giovedì 19 dicembre 2019

Il lupo che non amava il Natale (Analisi di "Hold the Dark")

Il Natale non esiste. È solamente un artificio computazionale, rituale e sociale dal tempo della Roma Antica, diventato col tempo sempre più buono per tirare fuori il peggio e i soldi dalle persone. Ve l'avranno già detto in tutte le salse e non sarò certo io a metterne altre su questa leccornia con ripieno di escrementi. Anche perchè il quarto lungometraggio di Jeremy Saulnier da noi sciaguratamente distribuito da Netflix, Hold the Dark (2018), lo ricorda in una maniera così sottile ma inequivocabile che parla da sé pur non parlandone affatto.
Chiariamo subito che non condivido l'opinione generale per cui il film sia più di tanto ermetico, come non condivido quella appena un po' meno diffusa per cui non valga granchè rispetto ai precedenti Blue Ruin (2014) e Green Room (2016; identico discorso era stato fatto per quest'ultimo in paragone al primo): certamente più “quadrata” dei predecessori in un una distinzione maggiore fra personaggi più o meno positivi, in una risoluzione finale meno pessimista e aperta ed in una narrazione meno anarchica e sui generis (benchè lo stesso regista vi riconosca una compenetrazione di thriller, avventura e, come ovviamente vedremo, horror), la pellicola fornisce forse anche troppo pratiche chiavi di lettura a quei “misteri irrisolti” che non trovino già risposta nell'omonimo libro di William Giraldi da cui è tratto, inedito in Italia (niente paragoni oggi, anche perchè mi sono rotto il cazzo). Ma questi discorsi li riprendermo tra un attimo. Per ora basti sapere che il regista rimane fedele alla sua caustica sfiducia nel genere umano ed al proprio spiccato senso estetico, dovuto al proprio background da direttore della fotografia, e che Hold the Dark è la sua prima esperienza con una storia slegata dall'ambientazione circoscritta che si era spesso e (non) volentieri trascinato dietro dal suo esordio indipendente, Murder Party (2007). E benchè , come ho detto, i toni si riscaldino, le tonalità si raffreddano rispetto al “blu” e al “verde” dei film precedenti, in questo thriller su neve ambientato in Alaska, dove un naturalista in pensione, Russel Core (interpretato da Jeffrey Wright), si reca nello sperdito villaggio di Keelut in aiuto di una donna, Medora (Riley Keough) che imputa ad un branco di lupi la scomparsa del figlio; ma quando la madre scompare lasciandosi dietro il cadavere del figlio strangolato, ciò porterà alla follia omicida del marito, Vernon Slone (interpretato da Alexander Skarsgård), di ritorno dalla guerra in Falluja, che si imbarcherà in una rancorosa ricerca della consorte che il naturalista e lo sceriffo del centro abitato più vicino (James Badhe Dale) proveranno a fermare.
Poichè, essendo stato distribuito solo l'anno scorso e tuttora fruibilissimo sull'arcinota piattaforma streaming, vorrei portare alla visione del film quei molti che immagino non l'abbiano ancora visto, eviterò spoiler su quanto avviene nella parte della pellicola successiva a quella finora raccontata (e nel caso consideriate spoiler anche questo, fatevi curare), limitando al massimo la comprensibilità del contesto narrativo di quei pochi che sarò costretto ad accennare.
Cominciamo dando subito per scontato che già è stato moltissime volte sottolineato come il film sia, forse anche in una forma esageratamente esplicita e retorica, uno scorcio, fortunatamente anche e soprattutto visivo, su quel “dark” cui fa riferimento il titolo, il buio figurato che cela dentro ogni essere umano quel lato bestiale che il buio letterale delle zone artiche portato alla luce nella madre e nel padre del ragazzino solo apparentemente rapito dai lupi.
Ma mentre in molti si sono prodigati a sviscerare le più oscure motivazioni di questi due personaggi attraverso la loro backstory presente nel libro ed interpretando i vari riferimenti alla ferinità insita nell'essere umano attraverso i dialoghi, io vorrei soffermarmi sul suo emergere in un contesto più prettamente visivo, sempre altamente efficace ma, come ho già suggerito più volte, che avrebbe giovato di una minore enfasi e semplificazione sul piano testuale. Ed il primo shock visivo avviene senz'altro quando, ad un quarto d'ora dall'inizio, dall'ambientazione nordamericana si passa a quella asiatica, interrompendo per un attimo il racconto dell'arrivo del Russel a Keelut in favore di quello che spiega il congedo da Faluja di Vernon, introdotto per la prima volta coperto da un mascherone militare accompagnato da sciarpa e casco (ad anticipazione della maschera che indosserà poi) in un'ambientazione caratterizzata da colori caldi ed in una situazione, dopo che Vernon si è scoperto il volto identificandosi immediatamente come protagonista della sequenza, non manca di avvicinare emotivamente lo spettatore a questo nuovo personaggio: il soldato assiste, attraverso una finestra che in un gioco di campi e controcampi non può non indurre la partecipazione di un osservatore posto a sua volta dinanzi ad uno schermo, allo stupro di una donna indigena da parte di un soldato “amico”; Vernon entra di soppiatto, seguito a distanza ravvicinata dalla macchina da presa, ed accoltella l'uomo senza ferirlo mortalmente, per poi lasciarlo alla giustizia della donna stuprata. 
