giovedì 5 dicembre 2019

Gli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore (Parte Seconda) - Re-Animator sviscerato

ATTENZIONE: Questo articolo è l'ottavo della serie ed il secondo del capitolo dedicato agli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore, consigliamo la lettura dei precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Quarto, Paragrafo Secondo
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Tornando alla strana coppia che in modo ancora più strano e unico nel suo genere ha portato l'opera dello scrittore di Providence sul grande schermo, parossismo di questa stranezza e unicità è, senza ombra di dubbio, l'eclettico, travagliato e di nuovo relegato al mercato dell'home video Necronomicon: Book of the Dead [1993; Necronomicon: Il libro dei morti], film antologico che prende il nome dallo pseudobiblium lovecraftiano (e non) più famoso di sempre, adattando tre diverse storie dell'autore, ognuna, come nel più classico Incubi notturni (1945; Dead of Night), affidata ad un regista e collocata all'interno di una cornice, che vede il solito Jeffrey Combs rivestire i panni di Lovecraft in persona e in pieno atto creativo. Alla travagliata produzione della pellicola c'è Yuzna, e lui stesso, insieme a Cristophe Gans e Kazunori Itō per i precedenti episodi, firma la regia e la scrittura (a cui collabora Friedman per tutti i segmenti), oltre che della cornice, di uno dei mediometraggi: Whispers (“Sussurri”), tratto dal racconto Colui che sussurrava nelle tenebre (1931; The Whisperer in Darkness) e il solo di quelli che compongono questo «felice esempio di cinema lovecraftiano» (p. 82) su cui per ora ci soffermeremo. Il segmento è, infatti, un ottimo rappresentante della regia di Yuzna, meno “posata” di quella di Gordon, ma che si lascia andare a sempre ottimamente controllati e contestualizzati movimenti di macchina a mano estremamente cinetici, come pure accadeva nell'indiavolato finale di Re-animator 2 solo di qualche anno prima: basti pensare alla rapidissima carrellata che segue irregolarmente una larga striscia di sangue, partendo da una macchina ribaltata fino all'interno del vecchio edificio dove il malcapitato ferito continua ad essere trascinato per venire offerto in sacrificio alle creature aliene che ne abitano i sotterranei. Proprio tale frenetico linguaggio visivo e l'ambientazione metropolitana, che agli occhi di molti risulterebbero un tradimento della forma della storia originale in cui un professore veniva gradualmente a conoscenza dell'esistenza di una colonia aliena nelle selvagge colline del Vermont, costituiscono, invece, un ennesimo coerente punto d'incontro tra l'estetica postmoderna di Yuzna (o Gordon, a seconda dei casi) e i lovecraftiani «incubi sopravvissuti in modo proibito che strisceranno o nuoteranno dai loro neri rifugi» (H.P. Lovecraft, Le montagne della follia, in Tutti i racconti 1931 – 1936, G. Lippi (a cura di), Mondadori, Milano 2013, p. 117): qui il postmoderno, oltre che contenuto diegetico (come poteva essere in Re-animator 2 con il suo omaggio alla Moglie di Frankenstein), si fa forma visiva, quando letteralmente assistiamo alla trasformazione degli squallidi corridoi del prefabbricato in gallerie scolpite di geroglifici (come al solito, un singolo set è  ripreso con angolazioni e luci diverse tali da dare l'impressione di metri e metri di cunicoli), riconducendo inesorabilmente e repentinamente la modernità urbana al primitivismo preistorico in una brusca presa di coscienza delle «infinite ère di caos» (Il richiamo di Cthulhu, p. 166) che le separano; e infatti, come dichiara esplicitamente di aver fatto Yuzna, è impossibile a qualunque artista contemporaneo non derivare da Lovecraft l'idea che persino nelle viscere di una metropoli come Los Angeles, “beatamente ignorante” nella propria frenesia ultramoderna (mentre l'«incubo