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venerdì 13 dicembre 2019

Re-Animator ed il cinema Lovecraftiano - Re-Animator Sviscerato: L'Ultimo Esperimento (Parte Seconda)

ATTENZIONE: Questo articolo è il decimo  ed ultimo della serie ed il quarto del capitolo dedicato agli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore, consigliamo la lettura dei precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Quarto, Paragrafo Quarto
Ultimo Esperimento

Fatte le dovute premesse, vediamo di capire una volta per tutte se Re-animator sia davvero solo «un prodotto commerciale assai riuscito e che si spinge un po' troppo in là con l'umorismo e lo splatter, […] una versione cinematografica che smarrisce l'essenza più profonda della storia a cui si ispira» (Rosati 217), focalizzandoci sui tre punti  incriminati: l'umorismo, la violenza e la sessualità. Questo premettendo che i primi due erano già presenti nel racconto originale e che, casomai, è la loro esagerazione che va posta in discussione, e pure sarebbe da tenere ben conto di tutto ciò che abbiamo detto su ognuno di questi tre punti e su come tale esagerazione derivi più da una logica autoriale che commerciale.
Illustrazione di Kenpudiosaki
Partiamo con l'umorismo, che sappiamo essere presente nel film sotto forma o di una caustica comicità (Herbert West) o di un grottesco perturbante (i suoi esperimenti), rispetto all'ironia tematicamente molto simile ma meno costante e più sottile del racconto, che già prevedeva, per esempio, «un chirurgo decapitato e capace di rianimare i morti» (H.P. Lovecraft, Herbert West, rianimatore, in Tutti i racconti 1897 – 1922, G. Lippi (a cura di), cit., p. 270) e un Herbert West «che spesso pensava all'ironia della situazione: tanti cadaveri freschi e nessuno per le sue ricerche» (250); come direbbe Gordon, è solo “per mantenere la nostra sanità mentale” (Cfr. Commento del regista, nel blu-ray Re-animator, edito da Second Sight) e proprio per non finire come gli “eroi” di Lovecraft che siamo, in condizioni nel film volutamente perseguite, naturalmene portati a farci beffe della cosa che allo stesso tempo aborriamo: la morte, che è anche la vita, proprio come la risata è anche terrore e, se non si è distratti dalla ricerca di una pretenziosa e macchinosa fedeltà o dalle sicurezze del riso comune, l'umorismo del film non fa che rendercene ancora più consapevoli. «È raro che l'ironia sia assente anche dagli orrori più grandi» (H. P. Lovecraft, La Casa sfuggita, in Tutti i racconti 1923 – 1927, G. Lippi (a cura di), cit., p. 3), «[l]'humor è soltanto l'eco terrestre dell'abominevole risata di dei ciechi e folli», «[l]'umorismo non è nient'altro che il fischiettare, per darsi coraggio, dell'uomo lungo una strada buia» (Teoria 194-195): sono soltanto tre delle numerose affermazioni di Lovecraft sulla questione che non lasciano adito ad ulteriori dubbi riguardo a un sedicente “tradimento” dello spirito dello scrittore da parte di questo punto, alla luce della natura totalmente anticatartica e antiparodica che abbiamo sempre visto risiedere nel black humor assolutamente grottesco di Re-animator; ma il colpo di grazia definitivo a qualunque critica su di esso l'aveva in realtà già dato Worland nel precedente capitolo, quando dimostrava come Gordon avesse compreso alla perfezione, seppur manipolandole per i propri scopi, le concezioni estetiche di Charlie Chaplin, la cui comicità malinconica non a caso Lovecraft apprezzò dedicandole una poesia (Joshi 105).
Come generalmente accadeva nel New Horror americano degli anni '80, l'esasperazione dell'umorismo si legava a doppio filo con quella della violenza: lo splatter; ma Re-animator costituisce un'eccezione, giacchè, come si era visto, pure questo ha la sua vera ragione d'essere in una logica granguignolesca dove gli uomini non sono altro che marionette non(-)morte i cui fili sono tenuti dai Grandi Antichi, che a loro volta non sono altro che le immutabili leggi dell'universo che regolano la vita (e la morte); come se non bastasse, perfino Rosati riconosce nello scrittore di Providence la presenza di un «rigetto del corpo/fisicità, con storie nelle quali esso viene persino privato [La cosa sulla soglia (1933; The Thing on the Doorstep) e L'ombra calata dal tempo (1934; The Shadow out of Time)], o ha un aspetto talmente orribile, da essere inconcepibile per la mente umana [L'estraneo]» (216), ma la sorpresa più grande viene da Curti quando dice che «in Lovecraft il Male è espresso dalla putrefazione e dal decadimento fisico: i fetori, la putredine, le suppurazioni e i fluidi corporei che accompagnano le manifestazioni delle entità mostruose irridono l'umana imprefezione e deperebilità celata sotto una carcassa di pelle ossa e muscoli» (R. Curti, Demoni e dei. Dio, il diavolo, la religione nel cinema horror americano, cit., p. 66), in quella che pare più una descrizione delle trasposizioni, da lui stesso poco considerate, di Gordon e Yuzna, piuttosto che dei veri e propri racconti originali di Lovecraft. 