Che possiamo o meno giustificarlo, Vernon in questa scena (seppure anch'essa, come il dettaglio della maschera, prelude alla sua “caccia”) ha tutta la nostra “comprensione”, come del resto nell'unica altra scena non dominata da colori freddi della pellicola, un brevissimo flashback che ci mostra un momento idilliaco tra Vernon ed il figlioletto di cui ha appena appreso la morte: da qui in poi sarà impossibile “comprendere” Vernon, dal momento che le uccisioni che compie, nel primo caso improvvise, inaspettate e quasi ingiustificate, nel secondo e nel terzo neanche mostrate e nel terzo e nel quarto ormai celandosi sotto una maschera di legno del volto di un lupo (che pure aveva indossato la moglie durante un inquetante tentativo di seduzione nei confronti di Russel), rendendoci perturbantemente estraneo questo personaggio che, dopo quell'episodio introduttico che sembrava restituire un suo pur brutale codice morale, non riusciamo a capire nel suo indiscriminato uccidere chiunque (come Malcom Blair, sceneggiatore e attore feticcio di Saulnier), quale che sia il suo attegiamento nei suoi confronti, si trovi davanti mentre e in cerca della moglie tra i boschi: il tutto è mediato, peraltro, dalla potentissima recitazione di uno Skarsgård totalmente fuori di senno, di cui, come sottolinea un'inquadratura che lo vede al volante della propria macchina mentre non presta attenzione al paesaggio cui l'inquadratura e il nostro sguardo stessi si posano, ci è impossibile seguire il percorso del suo sguardo vacuo e vitreo.
Andando avanti per questa strada, che finisce per avvicinare moltissimo l'opera sul piano estetico al nostro genere preferito (il finale “smascheramento” di Vernon ricorda perfino quello di Michael Myers), genere che Saulnier non ha mai rinnegato soprattutto nella violenza grafica, ci rendiamo conto come non sia il concretizzarsi della superstizione del villaggio riguardo ad un fantomatico demone-lupo impossessatosi di Medora a determinare l'agire dei personaggi, ma la causa stessa di tale regime superstizioso, il posizionamento, più volte sottolineato nel corso del film, del villaggio di Keelut oltre i limiti del mondo civilizzato (i personaggi non conoscono San Diego o non hanno mai visto il mare) che, oltre a spiegare concretamente la psicologia della comunità, permette di instaurare quel clima di puro terrore latente passando dagli sconfinati panorami innevati all'illuminazione degli interni, spesso simile a quella di un fuoco da campo nella notte dei gelidi boschi canadesi, come quello che compare nel climax del racconto Il Wendigo (1910) di Algernon Blackwood: lo stesso Lovecraft lo definiva un maestro nella fabbricazione di novelle il cui protagonista fosse il mood prodotto da un'ambientazione che solo suggerisva l'agency di forze sovrannaturali, che in questo caso sbricianìvano sullo sfondo della ricerca da parte di un gruppo di cacciatori di un loro compagno disperso nei boschi freddi e buii; questo personaggio, in una manipolazione della celebre leggenda dei nativi americani che vede uomini trasformarsi in cannibali piegata alla sottile ambiguità di Blackwood, subisce prima una inquietantemente poco evidente mutazione fisica nei piedi, dopodichè viene ritrovato fuori di senno e con i piedi nudi in cancrena per il freddo. Come Vernon e Medora, la vicinanza alle potenze cosmiche che possono essere intraviste nell'assenza umana e nella natura selvaggia è stata più che sufficiente a farlo impazzire, o, come dice il proverbiale nativo americano del racconto (di cui c'è un'anziana rappresentante femminile pure nel film di Saulnier), a “vedere il Wendigo”.