aspetta e sogna nel profondo, la corruzione si diffonde nelle vacillanti città degli uomini» p. 181), creature preumane continuino ad essere adorate come dèi e ad  infestare la propria spelonca antidiluviana, che, grazie all'aspetto organico conferito da una malsana e luciferina fotografia rosso-violacea alla suggestiva scenografia di Anthony Tremblay, volutamente ricorda un grembo materno da incubo. E poco importa che nel mediometraggio gli alieni asportino e tengano in vita i cervelli degli esseri umani per riprodursi (in uno “xenomorfico” sacrificio rituale in nome della continuazione della specie) piuttosto che per condurli in giro per lo spazio siderale come nella novella: il terrificante senso della perdita delle proprie facoltà sensoriali plastiche, una volta subita l'«inconcepibile operazione chirurgica per intraprendere un viaggio ancora più inconcepibile» (Colui che sussurrava nelle tenebre, p. 294) (tralaltro formalmente mantenuta nelle amputazioni inflitte dalle creature alla protagonista), rimane anche senza la presenza del viaggio in sè, venendo tale mancanza controbilanciata dalla, come sempre, irriverente invenzione di un orifizio che ricorda l'organo genitale femminile, presente sul corpo delle creature, attraverso il quale l'individuo “scorporato” può esprimere tutto il suo terrore dal grembo alieno in cui il suo cervello è imprigionato; insomma, sempre senza sopprimere il potente concetto alla base della materia originale, vi è aggiunto un tremendo senso di angosca incentrato sulla maternità, insito già nella protagonista scritta ad hoc e dal suo caratterialmente dominante desiderio di abortire, cosicchè l'erocentrica poetica di Yuzna risulti molto più intellettuale di quanto la critica vorrebbe far credere, letteralmente traducendo in immagini quella freudiana «fantasia terribile [che] non è che il capovolgimento di un'altra fantasia che non aveva in origine nulla di orripilante, ma era il portato di una certa lascivia, ovvero la fantasia della vita nel grembo materno» (Il perturbante, cit., p. 297; la sorgente di questa tematica nell'inconscio, e quindi nell'irrazionalità dell'essere umano tanto cara allo stesso Lovecraft, è tanto più evidente se si pensa che Yuzna stesso non riesce a spiegarsi il perchè abbia perseguito delle suggestioni simili sebbene sia tranquillamente favorevole all'aborto). Allo stesso modo, tale poetica risulta comunque vicina alle sconcertanti verità nascoste che sottenderebbero la nostra realtà nelle opere di Lovecraft più di quanto i puristi vorrebbero convincerci: si pensi che proprio l'alieno-regina afferma alla madre “miscredente” e abortista: «It's time for you to see things, the way they really are» (“È tempo che tu veda le cose per quello che sono in reltà”). Il tutto si pone, inoltre, come una coerente estensione del frankensteiniano discorso su «l'orrore di come si crea la vita senza una donna», una vita condannata a vedere come «il proprio creatore è il primo che la disprezza» (Zelati, p. 501) di cui Yuzna già aveva posto le basi in Re-animator 2. I terrificanti design e degli alieni realizzati da Masters sono l'ultimo tassello che compone la forza dirompente di questa apprentemente ininterrotta sequela di orrori, che però non viene minimamente depotenziata dalla decisione, memore dell'insegnamento di Re-animator, di stemperare il tono generale degli episodi con una sufficientemente distaccata cornice, che vede, per l'appunto, protagonista un Lovecraft sfacciatamente più simile ad un avventuriero à la Indiana Jones o ad un “ammazzamostri” à la Ash Williams che non allo studioso riservato ed educato che fu in realtà: «questo è un horror ragazzi! Non vogliamo nasconderci dietro una facciata intellettuale!» (Ibidem), dice Yuzna, ancora a proposito di Re-animator 2. Le riflessioni più profonde sono solo per chi sa andare oltre la facciata (o la cornice).