Così, se prima si potevano ancora avere dei dubbi sul mero intento sensazionalistico di scelte registiche come il «raggelante dettaglio di un cotonfiocco introdotto nel foro sulla tempia [di un cadavere]» (R. Worland, The Horror Film: An Introduction, cit., p. 247), adesso esse potranno essere criticate soltanto minando alle fondamenta, costituite dal materialismo scientifico di Lovecraft da cui tutto ebbe inizio, dell'intera migliore produzione horror contemporanea: del resto, se la scienza è un metodo per arrivare alla verità, e la verità è che l'universo è puro caos dove l'uomo sussiste in una condizione di burlesca e insignificante caducità, l'inesorabile applicazione della ricerca scientifica da parte di West non può non avere come risultato il delirio più follemente sanguinario che si possa immaginare: The Cold (“Il freddo”), il secondo episodio di Necronomicon e l'ultimo di cui ancora non si era parlato, non poteva essere più semplicemente perfetto nell'adattare il futile tentativo del protagonista di Aria fredda (1924; Cool Air) di tenersi in vita oltre i limiti umani, attraverso pozioni varie ed un costante raffreddamento sotto lo zero dei propri spazi vitali, con un'identica logica splatter, che stavolta, vista l'umanità del medico interpretato da David Warner, non ha però nulla di umoristico o divertente. 
Allo stesso modo, Re-animator non poteva rifuggire dal mostrare il corrispettivo della scena cartacea dove, «dopo aver iniettato nuovo sangue, [West] aveva legato vene, arterie e terminazioni nervose che sporgevano dal collo e aveva chiuso l'orrida apertura con un ritaglio di pelle» (267): in tale maniera, per lui insolitamente esplicita, Lovecraft descrisse le operazioni chirurgiche condotte da West sul cadavere decapitato prossimo alla rianimazione. Lovecraft stesso verrebbe con difficoltà chiamato in causa in questo discorso, rimanendo pittosto ambiguo sul fatto se la narrativa che definiva della mera «paura fisica o del macabro naturale» (Teoria 468), che comprenderebbe tanto lo splatter postmoderno quanto certe opere di scrittori da lui comunque stimati come Il pozzo e il pendolo (1842; The Pit and the Pendulum) di Poe, le puntate nel Grand Guignol di Lord Dunsany (150) e soprattutto i «raccapriccianti orrori fisici» (360)  di Maurice Level (verso cui sembra nutrire un certo rispetto oltre che considerarli stavolta appartenenti ad un genere totalmente diverso, che definisce eloquentemente un cupo realismo “tutto francese”), sia totalmente inferiore o solamente diversa da quella che lui riteneva la più efficace e da cui prende il nome il suo saggio fondamentale, L'orrore soprannaturale in letteratura (1927; Supernatural Horror in Literature); aveva duramente affermato, all'inizio del saggio, che un tale tipo di narrativa rientrerebbe nei bassifondi dell'horror (sovrannaturale? Forse è di troppo questo aggettivo, ma anche qui le cose andrebbero chiarite perchè Lovecraft sembra identificare il proprio ideale di cosmic horror come la forma “più alta”, e quindi solo una sezione, dello stesso), rimanendo  non più chiaro ed esaustivo più di quanto riesca però ad essere caustico e sbrigativo:
«Tali opere hanno certamente una loro collocazione, alla stregua della storia di fantasmi tradizionale, o anche stravagante o umoristica, in cui il formalismo o il deliberato ammicco dell'autore cancellano l'autentica impressione di un'anormalità morbosa; ma tutto ciò non costituisce la letteratura del terrore cosmico nel suo significato più genuino. Il vero racconto sovrannaturale possiede qualcosa di più del delitto misterioso, delle ossa insanguinate» (317).
"La casa" ("The Evil Dead", USA, 1981), regia di Sam Raimi
Mentre nell'introduzione al saggio Claudio de Nardi si limita a riverire passivamente le affermazioni dello scrittore guardando dall'alto in basso i «liquami dello splatter» (300), Joshi non si fa problemi ad ammettere che «alcune di queste regole non sono altro che giustificazioni a posteriori del suo stesso modo di scrivere» (56) e viene da sé che, come la stessa poca chiarezza di Lovecraft sembra confermare, esse tendano, soprattutto nella sfera formale, diegetica o stilistica, a costituire più un mezzo personale per raggiungere “l'atmosfera” che non l'atmosfera stessa, e che questa (la si definisca weird, cosmica o dell'orrore sovrannaturale, sempre tenendo conto che, anche nel pensiero di Lovecraft stesso, le tre definizioni tendono inevitabilmente a sovrapporsi ma anche ad allontanarsi; per quanto ci riguarda, una perfetta ed univoca schematizzazione dell'arte non esiste e non può esistere) possa assumere diverse forme espressive: abbiamo visto che lo splatter di Re-animator costituisce più un mezzo che la summa effettiva di quel che il film racconta, e sarebbe quindi da relegarsi tra quegli irrilevanti “eventi formali” che non vediamo perchè dovrebbero essere tenuti dai crititci in considerazione maggiore rispetto al senso di meccanicità della vita umana che essi producono, fermo comunque restando che il mezzo cinematografico non può non imporne la visione di contenuti, che vanno “codificati e decodificati”, cui si poteva alludere nel testo letterario: potrà non essere la forma migliore per rappresentare l'orrore cosmico “nel suo significato più genuino” che Lovecraft ritrovava in Poe, Blackwood, Hodgson e Arthur Machen, né pretendiamo che possa compendiare tutte le altre componenti dell'attributo “lovecraftiano” che, diciamocelo, troverà sempre la sua più completa e perfetta espressione solo nelle opere dello stesso Lovecraft, ma quella di Re-animator, oltre che di buona fattura cinematografica, ci pare anche abbastanza efficace nel riprodurne alcune delle più basilari e perturbanti implicazioni.