Quest'analogia è ovviamente giustificata anche dalle interpretazioni finora fatte da altri, a cui il film si presta particolarmente ed intenzionalmente, ma ci sono un paio di punti particolarmente criptici che, a questo punto, mi concedo di vedere come strettamente connessi al cosmic horror del racconto di Blackwood: anzitutto il riferimento fatto a Russel da Medora riguardo a “qualcosa di strano nel cielo”, prima in sogno e poi nella realtà, come se la donna avesse un'impossibile consapevolezza dei sogni del nostro protagonista (e chi conosce il weird o la narrativa cosìdetta “lovecraftiana” sa quanto questa indistinguibilità sia importante nella creazione dell'atmosfera), e come se la responsabilità di tutto fosse da imputare, piuttosto che alla sola innaturalmente lunga notte artica, all'imperscrutabile e cieco disegno dei vuoti cosmici, che peraltro essa suggerisce;  inoltre ricorre, con un'evidenza superiore alla sua rilevanza narrativa, il fatto che Russel indossi per tutto il film gli stivali da neve di Vernon, che Medora gli aveva offerto quando per la prima volta si era recato in casa sua, e che non è difficile associare al comportamento “sano” ed empatizzabile del protagonista a quello “insano” e distante del killer con la maschera di lupo (o di Wendigo), se si pensa, come suggerisce M. Grant Kellermeyer, che nel racconto stesso di Blackwood la perdita di contatto con la realtà era sottolineata dalla perdita dei piedi.
Per concludere, voglio spingermi un po' oltre il confine dell'interpretazione e notare come, a discapito dell'ovvia metafora che il film pare restituire così chiaramente, l'ordine naturale non preveda affatto la vendetta premeditata che Vernon pare perseguire nei confronti di Medora (perdonatemi se, invece di citare fonti scientifiche, faccio riferimento a Herman Melville quando dice che «provare rancore per una bestia bruta che agisce per puro istinto è blasfemo»), anche perchè mi sembra che questo possa dare una spiegazione più che soddisfacente ad altre due delle scene più sibilline della pellicola: il primo incontro del naturalista con un branco di lupi durante l'iniziale ricerca del bambino scomparso (prima che si venga a sapere che questi giace morto nella cantina di casa propria), ripreso poi in maniera speculare verso il finale, dove marito e moglie si riconciliano inspiegabilmente; i lupi, spiega Russel allo sceriffo («Qui non stiamo parlando di animali, signor Core». «Se lo dice lei»), possono alle volte uccidere i loro stessi cuccioli, ma non sono in grado di concepire linee temporali a lungo termine, come fa invece Chion, un amico di Vernon, quando vede nell'incapacità della polizia di fare fronte alla morte di un bambino “la morte del futuro”; questo rancore condiviso dallo stesso Vernon, che Chion aiuta in una strage graficamente esplicita ed ottimamente diretta dove vanno notati i numerosi primi piani di lupi a mo' di testimoni interdetti della vicenda (e dove l'interno buio della casa di Chion contrasta con quello luminoso che in altre occasioni avevamo visto opporsi al buio dell'esterno), è il “figlio incestuoso” di una fase impura e transitoria tra l'uomo e l'animale, che arriva invece a compimento solo quando Vernon “perdona” Medora (nella stesssa caverna dove erano stati visti fare l'amore in un brevissimo flashback, ennesimo rimando ad una “ferinità” positiva per quanto mi riguarda) e fugge insieme a lei (in montaggio alternato, due lupi corrono nella direzione inversa), “graziando” Russel proprio come il branco dell'inizio della pellicola.
Proprio l'unico momento di umanità di Vernon lo si vedeva in quel famoso flashback in cui era reduce insieme al figlio dall'uccisione di un cervo («è stato bellissimo» commenta il ragazzino), un comportamento simile a quello dei lupi verso i cuccioli del branco, a definitva riprova che la selvaggia e cosmica perdita dell'umanità messa in scena da Saulnier non è negativa in sè, ma lo è solo dal limitato punto di vista dell'essere umano, travisata dai suoi sentimenti artificiali ed innaturali come l'odio e la vendetta; e innaturali ed artificiali come il Natale: in una delle primissime inquadrature, quando Russel lascia casa propria, delle luci natalizie ci ricordano qual'è il periodo dell'anno per il resto del mondo, ma non per il piccolo villaggio di Keelut, Alaska, dove è sempre “inverno” e dove, per questo, l'illusione del Natale non può sussistere. E mentre Vernon e Medora si elevano più che abbassarsi allo stato di animali, Russel torna alle noiose sicurezze della vita normale che facciamo tutti (rappresentate dalla figlia che per tutta la pellicola desiderava poter andare a trovare), dove le luci natalizie dell'inizio, che tanto vi piacciono perchè “tengono alla larga il buio” della vera natura delle cose che siete voi stessi, ci vengono invece ricordate, in modo decisamente poco casuale, da una radio che trasmette Please come home for Christmas in maniera appena percettibile, prima che si trasformi nel tema dei titoli di coda (niente da dire sulle ottime musiche). 
Allo stesso modo, così vi vengono ricordate quelle parole così fuori luogo che scrissi all'inizio, e cioè che, fondamentalmente, il Natale non esiste. 
Buon Natale di merda a tutti.

Articolo di Donato Martiello

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