martedì 17 dicembre 2019

P(i)a(n)ura Padana (Recensione "La casa delle finestre che ridono")

Solo un grande artista può dare 
un senso così... così vero alla morte.

Il thriller-horror all'italiana è senza alcun dubbio un sottogenere che sicuramente abbiamo ben imparato a conoscere negli articoli che hanno preceduto il pezzo che state leggendo in questo momento, dove sono state affrontate diverse pellicole di alcuni dei più grandi Maestri nella storia del cinema orrorifico tricolore, tra i quali Lucio Fulci, Mario Bava, Lamberto Bava e Ruggero Deodato, nelle quali abbiamo (quando più, quando meno) scavato a fondo, trovandone gli elementi di forza e relativi punti deboli, soffermandoci, spesso, sulla gestione dell'elemento “ambientazione”, un aspetto, ovviamente, di fondamentale importanza per la costruzione di un'atmosfera funzionale e carica di tensione.  Nella maggior parte dei casi, nei film soprattutto di stampo più o meno giallo (vedasi, ad esempio, i capolavori di Dario Argento), si è quasi sempre deciso di giocare la carta dell'ambiente cittadino, coi suoi vicoli, i suoi appartamenti solitari e le sue lugubre strade illuminate dagli intermittenti lampioni, rifacendosi, di conseguenza, alle caratteristiche genere letterario dall'omonimo colore. Tuttavia ci sono autori che hanno deciso di prendere una strada differente.

Qualche settimana fa a Pisa, durante la presentazione del libro “Pupi Avati: sogni, incubi, visioni”, il suo autore, il giornalista Andrea Maioli, rispondeva così ad un mio intervento circa le caratteristiche di quei film che rifiutavano la città come “microuniverso” delle vicende narrate: “Ci sono principalmente due film thriller prodotti in Italia che decidono di sfruttare le campagne dei piccoli comuni e dei piccoli borghi a discapito dell'urbanità, e di ambientare le vicende soprattutto di giorno: “Non si sevizia un Paperino” di Fulci e “La casa dalle finestre che ridono” di Avati” del 1976.
Se nel primo caso ci troviamo di fronte ad una pellicola incentrata principalmente sull'aspetto “mistery”, dando allo spettatore i classici indizi fuorvianti, per poi spiazzarlo con l'inaspettato finale a sorpresa, in “La casa dalle finestre che ridono” Avati, sebbene non rifiuti assolutamente l'elemento “giallo”, rende quest'ultimo, un aspetto, se vogliamo, abbastanza marginale, concentradosi più sulla valorizzaizone di ogni singolo ettaro intorno alle cittadine emiliane di Comacchio e Minerbio e delle leggende folkroristiche tipiche della zona, al fine di trasmettere nello spettatore unicamente e senza fronzoli Paura, sancendo, così, la nascita del cosìdetto Gotico Padano.

Questa paura viene senz'altro ampliata dall'attenta miscelanza di elementi perfettamente in sintonia fra loro, quali una regia attenta, sulla quale torneremo successivamente, una colonna sonora di Amedeo Tommasi totalmente azzeccata ed inserita dove serve, ed una sceneggiatura originale e solida, scritta a otto mani da Pupi Avati, da suo fratello Antonio, da Gianni Cavina (attore feticcio del regista bologonose) e dal notissimo volto della televisione italiana, Maurizio Costanzo.
Trama
Stefano (Lino Capolicchio), un giovane restauratore di quadri antichi, viene convocato dal sindaco di una piccola cittadina del ferrarese per dare nuova linfa ad un macabro affresco del misterioso artista Buono Legnani (Tonito Corazzari). Dopo una serie di di minacce e di strani avvenimenti, l'uomo inizierà a rendersi conto di trovarsi di fronte a molto di più di un normale affresco religioso, decidendo di indagare a fondo sulla storia di questo artista dall'inquietante passato, aiutato dalla giovane Francesca (Francesca Marciano).