E adesso veniamo all'erotismo, che senza dubbio alcuno costituisce il principale e più controverso oggetto delle accuse di tradimento e misinterpretazione della materia originale lovecraftiana da parte di Re-animator. Mettendo da parte la comunque esatta affermazione di Gordon riguardo la necessità del cinema di mostrare qualcosa che nella letteratura può essere più facilmente alluso, come l'erotismo neppure accennato delle innominabili unioni de La maschera di Innsmouth o L'orrore di Dunwich, diamo per buono che questa presenza diegetica molto sporadica della sessualità in Lovecraft rientri pure essa tra le caratteristiche formali il cui fraintendimento o uso sconsiderato possa effettivamente snaturare il senso dell'opera originale, e cerchiamo piuttosto un legame sempre con il pensiero estetico dell'autore. Lovecraft aveva idee molto chiare sull'argomento e, diversamente da molti suoi critici e studiosi, dimostra un'impressionante onestà intellettuale quando afferma:
«Non mi piace l'arte geometrica modernista, la poesia imagista, l'enfasi sull'erotismo, la democrazia in ambito socio-politico – ma questo cosa significa? Sarebbe infantile da parte mia etichettare tutte queste cose intrinsecamente e universalmente “cattive” soltanto perchè esse sarebbero inadeguate nel mondo obsolescente che ha generato le mie opinioni» (480).
Nella medesima epistola identificò sette differenti tipologie della rapprsentazione erotica cercando di stabilire se costituiscano o meno una forma d'arte: realista, lirica, satirica, pornografica, figurativa, umoristica e didattica. Vediamo cosa ha da dire sul penultimo tipo, quello in cui Re-animator meglio si inserisce:
«è probabilmente il caso più dubbio e discutibile fra i sette che sto elencando. In assoluto, non penso che possiamo criticarlo più di tanto – ma qui possiamo muovere più facilmente obiezioni che nel caso della letteratura erotica seria, poiché sono coinvolte soltanto tenui sfumature dello spirito. Il nostro giudizio su un brano di arguzia audace deve sempre essere provvisorio e approssimativo – in quanto il brano nasce esclusivamente dall'atteggiamento estetico dominante nel luogo e nel momento. Naturalmente, c'è cattivo gusto nell'esagerazione di qualsiasi argomento qualora non sia richiesta dal racconto dal vero, e che possa urtare la sensibilità della maggioranza dell'eventuale pubbico. Al momento attuale, la moribonda epoca anti-erotica non è (a mio parere) estinta abbastanza da rendere l'arguzia della Restaurazione del tutto accettabile alla nostra vecchia generazione» (487-488).
Descrivendo l'infausta scena, Worland ci autò a vedere come essa coinvolgesse ben più di “tenui sfumature dello spirito”: il terrore dello stupro nella recitazione della Crampton è palpabile, eppure la grottesca assurdità degli eventi e la regia di Gordon creano un senso di ambiguità per cui lo spettatore non sa se rimanere scandalizzato o meno. Dunque, già in questo il film prescinde qualunque giudizio negativo imputabile ad un effetto scandalizzante che, inoltre, andrebbe esclusivamente ricondotto all'“atteggiamento estetico dominante del luogo e del momento”: Re-animator, pure figlio del proprio tempo, non avrebbe potuto scandalizzare chiunque alla sua uscita nelle sale più di quanto non cesserà di “urtare la sensibilità” di qualcuno in futuro, mettendo così in discussione la stessa definizione di “cattivo gusto” e ponendo lo spettatore nell'impossibilità di decidere dove cominci e dove finisca il vago limite oltre il quale si dovrebbe ricadere in una “esagerazione” che lo produca. Perchè in verità (sottolineamo questo punto tanto fondamentale per Lovecraft) non c'è  modo di definirlo, tanto più se il mondo reale non è non meno una farsa di un mondo fittizio dove le teste tornano in vita e si mettono a parlare. Il grande potere di Re-animator è trascendere un buon gusto che non esiste, creare un limite che esso stesso supera, perchè un buon gusto e un limite non possono esistere nell'insensata visione cosmica e materialista che Lovecraft aveva dell'esistenza, solo che perfino lui pare dimenticarlo, tenendo probabilmente l'arte in una considerazione maggiore di quella in cui teneva la vita (e chi può biasimarlo). Ma abbiamo visto che lui stesso considerava l'arte come inevitabilmente connessa alla verità, e Re-animator coraggiosamente e spregiudicatamente rivela una verità che raramente è stata esposta, se non dai più grandi teorci della provocazione, agli occhi increduli degli uomini, una verità che neppure l'ormai talmente accettata da essere sconosciuta ai più “arguzia della Restaurazione” riuscì a rivelare durante gli ultimi rantoli dell'epoca anti-erotica in cui era parsa tanto inaccettabile: che qualsiasi cosa prima o poi può diventare accettabile, che nessuna cosa al mondo detiene un effetto sovversivo per sempre, ma Re-animator nella sua inarrestabile opposizione, come quella del reagente contro la morte, contro di tutto e contro di tutti, durante la quale ogni volta che viene domato e ucciso torna in vita, si ribella anche a quest'immutabile verità, e vuole rimanere inaccettabile in eterno, perchè, in un altrettanto inaccettabile paradosso che non vuole morire e che lo rende effettivamente tale, non accetta neppure sé stesso, negando che qualcosa che non sia “del tutto accettabile” sia mai esistito o che mai potrà esistere.
