venerdì 9 aprile 2021

In Name Only - I sequel apocrifi come strategia di marketing

INTRODUZIONE

Sin dalle origini del cinema, la pratica dei sequel cinematografici ha sempre trovato ampio spazio nelle grandi produzioni, riprendendo, d’altronde, una tradizione già profondamente radicata in secoli e secoli di letteratura. Che si parli di celluloide o di carta stampata, ciò che porta i produttori (o gli editori) ad intraprendere la strada del seguito è, ovviamente, l’eventuale popolarità che l’opera in questione è riuscita a guadagnarsi, conferendole di conseguenza il titolo di “opera prima” di un progetto seriale più ampio ed in grado di garantire un (quasi) sicuro successo fra gli spettatori/lettori.


Nel caso del cinema, al centro del processo di “sequelizzazione” vi è senza dubbio il rapporto diretto fra produzione e pubblico, un rapporto dalla natura profondamente collaborativa e per certi versi persino interattiva. È per rispondere alle esigenze di chi guarda che i detentori dei diritti di una certa pellicola decidono di realizzarne il seguito (o i seguiti), sfruttando quella sorta di “necessità seriale” che avvolge il pubblico dopo la visione, una necessità ovviamente eventuale e dettata dal feedback in funzione dell’attaccamento per certi versi affettuoso che il pubblico arriva a provare per i personaggi, per gli eventi, per le ambientazioni, per le musiche, per tutto ciò che va a formare profondamente l’identità dell’opera stessa.

Ovviamente ci sono casi in cui questa “necessità seriale” viene innestata strategicamente nel fruitore, con l’inserimento dei cosiddetti finali aperti, soprattutto attraverso la pratica del cliffhanger, in grado di spalancare le porte ai possibili film successivi, operazione per certi versi attuata “alla cieca”, figlia della speranza nel riscontro positivo del pubblico, in modo da non andare incontro alla cancellazione dei progetti futuri già opportunamente programmati.


Tuttavia, il feedback positivo per una determinata pellicola può portare anche ad un “corto circuito” del rodato meccanismo di serializzazione delle opere. Ci sono casi, infatti, in cui una casa di produzione totalmente esterna al processo produttivo di una determinata opera prima o di un franchise, decida di realizzare un film che apparentemente va a ricollegarvisi pur non avendo, in fin dei conti, nessun elemento narrativo da spartirvi. È il fenomeno dei sequel apocrifi, già appartenente da tempo al mondo della letteratura, e presente nel territorio della settima arte in una doppia veste: ci sono i sequel apocrifi che nascono come tali, che chiameremo “apocrifi originari” e quelli che lo diventano soltanto successivamente a furbe operazioni di retitolazione in seguito alla distribuzione del film nei mercati stranieri, che chiameremo apocrifi derivativi”.


In questo lavoro approfondiremo l’aspetto marcatamente strategico di entrambi i casi, analizzandoli come operazioni di marketing, soffermandosi in particolar modo sui numerosi esempi del cinema di genere italiano, oltre che sulle molte operazioni di importazione nel nostro paese di pellicole di altre nazioni opportunamente retitolate in modo da renderle passabili come  sequel.

1.  IL FASCINO ITALIANO PER IL “NON-UFFICIALE”

1.1  I seguiti apocrifi negli horror della Penisola

È indubbio come l’Italia sia stato il territorio all’interno del quale, più di ogni altro, la tradizione del sequel apocrifo ha trovato ampia strada, in particolar modo durante il periodo di massimo splendore del proprio cinema di genere, fra la fine degli anni ‘60 e la fine degli ’80. Il motivo di questa strana proliferazione è sicuramente l’estrema leggerezza con la quale le norme sul diritto d’autore venivano applicate nel territorio italiano, un aspetto che ha portato numerose case di produzione, come la Filmirage di Joe D’Amato, ad approfittare del successo di alcune delle più popolari pellicole (o saghe) statunitensi del periodo, concentrandosi in particolar modo sul prolifico genere horror. Uno dei casi più clamorosi (e sicuramente più popolari) e che in un certo senso contribuirà ad una sorta di propagazione di questo fenomeno è Zombi 2, diretto da Lucio Fulci (qui al suo debutto nel genere che poi lo renderà famoso in tutto il mondo) e distribuito nel 1979 dalla Variety Film di Ugo Tucci.