La cruda violenza del pregiudizio
Già da questa breve sinossi, ci accorgiamo subito della presenza di un importante elemento di congiunzione fra questa pellicola e gran parte delle precedenti opere thriller nostrane (e non solo): l'individuo comune che si ritrova, per caso, in balìa di eventi spietati e più grandi di lui, dove la fame di risolvere ciò che ancora è irrisolto è più forte del timore del “rischio”. Di conseguenza, le forze dell'ordine vengono presentate come inefficenti, schiave del pregiudizio e incampaci di svolgere il loro lavoro, un aspetto, questo come il precedente, posto in essere già molti anni prima dal MAESTRO (qui una sola maiuscola non basta) Alfred Hitchcock.
In questo modo, il cineasta emiliano, riesce a mettere in scena, e con occhio assolutamente critico, una mentalità che spesso si riscontra nelle realtà dei piccoli paesi di periferia, dove la reciporca conoscienza fra tutti i concittadini provoca, a fronte di eventi spiacievoli o criminosi, una complice omertà, soprattutto quando questi eventi sono a danno di “stranieri” appena giunti sul determinato luogo, cosa che vediamo accadere al nostro protagonista.

Interessante è, da questo punto di vista, la caratterizzazione di alcuni personaggi secondari, come la maestrina ninfomane (Vanna Busoni) o l'autista ubriacone (Gianni Cavina), i quali, essendo gli unici membri della comunità che si rifiutano di nascondere le loro debolezze, fanno parte dei pochi che non vedono con diffidenza il giovane restauratore, arrivando persino ad offrirgli il loro aiuto in determinate occasioni al costo di alimentare i già oppressivi e spietati pregiudizi della comunità di cui fanno parte.
Il sanguinoso rapporto fra le opere
E non è nemmeno un caso che l'intera pellicola giri intorno ad un elemento artistico rappresentante la morte nella maniera più efferrata e realistica possibile, evidenziando l'orribile sofferenza che il martire raffigurato sta subendo; una metafora, forse, meta-artistica di quello che lo stesso film , anch'esso opera d'arte, tende a mettere in scena, ovvero la morte, la violenza, così come essa è nella realtà, in tutto il suo terrore ed il suo, in un certo senso, fascino.  Non è una coincindenza, infatti, che la primissima scena, quella che fa da sfondo ai titoli di testa, sia la rappresentazione “fisica” vera e propria del dipinto che poi troveremo poco dopo durante il film. Avati, d'altronde, soprattutto nelle scene più cruente, non si nasconde dietro superflui fuori campo, ma vuole sbattere in faccia allo spettatore la crudeltà della “morte violenta” nella maniera più schietta e diretta possibile, con un sapiente utilizzo, ad esempio, dei primissimi piani sui coltelli che fuoriescono dalla carne mutilata.

Difatti, per continuare questo parallismo fra l'affresco che il nostro protagonista deve restaurare ed il film stesso in cui questo è contenuto, l'unico elemento ancora intatto del dipinto è proprio il soggetto martoriato, con le numerose lame conficcate nel suo addome, come se il regista volesse  ribadire, ancora una volta, che la violenza, nella finzione, non deve essere in alcun modo ostacolata visivamente, ma lasciata “scoperta” e senza filtri. E così, la citazione posta all'inizio dell'articolo acquista un senso ancora più esplicito.
Il lato tecnico
Come già accennato in precedenza, l'aspetto tecnico è uno dei punti di maggiore forza dell'opera. La mano di Avati si muove sotto la direzione di un attento occhio estetico e autoriale,  rafforzato da un montaggio posato e raramente frenetico, e che in alcune inquadrature ricorda persino il Bertolucci di “Strategia del ragno”, andando ad esaltare la solitudine delle stradine polverose, delle grandi abitazioni imponenti e mal arredate, come la grande cascina dove Stefano vivrà gran parte delle vicende, o la casa del defunto (?) artista, estremamente sinistra ed inquietante a cause delle sue “finestre che ridono”. Per donare un ulteriore livello espressivo al film, in funzione di trasmettere nello spettatore un disagio ancora maggiore, viene chiamato come direttore della fotografia Pasquale Rachini, il quale opta per una scelta cromatica prevalentemente spenta e “sporca”, dove il rosso del sangue diventa quasi un rosa scuro ed inerte, esaltando i marroni, i gialli ed i verdi, ovvero i colori tipici della campagna che, come già detto, è l'ambientazione principale del film.

Interssante, poi, come il regista si avvalga dei flashback per dare completezza all'arco narrativo, alle volte anche facendo credere allo spettatore determinate cose che portrebbero anche non essere reali, fino ad arrivare al clamoroso (doppio) finale, dove il climax raggiunge, una volta per tutte ed in maniere dirompente, quella follia che già si iniziava a captare nell'ultima mezz'ora della pellicola, lasciando lo spettatore con il dubbio anche dopo i titoli di coda, che sanciscono la fine di uno dei più grandi Capolavori della storia del cinema horror italiano ed internazionale.
Articolo di Andrea Gentili
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