Se qualcuno ancora credesse che dalla sottotrama romantica tra Dan e Meg, seconda per critiche solo a quella erotica nell'ambito delle pellicole tratte da Lovecraft, ci si debba aspettare un “ammorbidimento” di questo inesorabile pessimismo meccanicista e disfattore di ogni certezza e preconcetto e che ci ha mostrato la nostra fagilità mentale con il grottesco, fisica con lo splatter e morale con il sesso, basta ritornare al punto della pellicola dove ci eravamo interrotti, ovvero alla sequenza concettualmente identica all'inizio-finale de La casa delle streghe, dove la casa viene (ri)messa in vendita (così come i racconti di Lovecraft erano soliti fare uso di una narrazione a ritroso degli eventi partendo da un finale già noto al narratore):
«la sanguinosa scena finale in cui Dan taglia con un'ascia il braccio del cadavere ustionato che sta strangolando Meg mantiene il ritmo incalzante riproponendo l'introduzione di Dan [che cercava di salvare  una paziente] nel reparto di rianimazione dove con altri medici tentano invano di rianimarla. Quando Dan usa il reagente [fig. 15], lo schermo diventa nero tranne per il fluido verde che lentamente scompare iniettato dalla siringa, un efficace impiego dell'animazione che, accompagnata dal ritorno del tema di Psyco e dall'urlo di Meg, fa calare il sipario» (Worland 251);
sequenza ispirata al finale del romanzo di Stephen King Pet Sematary (1983; Id) per aperta ammissione del regista. E sebbene Worland ritenga che «lo scioccante spettacolo della comicità oltraggiosa e dei macabri effetti alla fine allontanino dopo tutto Re-animator da un finale troppo cupo» (Ibidem), noi, per la prima e ultima volta, siamo in totale disaccordo con il critico: perchè se la forza motrice di Herbert West era costituita da un «anormale zelo scientifico nel prolungare la vita [che] era degenerato in semplice curiosità morbosa, in un gusto del colore macabro, […] in un'infernale e perversa devozione a tutto ciò che di ripugnante e mostruosamente anomalo esiste al mondo […], calmo e soddisfatto» (Lovecraft 256) come un bambino davanti alle sue bravate incarnata dal «viso infantile dalla mascella contratta per la tensione e lo sguardo penetrante» (Worland 246) di Combs, tale forza motrice pure lo rende fascinosamente istrionico e surreale; ma è Daniel Cain, il “tipo normale” in cui tutti si riconoscono dentro (e fuori) la pellicola, che non riesce pur con tutta la sua lucidità contrapposta alla follia (o e solo consapevolezza?) di West ad affrontare la scomparsa di una persona cara, non riesce, seppur conscio delle conseguenze, a impedirsi riusare il reagente, come se fosse veramente una droga, non riesce a porre la razionale visione di ciò che è reale sopra l'illusione di quello che vorrebbe che lo fosse (e che questo sia uno degli elementi fondamentali della letteratura weird lo dice Lovecraft stesso), riportare davvero in vita i morti, diversamente da West a cui in fondo interessa solo provare le sue teorie e godere sadisticamente dei suoi innominabili esperimenti.
Non riesce a non rimanere intrappolato in un disvelamento concentrico della propria ideologica devozione alla salvezza altrui in qualcosa di peggiore perfino delle distruttive ma insensate ricerche del mad doctor: «la difficoltà che si incontra nel cercare di non essere egoisti, nel cercare di resistere alla corruzione del cuore umano. […] Il voler piantare l'ago con il reagente nel collo della tua innamorata defunta pur sapendo che poi sarebbe tornata in vita come un mostro» (P. Zelati, American Nightmares. Conversazioni con i maestri del New Horror americano, cit., p. 499), questa la logica “commerciale” del produttore Brian Yuzna (talmente commerciale che non ha all'attivo un film da quasi dieci anni), dove perfino l'amore si rivela quale egoistico bisogno dell'altro nell'ostinato e illusivo rifiuto di Daniel della fragilità di Megan di fronte alla malattia e alla morte; tutto ciò è, dunque, solo un “tradimento” grotowskiano della forma dell'opera originale, cogliendone, quale che sia la visione di Rosati o di altri, la “vera essenza” e che un regista tanto di cinema che di teatro (a cui peraltro adesso si dedica esclusivamente e per cui ha realizzato perfino un'irresistibile versione musical on stage di questa sua opera prima) come Stuart Gordon non poteva non applicare (si pensi in ultimo luogo a quello che dice a proposito della trasferibilità temporale delle storie di Lovecraft per rispondere alle critiche sul non averle ambientate negli anni '20, dimostrando ancora una volta una comprensione della modernità anzitempo del corpus lovecraftiano maggiore di quella di tanti fan e critici).