Il film si pone, difatti, come il seguito diretto del celebre Zombi (Dawn of the Dead, 1978) di George A. Romero arrivato in sala appena 10 mesi prima, senza tuttavia collegarvisi narrativamente. È quindi indubbio che il “2” posto dopo il titolo, elemento che già di per sé definisce un film in quanto seguito, fosse una trovata di marketing per certi versi estremamente ingannevole, ma che contribuì alla costruzione di un’ampia cerchia di interessa intorno alla pellicola oltre che al suo conseguente grande successo, che la porterà ad incassare 1,5 miliardi di lire, a fronte di un budget di 400 milioni.


Per infondere ancora più profondamente l’idea che il film in questione si trattasse di un vero e proprio sequel, i distributori andarono ovviamente ad agire in quello che, negli anni ’70 più di oggi, era uno degli strumenti pubblicitari tra i più fondamentali: la locandina. Nella parte alta del manifesto di Zombi 2, è possibile leggere la tagline che recita: …quando i morti usciranno dalla tomba, i vivi saranno il loro sangue…”, un’espressione che indubbiamente ricorda, per assonanza, la frase che accompagnava i manifesti italiani di Zombi di Romero, una questione che portò quest’ultimo ad accusare Fulci di plagio.


Un caso simile (che, come il precedente, rappresenta quindi un esempio di apocrifo originario è quello che si verifica l’anno dopo con Alien 2 – Sulla terra, fanta-horror diretto da Ciro Ippolito che, ovviamente, si pone come sequel diretto di Alien (1979) di Ridley Scott. La frase che accompagna la locandina e il trailer “...ora può colpire anche te!” suggerisce, grazie al soggetto sottinteso, la sua (falsa) natura prosecutrice, facendo credere allo spettatore che la creatura presente nel film sia la medesima del film di Scott, cosa che naturalmente non corrisponde al vero, un esempio che resterà comunque circoscritto ad una pellicola unica.

1.1.1  Il caso: i numerosi falsi seguiti de La casa

Diverso è l’eclatante caso degli unofficial sequels de La casa (Evil Dead, 1981) e La casa 2 (Evil Dead II, 1987) di Sam Raimi, che si presenteranno in Italia nel doppio ruolo (caso probabilmente unico) di apocrifo originario e apocrifo derivativo. Dopo il grande consenso di pubblico de La casa 2, Aristide Massaccesi (in arte Joe D’Amato) e Achille Manzotti producono Ghosthouse, diretto dal grossetano Umberto Lenzi, che verrà distribuito in Italia col titolo La casa 3 (1988), il primo “falso seguito” di una serie più ampia che proseguirà nei due anni successivi con La casa 4 (Fabrizio Laurenti, 1988) e La casa 5 (Claudio Fragasso, 1990). Dal punto di vista pubblicitario, si può notare come nei manifesti di questi ultimi primeggi l’immagine di una lugubre abitazione, riprendendo quello stile che già caratterizzava le locandine dei due film originali.


Un modo, questo, per creare un senso di continuità immediato e visivo con le due pellicole di Raimi, così come l’utilizzo del font, leggermente più spesso nei tre seguiti italiani, ma indubbiamente simile, con la lettera “C” ben più grande delle altre (tranne nel caso de La casa 5). Possiamo dire che fenomeno de La casa in Italia sia stato estremamente significativo, portando le imprese di distribuzione locali ad effettuare massicce operazioni di retitolazione di pellicole horror statunitensi di genere. Il caso vuole che nel 1986 Sean S. Cunningham, già regista dell’horror cult Venerdì 13 (Friday the 13th, 1980), inizi a produrre una serie di pellicole horror comedy intitolata proprio House, un’occasione che Roberto Cimpanelli, già distributore italiano dei due Evil Dead, non si lascia sfuggire e, potendo puntare su una certa “coerenza traduttiva” rispetto al titolo originale, decide di ricollegare (indirettamente) le pellicole della serie ad entrambi i film di Raimi. Di conseguenza, il capitolo iniziale House (1986) diretto da Steve Miner, giunge nel nostro paese col titolo Chi è sepolto in quella casa?, e già dalla locandina si possono notare i chiari rimandi al manifesto italiano del cult del 1981, con l’utilizzo del medesimo font e della “C” a forma di falce, un elemento     onnipresente nei poster di gran parte dei moltissimi horror che raggiungeranno il nostro paese col termine “casa” nel titolo.

