una scena forte, sia per come è realizzata, che per la tematica che affronta, dove il pregiudizio sul diverso diventa immediatamente accusa di qualcosa che, tuttavia, rimane infondato. E fa riflettere come questo omicidio sia il più cruento, il più brutale, quella che più va a toccare lo spettatore nel profondo, ed è l'unico commesso da quelli che in fin dei conti erano vittime di quella striscia di omicidi.
Parlando di aspetti più generali, il film mantiene una grande dose di tensione per gran parte della sua durata e si diverte a fuorviare lo spettatore su più binari, mandandolo quasi in confusione, senza sapere chi accusare, su chi puntare il dito. Propria per questa sua capacità, questa pellicola potrebbe essere tranquillamente presa come testimonianza concreta della potenza linguistica del montaggio, su come mostrare l'incontro fra due persone ed immediatamente dopo far vedere il cadavere di uno dei due riverso a terra sia innegabilmente in grado di spostare lo spettatore ad accusare l'altro "rimasto in vita".

Un capolavoro del genere che probabilmente soltanto uno come Fulci poteva essere in grado di mettere in scena con questa potenza non tanto visiva quanto tecnica, e che sperimenterà successivamente addentrandosi in un horror sempre più puro, sul quale sicuramente torneremo a parlare prossimamente.

Articolo di Andrea Gentili.

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