Come Daniel Cain, nessuno riuscirà mai veramente accettare, se non a costo della propria sanità mentale, che «dietro le quinte della vita c'è qualcosa di funesto che fa del nostro mondo un'incubo» (Ligotti 161), a cui la morte ci permette di essere spettatori e allo stesso tempo, in un paradosso perturbante, ci dirige come attori: un'imperscrutabile recita cosmica in cui ci rivediamo come le scomposte marionette di un Grand Guignol grottesco e sanguinario, su cui solo il calare del sudario e sipario della morte stessa potrebbe misericordiosamente porre la parola fine.
Forse.
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.

giovedì 12 dicembre 2019

Re-Animator ed il cinema Lovecraftiano - Re-Animator Sviscerato: L'Ultimo Esperimento (Parte Prima)

ATTENZIONE: Questo articolo è il nono della serie ed il terzo del capitolo dedicato agli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore, consigliamo la lettura dei precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Quarto, Paragrafo Terzo
Cinema, letteratura e Cosmic Horror

Sperando di aver indotto nel lettore quantomeno un vago senso di rispetto per le pellicole finora trattate, è giunto finalmente il momento di chiedersi cos'è che le renda per la maggior parte e nella maggior parte dei casi così invise a molti dei sedicenti amanti e studiosi dell'opera di Howard Phillips Lovecraft, e quanto siano solide le basi su cui si fonda tale giudizio. Ovviamente il nostro discorso tenderà a far capo principalmente a Re-animator, ma la condivisione di stili e tematiche che, come visto, sussistono tra molte delle opere succitate permetterà di condurre un discorso più generalmente legato al moderno cinema “lovecraftiano” (termine con cui abbiamo finora inteso impunemente come “giustificabile anche dalla sola presenza di riferimenti narrativi ai racconti dello scrittore”, ma che adeso analizzeremo meglio) di Gordon e Yuzna, accennando pure a qualche altro esempio degno di nota di quella che abbiamo definito la “seconda wave” di questo cinema.
In realtà, ormai, chi non l'avesse si dovrebbe anche essere fatto un'idea generale piuttosto chiara dei temi stilistici e contenutistici ricorrenti nel corpus dello scrittore di Providence, spesso e volentieri diversi da quelli dello specifico racconto Herbert West – Rianimatore, e, pur non pretendendo di riuscire a sviscerarne in poche righe la compessità, si proverà quantomeno a compendiarne con sufficiente chiarezza il minimo comune denominatore, ovvero la primigenia concezione estetica da cui tutti sorgono; tale era il pensiero di Lovecraft in proposito:
«Per essere arte autentica, la narrativa weird deve anzitutto cercare di cristallizzare o simbolizzare un particolare stato d'animo – e non descrivere degli eventi, poiché gli eventi in questione sono naturalmente in larga misura fittizi e impossibili. Questi eventi dovrebbero restare sullo sfondo - l'atmosfera viene prima. Tutta la vera arte dovrebbe essere in qualche modo collegata con la verità, e nel caso del weird occorrere insistere sull'unico elemento capace di rappresentare la verità – certamente non gli eventi (!!!), ma lo stato d'animo legato all'intensa – per quanto sterile e illusoria – aspirazione dell'uomo a sconfiggere le leggi dell'universo e a trascendere l'esperienza umana.» (Teoria dell'orrore. Tutti gli scritti critici, G. de Turris (a cura di), cit., p. 519)

Come quello che potrebbe essere “cristallizzato e simbolizzato” attraverso l'idea della rianimazione dei morti. Lovecraft aveva principalmente affidato questa sua innovativa concezione estetica nell'ambito della fiction, più che semplicemente horror, “di cupa fantasia”, e che lui stesso definiva weird, accostando all'orrore per l'ignoto anche un più “romantico” sense of wonder (che palesemente in Re-animator non è più presente che nel suo racconto d'origine), ad un corpus narrativo la cui coerenza e consapevolezza diegetiche andarono sviluppandosi nel corso della sua vita (D. W. Mosig, Lovecraft mitografo, in I Miti di Cthulhu, G. de Turris – S. Fusco), fondamentalmente basato su di una 
«mitologia negativa di orrori multidimensionali a cui talvolta si da il nome di “Ciclo dei Grandi Antichi”, venuti sulla terra da altri mondi alla maniera degli ultracorpi e della Cosa […]: Dagon, Yog-Sothoth, e Shub-Niggurath […]. Lovecraft scrisse anche di esseri senza nome che è possibile comprendere soltanto tramite i loro attributi sensoriali, come l'entità che da il titolo al Colore venuto dallo spazio» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umanaa, cit., p. 182):
Un vero e proprio pantheon totalmente fittizio e assolutamente mostruoso, ricorrente personificazione della «posizione insignificante e priva di senso dell'uomo in un immenso universo meccanico e privo di scopo, governato da correnti di forze cieche e impersonali» (Mosig). Tuttavia, la conferma di quanto afferma Lovecraft, ovvero della poca rilevanza del contenuto narrativo in sé per giungere al suo ideale di letteratura weird, e che noi ci permettiamo di estendere all'horror puro e semplice in quanto considerabile un “sottogenere” della stessa, e della non necessità di mantenere suddetto schema mitologico o, più in generale, la specifica influenza di spaventose intelligenze aliene per il soddisfacente raggiungimento di un senso di orrore che sia effettivamente “cosmico”, se proprio non “lovecraftiano” come solo qualcosa scritto da Lovecraft stesso potrebbe essere, deriva dall'analisi che Ligotti fa di quella che, non a caso, avevamo definita una “detective story gotica”, dove sono le investigazioni del dottor Willett a portare alla luce ciò che è realmente accaduto a Charles Ward:
«il fatto che sia posseduto dal suo antenato Joseph Curwen, maestro di arti occulte, è soltanto funzionale a scopi più grandi, per raggiungere i quali è occorsa un'eternità […] - Il caso di Charles Dexter Ward emerge da un'immaginazione tutt'altro che ossequiosa verso tradizioni e dogmi, e il suo autore porta la disillusione al massimo grado possibile presupponendo lo stesso universo senza senso che diventerà poi il punto di partenza per diversi investigatori scientifici e filosofici» (Ligotti 117).