Difatti, sebbene la pellicola di Miner non sia considerata, in rapporto ai film di Raimi, né un sequel clandestino né, ovviamente, un sequel ufficiale, il manifesto italiano tende proprio a voler suggerire il contrario. Oltre al già citato utilizzo del font e della “C” maiuscola, la presenza del copy “Nessuno c’era più tornato da allora…È ancora viva. E vi aspetta.” indica un certo senso di continuità con un qualcosa che già era accaduto in passato (da allora…) e che lo spettatore conosce bene, identificando quel “qualcosa” indubbiamente con gli eventi de La casa, tant’è che la prima parte del titolo (“Chi è sepolto in quella…”) risulta in secondo piano rispetto alla parola “casa”, ben più grande e “attraente”. Questo esempio, pur non presentando il classico numero posto dopo il titolo (aspetto che più di tutti caratterizza il fenomeno dei sequel apocrifi) può essere considerato come “apocrifo derivativo” (un elemento che approfondiremo nel paragrafo successivo), sebbene il collegamento con la saga originale di Raimi mantenga un’evidente implicitezza. È poi ulteriormente incredibile quello che lo stesso Cimpanelli, che già aveva distribuito House II (Ethan Wiley, 1987) col titolo La casa di Helen, deciderà di fare col terzo film della saga di Cunningham, The Horror Show (1989) di James Isaac.


Il film, difatti, raggiungerà le sale italiane con l’assurdo titolo La casa 7, tentando quindi di ricollegarsi a quella sfilza di falsi seguiti prodotti dalla coppia Massaccesi-Manzotti che, per altro, si erano già assicurati
diritti sia per La casa 6 che, appunto, per La casa 7, un episodio che porterà i due produttori ad entrare in causa col distributore romano. La scelta di questo titolo per il film di Isaac appare indubbiamente confusionaria, considerando la totale assenza di un La casa 6, ma tuttavia ci suggerisce (grazie all’oggettività del titolo) una testimonianza in questo senso esplicita del rapporto viscerale che gli altri due capitoli della serie di House avevano avuto, promozionalmente, con la serie di Evil Dead, perlomeno in Italia. Inoltre, andando ad analizzare anche in questo caso la locandina italiana, è impossibile non notare la sua estrema somiglianza

con quella utilizzata per La casa del 1981. L’immagine scelta, ovvero quella di una lugubre mansione circondata dalla nebbia [identica, per altro, al celebre Bates Motel, teatro degli eventi di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock], è praticamente la stessa di quella presente nel manifesto del film di Raimi, “ribaltata” di 180 gradi e, di conseguenza, specchiata.

 Sopra all’immagine la tagline recita “L’ultimo capitolo, il più spaventoso…” prevedendo una conclusione definitiva sia per la “serie” che per questo tipo di operazioni; una cosa che, in effetti, si verificherà realmente. Comunque sia, aver voluto mantenere La casa 7 come titolo definitivo per The Horror Show tralasciando gli eventuali aspetti legali frutto di quella chiamata in causa citata sopra, che probabilmente rappresentavano la principale motivazione di questa scelta) poteva apparire come una soluzione accettabile in funzione della titolazione italiana dei due capitoli precedenti (House e House II) che, come abbiamo visto, facevano intuire una certa (subdola) loro appartenenza alla saga de La casa. Non è quindi un caso che proprio La casa di Helen (House II) sia convenzionalmente conosciuto anche con il titolo, non ufficiale, di La casa 6, riuscendo di conseguenza a chiudere il cerchio. Due casi, questi, che testimoniano la natura convergente della serie in questione riguardo al rapporto fra apocrifi originari e apocrifi derivativi, che (grazie alla numerazione) arrivano a far parte della stessa “filiera” di unofficial sequels.