Chiudiamo la parentesi su Brian Yuzna spendendo due parole anche su Beyond Re-animator: abbiamo visto a più riprese come, insieme a Re-animator 2, portasse avanti coerentemente le premesse gettate da Re-animator stesso, ma come il predecessore rimane anch'esso, nella forma oltre che nella sostanza, un'indiscutibile prova del talento registico di Yuzna: stavolta la perdita di controllo è circoscritta all'irresistibile follia narrativa (i già citati uomo-roditore e l'auto-iniezione di reagente), ma i movimenti di macchina sono estremamente consapevoli e ponderati nello sfruttare gli interni del (vero) penitenziario in cui si svolge la vicenda, riuscendo, come sempre in accordo con la fotografia, letteralmente a trasmutarli in quelli che sembrano set copmpletamente diversi, cosicchè, quando a metà della pellicola nel carcere esplode la pandemia generale, i corridoi su cui si affacciano le celle ricordano piuttosto dei budelli sempre più oscuri che si incanalano nelle viscere della terra. Ambientazione che fa letteralmente da contraltare al coloratissimo ma goticissimo (i colori erano quelli tipici di Mario Bava e di Terence Fisher) laboratorio di Re-animator 2, eppure su di entrambi si posa lo stesso riconoscibile occhio registico: si pensi all'impiego dello split diopter con cui bisecano l'inquadratura il modello anatomico di uno scheletro in primo piano e il dottor Cain sullo sfondo, e, nelle rispettive posizioni, sempre Cain con il dottor West in Re-animator 2 (quest'ultima è una decisamente efficace nuova rappresentazione visiva dei rapporti di forza che intercorrono tra i due rianimatori), o la ritrovata siringa di reagente e l'invecchiato West in Beyond Re-animator. Distanziano molto le due pellicole pure i ricchissimi effetti speciali splatter di Re-animator 2, opera di artisti del calibro di Screaming Mad George, David Allen e del K.N.B. Efx Group, che in Beyond Re-animator sono costretti a cedere il posto a quelli più poveri che la Fantastic Factory, creata da Yuzna in Spagna con Julio Fernàndez, può permettersi, ma, come abbiamo avuto modo di vedere e dire, l'effetto del loro impiego dipende da tutt'altro. E anche se «ormai il legame con la scrittura del Visionario di Providence è assai debole» (Rosati, p. 220) perfino rispetto al precedente capitolo (che prendeva dal racconto originale alcuni elementi come il breve arruolamento dei rianimatori in guerra come ufficiali medici), lo stesso Rosati ammette che la cosa poco pesa sulla qualità delle pellicole: i climax finali di entrambe, ovvero la visionaria e caleidoscopica sequenza in cui la Sposa «si strappa il cuore, lo offre palpitante a Daniel e poi si autodistrugge» (Tentori, p. 67) in Re-animator 2 ed il politico totale, quasi pittorico nella calcolata posa dei personaggi, dove vediamo l'ormai completamente assurto ad antieroe «West che uccide il direttore, fanatico della pena capitale, sulla sedia elettrica, quale beffardo contrappasso» (p. 68-69), in Beyond Re-animator, non hanno bisogno di ulteriori commenti.
Solo due anni prima e proprio per la neonata Fantastic Factory, Stuart Gordon aveva diretto Dagon – La mutazione del male (2001; Dagon – la secta del mar), un progetto che, non fosse stato per la disapprovazione di Charles Band, sarebbe dovuto immediatamente succedere a Re-animator. La sceneggiatura di Paoli è tratta dal racconto La maschera di Innsmouth (1931; The Shadow over Innsmouth) e, solo nominalmente, da Dagon (1917; Id), di cui il film, come pure il racconto a cui effettivamente si ispira, conserva solo l'idea della creatura del titolo: il dio marino adorato da una cittadina fittizia sulle coste del Massachusetts abitata da terrificanti ibridi uomo-pesce-batrace (e anche “-piovra” nella pellicola) che, col passare degli anni, perdono sempre più la somiglianza con l'essere umano in favore di quell'aspetto mostruoso definito, appunto, “la maschera” di Innsmouth (the Innsmouth look). Con un altro semplice gioco di parole, nel film Innsmouth diviene Inboca, per via dell'ambientazione galiziana che a ragione Fernàndez ritiene così appropriata al cinema fantastico: difatti, l'elemento più impressionante della pellicola è proprio l'estetica attraverso cui Gordon «restituisce sullo schermo l'essenza e le atmosfere del racconto visualizzandolo suggestivamente» (p. 91) con l'impiego costante della macchina a mano (molto lontano dall'approccio “teatrale” delle prime pellicole), cristallizzando il movimento insito negli umori del mare e nella perenne fuga del protagonista, braccato dall'intera cittadina sotto una «continua pioggia scrosciante» (p. 92); questa, insieme alla fotografia bluastra per gli esterni e i madidi interni (contrapposta ad una ambrata per quelli più “sacri” e asciutti), alle repellenti scenografie ed ai suggestivi shot (basta citare una grandangolare inquadratura dal basso della chiesa di Dagon sullo sfondo, a cui il protagonista si avvicina, a partire dal dettaglio della propria gamba che entra in campo), contribuisce a impressionare sullo schermo la quintessenza visiva di quello stesso terrore incusso dagli abissi marini che Lovecraft aveva infuso nel proprio racconto, che, però, si ambientava in «una giornata calda e soleggiata» (La maschera di Innsmouth, p. 