Anche qui emergono aspetti che ormai ben sappiamo essere propri dello stesso Re-animator, dall'intenzione di “spingersi oltre” che a ragione Paoli vedeva quale grande punto di d'incontro fra la sue sceneggiature outrè e l'elegante opera di Lovecraft, all'impiego della ricerca scentifica quale mezzo per svelare i meccanici e insensati ingranaggi che regolano esistenza umana all'interno di un cosmo “cieco e idiota” come il supremo dio Azathoth. 

Ma è pure giunto il momento di guardare all'altra faccia della medaglia, ovvero il passaggio concreto di questi concetti estetici e filosofici dalla letteratura al cinema: Rosati è tra quelli che hanno analizzato le dinamiche di tale passaggio, proprio in relazione all'opera di Lovecraft, dicendo che
«un'opera scritta non può rivivere completamente in un film, di essa è possibile far sopravvivere solo ciò che ne caratterizza l'essenza, il significato, incarnate dallo stile proprio a ogni autore. Nel nostro caso,  quello spesso ellittico di HPL, nel quale sovente si evita una descrizione diretta del mistero e dell'incubo, rende la riproposizione su pellicola della parola scritta un compito arduo, ma non impossibile. […] L'unico modo per fare ciò risiede nell'uso del movimento di pensiero tra le arti e la trasposizione costituisce proprio tale movimento. Ciò permette, durante la rivisitazione di un'opera in un'arte diversa da quella di partenza, il mantenimento del suo significato, sebbene cambino inevitabilmente molte caratteristiche: ad esempio, le descrizioni a focalizzazione zero di un racconto diventano discorso diretto in un film. In tale modo muta la forma dell'idea, ma non il senso» (R. Rosati, Lovecraft e il cinema, tra forzature e misinterpretazioni, in A. Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, cit., pp. 209-210).
Assolutamente niente da obbiettare, non fosse che subito dopo Rosati afferma che la potenzialità di Lovecraft di essere sottoposto ad un tale passaggio transmediale «è stata spesso accantonata, preferendole delle interpretazioni sensazionalistiche, con vari ammiccamenti alla sessualità»; tuttavia, se è vero che il «lavoro di decodificazione e riespressione di un concetto precedentemente sviluppato […] può beneficiare di una forma del tutto nuova: l'espressività di un'altra arte, e di conseguenza presentarsi al pubblico come un'opera del tutto rinnovata» (212), non è chiaro quanta influenza sul significato possa effettivamente avere una forma sensazionalistica o meno di tale decodifica, tanto più se ci muoviamo in un campo estetico dove gli eventi in sé possono dimostrarsi totalmente insignificanti. Un'interessante aggiunta al discorso è il fatto che Lovecraft stesso (nato 1989 e morto nel 1937) non fosse un grande estimatore dell'approccio che la neonata settima arte  aveva riservato al genere a lui tanto caro («Non permetterò mai che un testo con la mia firma venga banalizzato e volgarizzato in quella sorta di pastone infantile che passa per “horror” al cinema e alla radio!» (Tutti i racconti 1931 – 1936, a cura di G. Lippi, cit., p. 190), diceva), persino di ormai indiscutibili capolavori come Dracula (1931; Id), che non sopportò nemmeno di vedere per intero, e lo stesso Frankenstein di Whale, mentre ne apprezzò relativamente L'uomo invisibile, rendendoci così difficile immaginare con quale dei paragoni che abbiamo fatto di entrambi con Re-animator nel primo capitolo sarebbe stato d'accordo. Più in generale, egli era uno spettatore assiduo del cinematografo che però tendeva a considerare una superficiale distrazione (S.T. Joshi, A Dreamer and a Visionary: H.P. Lovecraft in His Time, cit., p. 105), eppure proprio lui una una volta scrisse che «[p]er il vero scrittore il linguaggio non è casualità o strumento utilitaristico, bensì la congiunzione del marmo e dello scalpello dello scultore» (Teoria 519): non possiamo che speculare sul se, col senno di poi delle teorizzazioni estetiche prodottesi fino ad oggi nel campo della settima arte, non avrebbe detto lo stesso del regista e del linguaggio della macchina da presa, del montaggio, della fotografia, ecc., acquisendo nuovi schemi di pensiero e metri di giudizio in materia. 
