sabato 7 maggio 2022

Camminare nei sogni (Recensione di ''Doctor Strange nel Multiverso della Follia'')

A quasi dieci anni dal suo ultimo film Sam Raimi torna dietro la macchina da presa per un blockbuster d'intrattenimento targato Disney e lo fa con creatività, straordinaria destrezza e rinnovato amore per il genere, seppure ancorato ad un contesto produttivo-narrativo alle volte stringente e al servizio di una sceneggiatura non brillante. 

Facciamo un passo indietro e partiamo col precisare che in questa sede parleremo di Doctor Strange nel Multiverso della Follia in quanto prodotto a sé senza concentrarci sul più ampio mosaico crossmediale a cui appartiene, cioè il Marvel Cinematic Universe, con tutte le implicazioni e le problematiche in cui incorreremo proprio a causa del contesto per cui è stato pensato e realizzato, come vedremo più avanti; procediamo chiarendo quella che è la natura del seguente articolo ossia opinioni a briglia sciolta e decisamente a caldo da parte di chi scrive, basate su una singola visione in sala ma con l'obiettivo di cercare di dare una sistemazione quanto più possibilmente compiuta e ponderata ai diversi spunti offerti; spendiamo qualche parola anche sul Doctor Strange (2016) di Scott Derrickson, tassello del grande disegno Marvel Studios che nonostante il buon successo di pubblico e critica col tempo è stato abbastanza dimenticato e trattato con sufficenza dai più, mentre in realtà aveva già dimostrato come il personaggio e la sua mitologia (nelle mani di un buon mestierante, che si era fatto le ossa nell'horror) si sposassero particolarmente bene ad un'atmosfera più stregata ed onirica rispetto allo standard, pur basandosi su degli stilemi e una struttura in piena linea con il resto della gestione.
Potremmo iniziare dicendo che il film uscito lo scorso mercoledì nelle nostre sale, sotto questo punto di vista, sia un sequel del primo nel senso stretto del termine: tanto più grande e variegato quanto simile. Non è un caso che l'idea di tinteggiare Doctor Strange 2 come il primo horror PG-13 di casa Marvel fosse partita proprio da Derrickson in fase di pre-produzione, salvo poi abbandonare la regia e ricoprire il solo ruolo di produttore esecutivo a causa di divergenze creative. Così come non è stata casuale la scelta di offrire a quel punto la regia a Raimi, anzi potremmo dire che la chiave del successo del prodotto parte proprio da un colpaccio ben assestato da parte di Kevin Feige. Sam Raimi è la personificazione di quei rari casi in cui un autore arriva al punto di essere talmente consolidato e riconoscibile da ottenere la legittimazione di diverse fanbase contemporaneamente (nel suo caso è sia un baluardo dell'orrore per quanto riguarda la saga di Evil Dead, che uno dei padri del cinefumetto supereroistico contemporaneo per la trilogia di Spider-Man), di ciò Feige e il suo team erano consci e intercettando questa percezione sono stati in grado di presentare un lungometraggio che solo per le premesse potesse attirare fasce di pubblico differenti.

Questo film quindi è un'opera autoriale? Sam Raimi allo stato puro? No e sì. Togliamo immediatamente il dubbio ai tanti appassionati, come il sottoscritto, che all'annuncio erano dubbiosi circa le possibilità espressive di un regista di questo calibro nel MCU. Sotto il profilo tecnico e stilistico è ineccepibile, indubbiamente quanto di meglio ci è stato presentato fino ad ora. 
È difficile crederci ma effettivamente i produttori Disney non hanno messo bocca né sulla realizzazione di tale spettacolo visivo né hanno tentato di imbrigliare la strabordante personalità artistica di un Raimi carico più che mai, che corre continuamente sul filo del rasoio del visto censura talvolta scivolando e tagliandosi di fronte agli occhi attoniti degli spettatori che mai si sarebbero aspettati certi risvolti nel confortevole universo condiviso imparato a conoscere. Mutilazioni, possessioni demoniache, cadaveri che tornano alla vita, trafitture e jumpscare forniscono una ventata d'aria fresca in un filone che va sempre più ad assestarsi sulla riproposizione facile e sicura di ciò che il pubblico di riferimento esige. Così come risultano curati e galvanizzanti il montaggio, la fotografia, gli effetti visivi e speciali e la colonna sonora ad opera di un Danny Elfman in stato di grazia (degna di nota una sequenza in particolare, in cui il regista e il compositore lavorano a stretto contatto regalandoci un momento memorabile).

È chiaro che talvolta il confine tra l'autocitazionismo e il manierismo sia molto labile ma complessivamente i diversi marchi di fabbrica del regista finiscono per risultare come eccellenti esercizi di stile sapientemente pensati e costruiti, non accomunabili a operazioni commerciali di spicciolo fanservice nostalgico, come il recente Spider-Man: No Way Home (2021).
Il personaggio di Stephen Strange dimostra nuovamente quanto sia efficace e versatile, il mondo di streghe e stregoni di Kamar Taj viene trattato con i guanti da un Raimi che non ha mai nascosto di apprezzare questo tipo di narrativa popolare e anche stavolta non cela un approccio genuinamente divertito. Largamente promossa anche la rediviva Wanda Maximoff, che diventa un personaggio chiave dall'impatto e dalla presenza scenica come mai prima d'ora. 

Il controaltare di un cinema di intrattenimento più unico che raro di questi tempi, talmente potente che sarebbe in grado di parlare solamente per immagini, purtroppo però è una sceneggiatura non disastrosa ma nemmeno pienamente convincente per mano di Michael Waldron. L'incedere degli eventi risulta frammentato, a tratti sommario e superficiale, altalenante, abbastanza frettoloso tanto che per qualcuno potrà apparire anticlimatico. Ciò che manca, probabilmente, è qualche momento di distensione che permetta ai personaggi di respirare e che favoreggi il pieno coinvolgimento emotivo di chi guarda. La parte centrale in particolar modo uccide momentaneamente il ritmo, mettendo in luce la difficile coesistenza di necessità differenti quali la gestione del singolo film e l'appagamento della specifica audience di riferimento. I tanto attesi ''Illuminati'', oltre ad essere la parte meno interessante a livello tecnico (palese frutto di reshoot imposti dalla produzione a riprese terminate ad un Raimi discretamente disinteressato), sono pressoché inutili ai fini della narrazione. 
Altro grande problema è quel che rappresenta Doctor Strange nel Multiverso della Follia per la macrotrama Marvel: questa storia risulterà di difficile comprensione per coloro che non hanno guardato la miniserie Disney+ WandaVision (2021), essendo profondamente collegata ad essa. Raimi prova in più di un'occasione a rendere il retroterra di ciò che accade accessibile a chiunque, ma non ci riesce mai del tutto dato il complesso meccanismo narrativo ormai collaudato da tempo, il che risulta fuorviante. Per molte persone sicuramente questa impostazione non sarà di difficile digestione ma, sempre a detta di chi scrive, è un presupposto tremendamente sbagliato su cui imbastire un racconto arzigogolato a sua volta.

Insomma per concludere, l'ultima fatica di Sam Raimi nonchè il ventottesimo capitolo del Marvel Cinematic Universe è uno spettacolo appagante, girato con intelligenza e notevole padronanza del mezzo. Un prodotto di grande intrattenimento molto divertente, fantasioso e mai stancante che però si trascina appresso qualche elemento problematico. Un film sbilanciato e quasi anarchico, come il titolo promette, che potrebbe catturare molti spettatori e lasciarne perplessi altrettanti.

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