martedì 15 ottobre 2019

L'Italia delle maschere e dei coltelli (Recensione “Camping del Terrore”)

Pisa, 24 Settembre 2019. Pupi Avati è ospite al Cinema Arsenale per presentare il suo “Il signor Diavolo”, e il sottoscritto, studente fuori sede di Discipline dello Spettacolo proprio all'Università di Pisa, decide di sfruttare l'occasione. Alle ore 20:30 si trova di fronte alla biglietteria, non sapendo che gli aspetta una cocente delusione: “Mi spiace, ma i biglietti sono terminati dieci minuti fa...” queste le parole del ragazzo al bancone.

E così, la speranza di vedere il maestro Avati presentare il suo ultimo film di fronte allo schermo di un cinema si è limitata nel vederlo sorseggiare un bicchiere di vino ad un tavolo del bar adiacente, con una fila infinita di persone pronte a farsi firmare il consueto autografo. Mentre mi sto preparando ad uscire noto un banchetto di libri a fianco della biglietteria, e, dietro al banco, Claudio Bartolini, scrittore, redattore di “Film TV” e collaboratore di “Nocturno”, intento a vendere alcuni dei suoi scritti, fra cui “Il Gotico Padano: Dialogo con Pupi Avati”. Mi avvicino ed iniziamo una breve conversazione. Parliamo dei suoi libri che ha in vendita, della storica convention di CinemAmarcord a Milano, svoltasi alla fine di Settembre, e, soprattutto, di Horror Moth.

Avendolo citato nella mia primissima recensione su questo portale, ovvero quella sullo splendido “Il profumo della signora in nero” (potete leggerlo cliccando qui), inizio a parlargli anche degli altri film di cui ho trattato: Démoni, Quella villa accanto al cimitero e Apocalypse Domani. Bei film, certo, ma, come mi faceva notare il buon Claudio, forse pellicole di cui si parla già abbastanza. E allora mi chiede: Perché non parli di “Camping del terrore” di Deodato
In effetti, quando si affronta Deodato ci si sofferma principalmente sui suoi Cannibal Movie, soprattutto su “Cannibal Holocaust”, opera di culto e ormai conosciuta in tutto il mondo, lasciando in ombra altre sue pellicole come, appunto, questo slasher del 1986. Tuttavia, parto con una premessa: questo “Camping del terrore” non vale assolutamente “Cannibal Holocaust” né tantomeno altre pellicole di Deodato. Direi, anzi, che ci troviamo di fronte ad un film piuttosto debole in diversi frangenti, che vive più di momenti e situazioni frammentarie che di una sceneggiatura convincente e lineare.
Scritto da Alessandro Capone (inizialmente offertosi come regista) e dal veterano e maestro Dardano Sacchetti, la pellicola esce nelle sale statunitensi nel 1986, col titolo “Bodycount”, e grazie al successo ricevuto oltreoceano, il 15 maggio 1987 la Titanus distribuisce il film anche nel suo paese natìo.
La storia è quella tipica di quasi ogni slasher nato dal successo di “Venerdì 13”: In un camping del Colorado, vengono consumati dei brutali omicidi ad opera di un presunto “sciamano” mascherato, poi scomparso nel nulla. Almeno fino a quando, 15 anni dopo, un gruppo di ragazzi non decide di concedersi dei giorni di svago proprio in questo vecchio teatro di morte... Il film parte subito col botto, senza dare spazio alla caratterizzazione o allo sviluppo psicologico dei personaggi in scena. Già nei primi cinque minuti, infatti, assistiamo ad un omicidio girato con maestria: il montaggio rapido e serrato si alterna alle lente soggettive del serial killer, che insegue tra i fitti alberi del bosco una giovane ragazza, che, ormai senza speranza, si nasconde in un tronco d'albero, per poi venire uccisa fuori campo. Il suo ragazzo corre in suo aiuto ma subisce la stessa brutale sorte della fidanzata, venendo fatto fuori da un coltello piantato con violenza sul collo. Possiamo già dire, purtroppo, che è proprio il picco più alto che il film raggiunge, visto che da questo momento in poi assistiamo ad una lenta digressione qualitativa.

Un brusco stacco che ci proietta nel camper dei veri protagonisti del film, 15 anni dopo, e qui prendiamo visione di uno dei pochi punti di forza del film: l'ambientazione. Deodato sfrutta al meglio la sconfinata vegetazione che circonda il camping, dando risalto alle simmetrie dei faggi e ai panorami visibili dalle alture rocciose, trasformandoli in teatri nei quali si consumano gli spietati omicidi, tutto questo anche grazie al gusto che il regista romano ha nel comporre l'inquadratura, una capacità già dimostrata in altre sue pellicole, anche di maggior qualità.
Tuttavia, nonostante la presenza di Sacchetti dietro la macchina da scrivere, la sceneggiatura è veramente troppo debole e frettolosa, non soltanto per quanto riguarda la psicologia dei personaggi, ovviamente stereotipati, ma anche per una successione degli eventi troppo frammentaria. Non c'è collante fra gli omicidi e manca una qualsiasi “tensione” fra i personaggi, che non si chiedono mai come mai, ad esempio, i due amici partiti per un'escursione non si facciano più vivi.

Come tanti slasher, è un film che si regge in piedi esclusivamente grazie alle scene di omicidio (non è un caso, infatti, che il titolo estero sia “Bodycount”), in alcuni casi visiviamente ben realizzate, come quella dell'assassino che fuoriesce dallo specchio, uccidendo la malcapitata con i vetri appena infranti, fattori che, tuttavia, non salvano il film dalla mediocrità, così come le ottime musiche del grande Claudio Simonetti, veramente notevoli e funzionali alle scene più truculente.

Spesso non convincono neanche le prove attoriali che, ad eccezione dell'ottima Mimsy Farmer, sfociano in reazioni spesso sopra le righe (come quella in cui Stafano Madia reagisce alla notevole scena in cui Nancy Brilli si becca una coltellata dietro alla nuca).

Per evitare un'eccessiva monotonia gli sceneggiatori giocano anche la carta del giallo, dando indizi allo spettatore con l'unico scopo di fuorviarlo, non riuscendoci del tutto, visto che la (doppia) soluzione finale si rivela eccessivamente telefonata, portando poi la pellicola alla troppo brusca interruzione dei titoli di coda.
Un film che forse rappresenta un'occasione sprecata, probabilmente anche a causa del periodo in cui è uscito, dove lo slasher si stava avviando verso un quasi irrecuperabile decadimento, diventando un genere di cui si era già detto abbastanza, non offrendo più spunti interessanti. 
Articolo di Andrea Gentili

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