133), una differenza decisamente curiosa che ci tornerà utile più tardi. Altra forte divergenza risiede nel fatto che gli ibridi della cittadina del racconto originale costituivano la prole delle innominabili unioni tra gli esseri umani del luogo e delle creature anfibie e umanoidi a cui Lovecraft si riferisce semplicemente come “Quelli-degli-Abissi” (Deep Ones), una razza di creture oceaniche totalmente a sé stante, che, per qualche oscura ragione, «volevano mischiare le razze» (p. 156); ma Gordon e Paoli danno un'impronta più personale e politica alla propria opera, elidendo l'elemento diegetico costituito da “Quelli-degli-Abissi”, cosicchè la lenta  mutazione in cui incorrono gli abitanti di Inboca sia, invece, la diretta conseguenza del loro essersi letteralmente “venduti” al dio Dagon, che, non a caso, oltre a rimpolpare i banchi di pesce su cui si basava la loro stentata economia, fa affiorare dai flutti grottesche sculture d'oro a tema marino (che pure i Deep Ones del racconto fabbricavano e inizialmente donavano agli uomini, tuttavia il focus che film pone sull'avidità corruttrice del genere umano, a discapito della malevola intelligenza super partes delle creature della storia di Lovecraft, è innegabile): «è particolarmente incisiva la scena del flashback» (Tentori, p. 91) dove il beone del villaggio (ultima interpretazione del leggendario Francisco Rabal), il solo a non recare i segni della “maschera”, racconta (proprio come in Lovecraft) la storia della città, in una sequenza ripresa in maniera più tradizionale e che include un'intelligente soggettiva di Dagon emerso dagli abissi, non mostrando la creatura in sé, decisamente fuori portata del budget (€4.200.000), e accontentando la tendenza di Lovecraft per le allusioni piuttosto che le descrizioni dirette.
Tuttavia il finale osa parecchio nel mostrare finalmente la creatura, sebbene per una frazione di secondo, in una povera computer graphic, che pure era precedentemente comparsa di tanto in tanto ma sempre controbilanciata dai buonissimi effetti artigianali (su tutti il terrificante scorticamento di Rabal), non fosse che pure questi nel finale corrono il rischio di perdere efficacia, una volta messo totalmente a nudo il trucco del “primo cittadino” di Inboca, e questo sempre in ragione di quanto già si era detto sulla questione del make-up. Difatti, la pellicola vorrebbe porsi a metà strada fra Re-animator e From Beyond, concedendosi qualche momento di comicità anche sufficientemente grottesca, ma comunque distante dalla cupa atmosfera generale, e questi nodi verranno al pettine proprio di nuovo nel finale, che vorrebbe ricalcare quello del racconto dove il protagonista scopre di essere imparentato alla lontana con uno degli ibridi della città e quindi destinato lui stesso a diventarlo: come in From Beyond, l'intenzione di ricreare quella specifica sensazione di ammaliante straniamento che si prova leggendo il finale del racconto è chiarmente perseguita (a fine pellicola compare in sovraimpressione addirittura l'enunciato che chiudeva la storia: «e nel rifugio di Quelli-degli-Abissi vivremo per sempre in un mondo di meraviglie e di gloria», p. 188), ma un protagonista, interpretato discretamente da Ezra Godden, meno macchiettistico (sebbene venga a costituire una coerentemente autoriale presa in giro del classico accademico protagonista di molti racconti di Lovecraft, che qui appare come un nerd irritante) ed una maggiore serietà nel corso della pellicola avrebbero permesso di godere a pieno di un tale colpo di scena: tuttavia, il fascino e la repulsione incarnati dal personaggio Uxia, la sacerdotessa di Dagon, dal torso in giù munita di tentacoli, e quindi la ricorrente vena erotica che a detta di molti dovrebbe essere così distante dallo scrittore di Providence, centrano sufficientemente il bersaglio. Sicuramente un più riuscito tentativo di tradurre sullo schermo questa sensazione complessa e contraddittoria era l'ottima conclusione dell'ultima e validissima sceneggiatura di O'Bannon Hemoglobin – Creature dell'inferno (1997; Bleeders), in cui, sebbene gli umanoidi degenerati e abitatori del sottosuolo da cui discende si ispirino al racconto La paura in agguato (1922; The Lurking Fear), la scena finale dove il protagonista abbandona freddamente la moglie ed abbraccia la sua ritrovata natura, finalmente libero dalla malattia del sangue che lo affliggeva quando viveva come un comunissimo essere umano alla luce del sole, è pregna, dalla musica malinconica agli stretti primi piani e dall'ottima recitazione alle creature grottesche ma mai caricaturali, di quell'inebriante fascino repellente che seguiva le grottesche e malinconiche prese di coscienza dei narratori de La maschera di Innsmouth o de L'estraneo (1922; The Outsider). Ad ogni modo, è Dagon a detenere molto più spesso il titolo di uno tra i migliori adattamenti dell'opera di Lovecraft, dunque, ancora una volta, la fedeltà alla materia originale, per quanto più o meno influente a seconda dei casi, sembra essere, man mano che discorriamo (e che, paradossalmente, incontriamo storie sempre più personali e meno interpretabili di come sarebbe potuta essere Herbert West - Rianimatore), sempre meno rilevante per il risultato finale.