E benchè lo stesso Rosati sia disposto ad ammettere che «[p]iù che segnalare il valore cinematografico delle opere prese in considerazione» il suo scopo sia di individuare eventuali differenze con l'opera originale, proprio lui ci ha dato l'input per comprendere perchè ne La maschera di Innsmouth non si faccia mai accenno a condizioni metereologiche sfavorevoli, mentre in Dagon piova dall'inizio alla fine del film: i linguaggi sono diversi, e se quello letterario può indulgere in elaborati flussi di coscienza («non posso pensare al mare profondo senza rabbrividire all'idea degli esseri che, forse, in questo stesso momento, si trascinano e sguazzano sul fondo melmoso», da Dagon), quello cinematografico, che si fonda sull'immagine, dovrà logicamente perseguire un elemento visivo che ricordi costantemente una malsana atmosfera equorea, e la conseguente resa estetica dovrebbe avere un valore qualitativo totalmente a sé stante, sottoposta alle sole regole del linguaggio del nuovo medium, costituito appunto dalla regia a mano, la fotografia bluastra, il montaggio ecc. . 
Contrariamente, un film come La Cosa (1982; The Thing), costantemente esibito quale migliore e più fedele trasposizione dell'opera di Lovecraft al cinema e quintessenza dell'epiteto “lovecraftiano”  (B. Tolfa, Da “Le montagne della follia” a “La Cosa”, in A. Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, cit., pp. 79-106), non rispondebbe assolutamente a questa logica, essendo gli elementi davvero definibili tali, il mostro mutaforma e l'ambientazione (ant)artica che ricordano Le montagne della follia (1931; At the Mountains of Madness), più ascrivibili alla “forma” che non alla “sostanza” del molto più concreto e terreno terrore paranoico indotto dalla regia di Carpenter, dalle interazioni tra i personaggi e dal discorso socio-politico, questi ultimi due elementi che in Lovecraft contano praticamente poco o nulla; a maggior ragione, quest'analisi non rende il film meno un capolavoro del cinema o meno debitore dell'opera dello scrittore, e forse il problema sta proprio nell'intendere l'attributo “lovecraftiano” come uno spartiacque netto tra “trasposizioni” (o “versioni”, quando per Rosati sarebbero semplici “copie che smarriscono il senso”) e “ispirazioni”, nel concepirlo come un termine assoluto e un sinonimo di qualità, piuttosto che opinabilmente soggetto a sfumature di quantità e qualità: i primi minuti di From Beyond, i soli a “copiare” formalmente la novella, di certo non «si auto-impongono delle restrizioni, visto che non possono raccontare una storia diversa da quella a cui si ispirano, con il risultato quasi certo di non riuscirci completamente» (Rosati 213); né un'imposizione del genere può essere giustificata, in un'ottusa supremazia della mera forma sulla sostanza, dal fatto che il film rechi semplicemente lo stesso titolo del racconto. Abbiamo infatti visto come il resto della pellicola prenda una piega totalmente differente e a determinarne la qualità dovrebbero essere esclusivamente i fattori interni alla stessa ed al mezzo cinematografico, più o meno alla ricerca di un'atmosfera lovecraftiana o un orrore cosmico e, qualora lo fossero, influenti a seconda dei casi. Tra questi casi, ovviamente, non può non rientrare il concetto di irrapresentabilità dell'orrore, che, a voler essere onesti, è talmente rivoluzionario in Lovecraft da costituire sia la forma (qualora il mostro non venga descritto) che la sostanza (perchè il mostro non può essere descitto) della narrazione, quindi Buechler, che oltre a quelli di Re-animator aveva pure realizzato alcuni dei trucchi di From Beyond, è leggermente in errore quando afferma che da tale ellitticità dell'autore si possa trarre impunemente qualunque cosa; ad ogni modo, si può tranquillamente dire che lo affermi in buona fede ed essendo un make-up artist ha pieno diritto a non porsi limiti nelle proprie creazioni, derivanti o meno da altri: che le creature extradimensionali di From Beyond siano ben realizzate o meno e qual'è l'effetto che producano a seconda del modo in cui vengono usate rientrano, a nostro parere, in due ambiti di giudizio differenti, che peraltro già abbiamo trattato
Inoltre, i non-morti di Herbert West – Rianimatore e de Il caso di Charles Dexter Ward, o gli extraterrestri di Colui che sussurrava nelle tenebre, non sono certo difficilmente rappresentabili come le creature di Dall'altrove o L'innominabile, che, a loro volta, perlomeno hanno degli attributi plastici rispetto a quelle assolutamente estranee ai cinque sensi de La casa stregata o Il colore venuto dallo spazio, nella cui irrapresentabilità viene pienamente in essere la suddetta sovrapposizione tra forma e contenuto: diviene quindi chiaro che gli stessi racconti di Lovecraft possono essere “relativamente” lovecraftiani (sempre tornando a intendere il termine come di solito vorrebbero proprio i puristi) a seconda di quante e quali caratteristiche che hanno reso riconoscibile e rivoluzionaria la scrittura dell'autore (che mai avrebbe potuto fisicamente produrre due opere identiche) possieda l'opera in questione; si pensi del resto al fatto che l'entità che Lovecraft «descrive in dettaglio» (Ligotti 161) ne L'orrore di Dunwich (1928; The Dunwich Horror) e il Grande Cthulhu in persona ne Il richiamo di Cthulhu (1926; The Call of Cthulhu) vengano distrutta, la prima, e costretto, il secondo, a ritirarsi nella propria tana, lasciando, per amor della narrazione, per un attimo da parte la loro inconcepibile superiorità sull'uomo. È ovvio, insomma, che l'ostinarsi ad una misurazione, come spesso viene fatta, del “grado di lovecraftianità” per valutare un prodotto audiovisivo, ancor più che un'opera dell'autore dove la sua stessa “autorialità”  effettivamente potrebbe costituire un valido metro di giudizio, lascia veramente il tempo che trova ed è forse più assurda delle vicende dello stesso Re-animator: «in certi racconti gli elementi del ciclo mitico di Yog-Sothoth sono di importanza fondamentale, mentre in altri assumono un ruolo marginale, e in altri ancora sono assenti» (Mosig). Nel frattempo, film come Annientamento (2018; Annihilation) di Alex Garland continuano a rendere sempre più sottile la linea di demarcazione tra quelle entità aliene che un giorno potranno essere rappresentate sullo schermo e quelle che resteranno per sempre dominio esclusivo dell'immaginazione.