1.2  Gli apocrifi derivativi: alcuni esempi

Analizzando i casi dell’arrivo in Italia dei tre capitoli della serie House (in particolar modo del terzo), abbiamo introdotto degli esempi concreti di “apocrifi derivativi”, ovvero quei film che, successivamente alla loro retitolazione in ambito distributivo, vengono fatti passare come seguiti di film o franchise già esistenti.


Difatti, la consolidata abitudine dei produttori italiani di sfruttare il successo di opere terze realizzandone seguiti fasulli, non stupisce la massiccia presenza di questo tipo di operazioni anche nell’ambito esclusivamente distributivo. Uno dei casi più spudorati (oltre che probabilmente uno dei primissimi esempi) è indubbiamente quello di Silent Running (Douglas Trumbull, 1972), pellicola di fantascienza uscita nelle nostre sale col titolo 2002: La seconda odissea, tentando un’improbabile ricongiunzione col capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) uscito quattro anni prima, e ancora ben presente nell’immaginario dello spettatore italiano. Il film di Trumbull, per altro già effettista proprio del film di Kubrick (caratteristica che spesso veniva rimarcata negli inserti giornalistici che annunciavano la pellicola nelle sale, viene riadattato non soltanto dal punto di vista del titolo, ma anche dal punto di vista della sceneggiatura originale. Grazie al doppiaggio, difatti, alcune battute del film vengono trasformate in modo da giustificare il titolo ricollegandosi, di conseguenza, agli avvenimenti del film del 1968, citando il celebre monolito e rinominando il computer di bordo della nave HAL 9000, esattamente come l’inquietante antagonista di 2001, per altro doppiato dal medesimo doppiatore, Gianfranco Bellini. Nella locandina italiana di Silent Running si può inoltre notare come il font utilizzato per il titolo sia lo stesso di quello che è possibile vedere sul manifesto del film di Kubrick, una modalità che, come abbiamo già visto nel precedente paragrafo, è la prassi per questo tipo di operazioni. Particolare è anche il caso dei primi due film di Bruce Lee giunti nel nostro paese, Tang shan da xiong (Lo Wei, 1971) e Jing wu men (Lo Wei, 1972), retitolati rispettivamente Il furore della Cina colpisce ancora e Dalla Cina con furore. Come si può evincere da questi due titoli, i due film, sebbene non fossero legati da nessun filo narrativo, vengono distribuiti come uno il seguito dell’altro, ignorando, inoltre, il loro originale anno di distribuzione. Il furore della Cina colpisce ancora, che di fatto era uscito in madrepatria un anno prima rispetto a Dalla Cina con furore, viene fatto passare come il secondo capitolo della cosiddetta saga di Chen ribaltando, di conseguenza, la situazione. Questo evento, per certi versi unico, non sembrò tuttavia intaccare il successo delle due pellicole, distribuite entrambe in Italia nel 1973 a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, guadagnandosi, grazie alle 640 milioni di lire incassate complessivamente, due posti tra i cento migliori incassi del biennio 72-73. Un grande successo (dovuto anche alla crescente moda dei film di arti marziali che in quel periodo stavano spopolando nelle sale di tutta Italia) che porta la Titanus di Goffredo Lombardo (già distributrice dei due episodi appena citati) a portare in sala altre due pellicole con protagonista lo stesso Bruce Lee, Meng long guo jiang 

(uscito in madrepatria nel 1972 e, tra l’altro, unica opera di Bruce Lee come regista), che per il mercato italiano diventa L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, e Game of Death (Robert Clouse, 1978) uscito cinque anni dopo la morte dell’attore e girato con materiali di repertorio, che viene diffuso nelle sale col titolo L’ultimo combattimento di Chen. Entrambi i film, difatti, vengono presentati come seguiti diretti de Il furore della Cina colpisce ancora pur non avendo nulla a che vedervi, utilizzando come espediente il nome del protagonista, che viene modificato in Chen, esattamente come i due personaggi interpretati da Bruce Lee nelle pellicole del 1971 e del 1972. Una tattica, questa della Titanus, sicuramente fruttuosa che contribuirà al raggiungimento dei due film di due posti nella top 100 degli incassi del 1974 e del 1978.