Inoltre, la costante costituita dalla perdita di mordente nel finale delle opere lovecraftiane di Gordon (tranne Re-animator, come ancora dobbiamo vedere) subirà un netto ribaltamento con l'ultimo lavoro del regista che possa rientrare in tale categoria: l'episodio della prima stagione della serie (di cui pure avevamo ricordato un episodio di Hooper) Masters of Horror (2005-2007; Id), ovvero La casa delle streghe (2005; Dreams in the Witch-House), tratto dall'omonimo racconto del '32. Difatti, sebbene il mediometraggio sia, per ragioni logistiche tanto facilmente criticabili quanto coscienziosamente comprensibili, costretto a semplificare il racconto minimizzando una delle più indubbiamente personali e sovversive intuizioni che Lovecraft avesse apportato al genere, per cui le «apparenti analogie tra alcune sofisticate branche della matematica e certi aspetti del folklore e della magia» (p. 200) derivino dal fatto che entrambe, scienza e superstizione, non costituiscano altro che limitati tentativi degli uomini di comprendere il medesimo vasto e insensato schema dell'universo; sebbene venga totalmente eliminato il contenuto cosmico dei viaggi interdimensionali che il protagonista compie durante il dormiveglia, «tuffi dentro abissi crepuscolari che splendevano di sfumature indescrivibili, e risuonavano di suoni selvaggiamente distorti» (196); sebbene, insomma, Gordon e Paoli abbiano dovuto far somigliare la strega antagonista, più che ad una scienziata adepta di abominii extraterrestri ed extradimensionali, ad una più classica fattucchiera da gothic fiction, non esiste niente di più spaventosamente lovecraftiano (e lo vedremo a breve) di un finale senza neanche l'ombra di una catarsi, dove non solo il protagonista, un Godden molto più in parte che in Dagon, viene ingiustamente accusato degli infanticidi (ripercussione totalmente assente nel racconto originale), ma, «[c]ome accade per altri personaggi lovecraftiani, lo aspetta la cella dalle pareti imbottite di un manicomio, da cui non potrà uscire vivo» (Tentori, p. 153), venendo infine orrendamente giustiziato dal demone familiare della strega: un repellente ratto il cui «muso irsuto munito di denti aguzzi era decisamente umano» (La casa delle streghe, p. 196), realizzato grazie al trucco del KNB ed attraverso il medesimo gioco di primi e primissimi piani già usato sia per il professor Hill (proprio David Gale aveva “dato il volto” una creatura simile in Pulse Pounders) che per il dottor Pretorious, anche se sicuramente meno efficace vista la stazza ridotta della creatura, «interpretata dal mago ucraino Yevgen Voronin, scelto in base alla fisionomia del suo volto, e che non recitò mai prima o dopo di allora» (Misantropey - Stuart Gordon: Spotlight Dreams in the Witch House). Tuttavia, la solita ottima messa in scena, giocata su di una fotografia bigia e spenta accecata di tanto in tanto da un'onirica e cadaverica luce biancastra, su di una regia ansiogena fatta da inquadrature della casa stregata tipiche del genere (sghembe o con carrellate in avanti à la Non aprite quella porta) e dai primi piani in cui assistiamo al lento deterioramento psicofisico del protagonista, ed il ritorno di Richard Band ad una delle sue colonne sonore più riuscite, sono tutti elementi che rendono l'episodio un'onesta opera dal sapore gotico, valida pur senza il bisogno della indubbiamente perduta lore lovecraftiana. Concludiamo dicendo che qui l'elemento sessuale, costituito dall'apparizione della strega, nuda e bellissima, al protagonista, che, come nella celeberrima sequenza di Shining (1980; Id), «diventa presto raccapricciante quando lei si trasforma in una vecchia, ripugnante megera» (Tentori, p. 53), sia, per quanto d'effetto, prettamente diegetico e concettualmente più manieristico che interessante; la comicità, invece, è quasi del tutto assente, mentre grottesco e splatter sono dosati e funzionali. 