Rimane comunque difficile identificare da quale parte della linea di demarcazione che invece separa trasposizione e ispirazione si collochi un'opera come La Cosa: anche il primo episodio di  Necronomicon, The Drowned (“Il sommerso”), che da I topi nel muro (1923; The Rats in the Walls), in un modo simile a La casa stregata di Gordon che non stupisce viste le somiglianze tra i due racconti, mantiene solo la formale «struttura del racconto di fantasmi classico» (Lippi 3), che Lovecraft aveva piegato alla logica dei propri “miti”, ponendosi piuttosto come una trasposizione del connubio romantico tra eros e thanatos tipico di Edgar Allan Poe, in una versione à la Roger Corman dichiaratamente perseguita attraverso la gotica messa in scena e la figura dell'amata resuscitata dal mare, con l'aiuto del tomo maledetto; da notare che proprio il mostro “cthulhoide” (non ci si stupisca più, dunque, che alla fine venga poco lovecraftianamente “sconfitto” e ricacciato negli abissi) che emerge dal pavimento della magione sul mare di Drowned resta, grazie anche allo zampino del leggendario effettista Tom Savini, meglio realizzato dell'orrore finale, climax di molti racconti di Lovecraft, che si vedeva proprio ne La città dei mostri (1963; The Haunted Palace) di Corman, il cui difetto maggiore fu, ironicamente al contrario del proprio stesso epigono, il fingere di “fare il verso” a Poe, per  adeguarsi alla consolidata fama del ciclo cormaniano, tentando di adattare Lovecraft: così, il film potrà anche essere più narrativamente fedele di molti altri al racconto originale (sempre Il caso di Charles Dexter Ward, dal sapore gotico anch'esso e quindi di base più facilmente adattabile, come avevamo detto per The Resurrected), ma i “mostri” lovecraftiani, realizzati con il povero make-up dell'epoca, risultano totalmente fuori luogo (anche se non quanto “l'uomo radioattivo” del film successivo), il tutto salvato  dal solito Joseph Curwen interpretato magistralmente da Vincent Price. E lascia alquanto interdetti che, dopo tanto dire, Rosati possa, solo poichè Lovecraft «soleva definirsi sarcasticamente un gentiluomo dell'Ottocento» (211 - affermazione peraltro errata, ma probabilmente per una svista, era il '700 il secolo da lui prediletto), ritenere il solo stile goffamente goticizzante e manieristico di La morte dall'occhio di cristallo (1965; Die, Monster, Die!) sufficiente a ricreare lo “spirito lovecraftiano” (la regia, per cui in una scena addurittura Nick Adams si “nasconde” assurdamente in piena vista da Boris Karloff, non è di molto aiuto). Curti aveva già espresso un più che condivisibile giudizio su questa serie di film, di cui il migliore probabilmente è La porta sbarrata proprio perchè, ispirandosi in realtà ad uno dei tanti racconti che August Derleth spacciò spudoratamente per collaborazioni con Lovecraft (A. Derleth – H. P. Lovecraft, La lampada di Alhazred, G. de Turris – S. Fusco (a cura di), Fanucci, Roma 1977, p. 8), la trama inesistente e che nulla aveva a che fare con lo scrittore di Providence (se non un misero spunto iniziale) ha lasciato gli autori liberissimi di esprimere la propria creatività, e lo stesso Rosati, contraddicendo quanto poi dirà di Re-animator, riconduce la qualità della pellicola al suo fare «riferimento alla società dell'epoca con tutte le sue malcelate inquietudini e perversioni» (215); infine, Le messe nere ha un legame solo formale talmente labile con La casa delle streghe che ci pare superfluo fare confronti di qualunque tipo, mentre, in un'ennesima riprova del distacco tra qualità della pellicola e fedeltà all'originale,  Le vergini di Dunwich (1970; The Dunwich Horror) è al contempo un film certamente discreto ma un pessimo adattamento. Inoltre, il primo a voler trarre beneficio dall'opera scritta a cui diceva di ispirarsi e dal suo titolo fu proprio The Haunted Palace (si riveda sempre la citazione a Curti a inizio capitolo), e non Re-animator, come dice erroneamente Rosati (217), visto che il racconto di Lovecraft, racconta Joshi, era ancora misconosciuto all'epoca, tanto che Gordon lo consultò in una biblioteca di Chicago dove la rivista Weird Tales letteralmente «cadeva a pezzi» tra le sue mani, e, paradossalmente, visto che Gordon e Yuzna vollero creare un ciclo di pellicole tratte da Lovecraft proprio come già Corman aveva fatto con Poe, fosse per motivi commerciali o nostalgici.
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Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.