1.2.1  Il caso: quando King Kong (non) incontra Godzilla

Sin dalle sue origini col primo film del 1954, la saga dedicata al celebre dinosauro radioattivo della casa giapponese Toho (una delle più longeve dell’intero panorama cinematografico, con ben 33 film all’attivo) è stata territorio di ampie modifiche sul fronte delle distribuzioni internazionali.


In Italia, salvo qualche rara eccezione, i film di Godzilla sono sempre andati incontro a titolazioni che poco avevano a che vedere col loro titolo originale, spesso inserendovi nomi di personaggi appartenenti ad altre saghe cinematografiche completamente estranee a quella della gigantesca creatura nipponica. Andando ad analizzare i box-office relativi al periodo in cui il franchise è sbarcato nelle nostre sale (ovvero nel ventennio che va dal 1955 al 1975), nessun episodio è presente fra i primi cento titoli, in favore di altre pellicole di genere che in quegli anni erano in grado di aggiudicarsi una grande fetta di pubblico, quali il peplum e lo spaghetti- western. Una sorte che, oltre che alla saga di Godzilla, sembra intaccare tutte le produzioni a tema “mostri giganti” che giungono in sala fino ai primi anni ’80. L’unica eccezione del caso è quella che riguarda il King Kong di John Gullermin che nel 1976, anno della sua uscita in Italia e nel resto del mondo, raggiunge addirittura la vetta della classifica al botteghino nazionale. Questo dato ci testimonia quindi un aspetto fondamentale per quanto concerne gli aspetti che stiamo per affrontare. Il personaggio di King Kong, probabilmente a causa della forte popolarità che il personaggio si era guadagnato a partire dal capostipite uscito nel 1933, era entrato nell’immaginario collettivo ormai da tre decenni, un aspetto che porterà le case distributrici (tra cui anche la già citata Titanus) ad inserire il nome del gigantesco gorilla in titoli di film che nulla avevano di che spartirvi, se non il genere, e tra questi, alcuni esempi riguardano proprio pellicole appartenenti all’ampio universo cinematografico di Godzilla. Tralasciando il celebre King Kong vs Godzilla (Kingu Kongu tai Gojira, Ishiro Honda, 1962) che da noi diventa Il trionfo di King Kong (titolo che, in fin dei conti, si rivela essere un clamoroso spoiler e unica volta (per adesso) in cui entrambe le creature compaiono contemporaneamente sul grande schermo, uno degli episodi più celebri della saga, Kaiju soshingeki (Ishiro Honda, 1968), raggiunge il nostro paese col fuorviante titolo Gli eredi di King Kong sebbene, nemmeno a dirlo, il mostro della Universal non sia presente in nessuna sequenza, né tantomeno venga nominato, differentemente da quello che la locandina italiana suggerisce, presentandoci un anonimo (ed enorme) gorilla intento a distruggere una città durante un attacco militare. 


L’utilizzo di scene cliché del genere a cui il film pubblicizzato appartiene è sicuramente una delle principali caratteristiche delle locandine italiane di questo periodo, che molto raramente (specialmente in questo genere di film) offrivano una rappresentazione fedele delle sequenze che effettivamente apparivano su schermo (compito che veniva subordinato alle fotobuste, manifesti che venivano consegnati nei cinema con lo scopo di pubblicizzare i film in programmazione), una strategia di marketing per certi versi ingannevole, ma rodata e funzionale. Una sorte similare è

quella alla quale va incontro l’ultima pellicola del periodo d’oro della saga dedicata al mostro Toho, Mekagojira no gyakushū (Ishiro Honda, 1975) che per il mercato italiano diventa Distruggete Kong! La Terra è in pericolo, con una modalità, sotto certi aspetti, diversa. La creatura antagonista del film, il dinosauro marino Titanosaurus, viene ribattezzato dal doppiaggio italiano TitanoKong, per poter di conseguenza giustificare un titolo pensato per depistare a tutti gli effetti lo spettatore italiano. In questo caso, la scelta di voler inserire il nome di Kong nel titolo è dovuta all’uscita del già citato King Kong di Gullermin, prevista proprio per quel periodo (Distruggete Kong![...], difatti arriva nella sale italiane proprio nel 1976). 