Con La casa delle streghe, tanto il nostro excursus quanto quello di Gordon e Yuzna nelle trasposizioni dell'opera di H. P. Lovecraft al cinema sembra essersi concluso. In realtà, anche per ragioni prettamente logistiche, non parleremo dell'ottimo Castle Freak (1995; Id), sempre di Gordon, perchè, sebbene il regista tenda a considerarlo un adattamento de La paura in agguato, non condivide col racconto alcun elemento narrativo, fatta eccezione per un comunque debole legame che intercorre fra il suo subumano e quelli (molteplici) del racconto Lovecraft, la cui degenerazione biologica deriva da un retroscena totalmente differente anche dal molto più simile Estraneo, e quindi poco utile alla nostra analisi.
Prima di chiudere, vorremmo ricordare che, fin dal tempo dei primi adattamenti della AIP, l'opera dello scrittore di Providence non ha mai smesso di influenzare pesantemente anche il cinema che non si ponesse come diretta riduzione delle sue storie (quello di Carpenter su tutti), come pure dimostra la prolissa lista di pellicole che Antonio Tentori riporta nel proprio libro di cui abbiamo ingentemente fatto uso. Nel panorama cinematografico contemporaneo, tale influenza è diventata talmente variegata e dispersiva da portarci a ritenere praticamente vano il perseguire l'illusione di far rientrare in uno schema un tale amalgama di produzioni tra adattamenti, trasposizioni, influenze ed omaggi. Tuttavia, vi fu, agli inizi del nuovo millennio, una ristretta cerchia di pellicole che, per i fortissimi tratti in comune quali l'utilizzo del bianco e nero (e, più in generale, di una messa in scena fintamente d'epoca) e l'appartenenza al regno del cinema underground, ci azzardiamo ad identificare proprio in ragione di scelte così sperimentali e di una natura così indipendente, qui portate all'estremo ma ravvisabili in moltissime altre pellicole del moderno e contemporaneo cinema lovecrafiano, come l'inizio di una tuttora in vita “terza wave”: questi primi portavoce, stilisticamente, dell'ecletticità di tale nuovo e indefinibile (o indescrivibile) insieme di opere il cui inizio, cronologicamente, è ovviamente riconducibile alla fine imminente del cinema di Gordon e Yuzna, ed al loro innegabile passaggio da uno statuto di postmodernità ad uno di culto (Re-animator su tutti, si veda E. Mathijs – J. Sexton,  Cult Cinema: An Introduction, Wiley, Hoboken 2011, p. 198), furono il mediometraggio Cool Air [1999; Aria fredda] (dall'omonimo racconto) di Bryan Moore e, al seguito, opere di fattura notevolissima nonostante la povertà dei mezzi come i due film (un mediometraggio muto ed un lungometraggio sonoro) dell'eclettico gruppo di artisti conosciuto come la H. P. Lovecraft Historical Society, The Call of Cthulhu [2005; Il richiamo di Cthulhu] e The Whisperer in Darkness [2011; Colui che sussurrava nelle tenebre], e Die Farbe [2010; Il colore] di Huan Vu, giovane regista attualmente impegnato nell'ambiziosissimo tentativo di dar vita al primo film sul “Ciclo dei Sogni” dello scrittore. Il nuovo e felicemente “infedele” adattamento proprio del racconto focale di questa tesi, Herbert West – Reanimator (2017) del nostrano Ivan Zuccon, e The Void – Il Vuoto (2017; The Void), che ha ricongiunto grazie al crowfounding la visceralità del cinema di Gordon e Yuzna (e guarda caso, proprio in una lovecraftiana tara ereditaria, gli tocca essere ampiamente disprezzato da pubblico e critica) a tematiche e suggestioni sempre più legate all'opus di Lovecraft in toto che non ad un singolo racconto, sono soltanto due  dei migliori e più recenti esempi di settima arte che, tra i tantissimi che purtroppo non abbiamo lo spazio neanche solo per citare, continuano ancora oggi a protrarre contro ogni legge di natura la vita blasfema dell'innominabile lascito di Howard Phillips Lovecraft.
CONTINUA...


Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.

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