Anche in questo caso le due locandine pubblicitarie realizzate per il nostro mercato, mostrano il consueto gorilla mosso da “istinti distruttivi”, presentandovi tuttavia, dal punto di vista dell’aspetto, una sorta di ibridazione rettilea. La pelle composta sia da folto pelo che da scaglie squamose, sembra quasi un tentativo di ricongiunzione con la vera creatura antagonista del film, aspetto che, ovviamente, non annulla la natura ingannevole dell’operazione, incentivata dalla scritta “Kong” dalle dimensioni ben più grandi delle altre. 

CONCLUSIONI Quel (nulla) che resta del sequel apocrifo

La complessiva aura di assurdità che circonda il mondo dei sequel apocrifi è probabilmente ciò che rende questo fenomeno estremamente affascinante. Risulta incredibile allo spettatore contemporaneo poter credere all’eventuale esistenza di strategie di marketing così fuorvianti e spudorate. Tuttavia, negli anni a cavallo fra i ’60 e gli ’80 queste operazioni erano, per molte case di distribuzione, una vera e propria prassi.


Cosa è cambiato quindi? Perché al giorno d’oggi è così difficile (o per meglio dire impossibile) assistere alla realizzazione di false sequelizzazioni di questo tipo? Probabilmentela questione è da far ricadere su un ulteriore inasprimento delle norme sul diritto d’autore, fattore che ha contribuito a favorire la scomparsa del fenomeno dei sequel apocrifi (sebbene sopravviva ancora una pratica per certi versi a lui “cugina”, quella dei cosiddetti mockbusters), anche se, per certi versi, un’ulteriore motivazione potrebbe essere riconducibile al cambiamento dello spettatore stesso, che gradualmente è riuscito a comprendere l’aspetto ingannevole del fenomeno, cessando di accontentarsi della mera apparenza del film in quanto seguito, preferendovi, sul fronte opposto, un vero e proprio ritorno dei caratteri della pellicola originale, dei medesimi personaggi e delle medesime situazioni, un traguardo indubbiamente raggiungibile soltanto col seguito ufficiale. Ciò che è ha fatto proliferare gli unoffical sequels è stato, difatti, proprio la “sete seriale” del pubblico di massa, una sete che ormai, nel cinema contemporaneo, è saziata dalle case di produzione detentrici dei diritti dell’opera in questione, in grado di sfornare quantità incredibili di seguiti ufficiali, aumentando l’offerta. L’apocrifo, di conseguenza,

non serve più. Inoltre, dal punto di vista etico non possiamo non considerare la natura truffaldina delle operazioni di serializzazione non ufficiale. A prescindere dalla qualità della pellicola, questo depistaggio premeditato di cui tanto abbiamo parlato nei paragrafi precedenti non può in nessun modo scindersi dal suo carattere profondamente scorretto. Certo, ciò che colpisce è proprio quella tranquillità con cui un Roberto Cimpinelli riusciva a portare in sala Martians Go Home (David Odell, 1990) col titolo di Balle Spaziali 2 – La vendetta, con tanto di locandina raffigurante i personaggi del celebre film di Mel Brooks, completamente assenti nella pellicola originale, tuttavia, volendo utilizzare un luogo comune, stiamo parlando di un periodo profondamente diverso, periodo nel quale si poteva sorvolare riguardo alla sfrontata uscita di un Terminator 2 (Bruno Mattei, 1989) in nome di quella proliferazione che tanto giovava agli esercenti delle sale cinematografiche oltre che all’intero settore cinematografico italiano.


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