INTRODUZIONE
Sin dalle origini del cinema, la pratica dei sequel cinematografici ha sempre trovato ampio spazio nelle grandi produzioni, riprendendo, d’altronde, una tradizione già profondamente radicata in secoli e secoli di letteratura. Che si parli di celluloide o di carta stampata, ciò che porta i produttori (o gli editori) ad intraprendere la strada del seguito è, ovviamente, l’eventuale popolarità che l’opera in questione è riuscita a guadagnarsi, conferendole di conseguenza il titolo di “opera prima” di un progetto seriale più ampio ed in grado di garantire un (quasi) sicuro successo fra gli spettatori/lettori.
Nel caso del cinema, al centro del processo di “sequelizzazione” vi è
senza dubbio il rapporto diretto fra
produzione e pubblico, un rapporto dalla natura profondamente collaborativa e
per certi versi persino interattiva.
È per rispondere alle esigenze di chi
guarda che i detentori dei diritti
di una certa pellicola decidono di realizzarne il seguito (o i seguiti),
sfruttando quella sorta di “necessità
seriale” che avvolge il pubblico dopo la visione, una necessità ovviamente eventuale e dettata dal feedback in
funzione dell’attaccamento per certi versi affettuoso che il pubblico arriva a provare per i
personaggi, per gli eventi, per le ambientazioni, per le musiche, per tutto ciò che
va a
formare profondamente
l’identità dell’opera stessa.
Ovviamente ci sono casi in cui questa “necessità seriale” viene innestata
strategicamente nel fruitore, con
l’inserimento dei cosiddetti finali aperti, soprattutto
attraverso la pratica del cliffhanger, in grado di spalancare le porte ai possibili film successivi, operazione per certi versi
attuata “alla cieca”, figlia della speranza nel riscontro positivo del
pubblico, in modo da non andare
incontro alla cancellazione dei progetti futuri già
opportunamente programmati.
Tuttavia, il feedback positivo per una determinata pellicola può portare anche ad un “corto circuito” del rodato meccanismo di serializzazione delle opere. Ci sono casi, infatti, in cui una casa di produzione totalmente esterna al processo produttivo di una determinata opera prima o di un franchise, decida di realizzare un film che apparentemente va a ricollegarvisi pur non avendo, in fin dei conti, nessun elemento narrativo da spartirvi. È il fenomeno dei sequel apocrifi, già appartenente da tempo al mondo della letteratura, e presente nel territorio della settima arte in una doppia veste: ci sono i sequel apocrifi che nascono come tali, che chiameremo “apocrifi originari” e quelli che lo diventano soltanto successivamente a furbe operazioni di retitolazione in seguito alla distribuzione del film nei mercati stranieri, che chiameremo “apocrifi derivativi”.
In questo lavoro approfondiremo l’aspetto marcatamente strategico di entrambi i casi, analizzandoli come operazioni di marketing, soffermandosi in particolar modo sui numerosi esempi del cinema di genere italiano, oltre che sulle molte operazioni di importazione nel nostro paese di pellicole di altre nazioni opportunamente retitolate in modo da renderle passabili come sequel.
1. IL FASCINO
ITALIANO PER IL “NON-UFFICIALE”
1.1 I seguiti apocrifi
negli horror della Penisola
È indubbio come l’Italia sia stato il territorio all’interno del quale, più di ogni altro, la tradizione del sequel apocrifo ha trovato ampia strada, in particolar modo durante il periodo di massimo splendore del proprio cinema di genere, fra la fine degli anni ‘60 e la fine degli ’80. Il motivo di questa strana proliferazione è sicuramente l’estrema leggerezza con la quale le norme sul diritto d’autore venivano applicate nel territorio italiano, un aspetto che ha portato numerose case di produzione, come la Filmirage di Joe D’Amato, ad approfittare del successo di alcune delle più popolari pellicole (o saghe) statunitensi del periodo, concentrandosi in particolar modo sul prolifico genere horror. Uno dei casi più clamorosi (e sicuramente più popolari) e che in un certo senso contribuirà ad una sorta di propagazione di questo fenomeno è Zombi 2, diretto da Lucio Fulci (qui al suo debutto nel genere che poi lo renderà famoso in tutto il mondo) e distribuito nel 1979 dalla Variety Film di Ugo Tucci.
Il film si pone, difatti, come il seguito diretto del celebre Zombi (Dawn of the Dead, 1978) di George A. Romero arrivato
in sala appena 10 mesi prima, senza tuttavia collegarvisi narrativamente. È quindi indubbio che il “2” posto dopo il
titolo, elemento che già di per sé definisce un film in quanto seguito,
fosse una trovata
di marketing per certi versi estremamente ingannevole, ma che contribuì alla
costruzione di un’ampia cerchia di interessa intorno alla pellicola oltre che al suo conseguente grande successo, che la porterà ad incassare 1,5 miliardi di lire, a fronte di un budget di 400 milioni.
Per infondere ancora più profondamente l’idea che il film in questione si trattasse di un vero e proprio sequel, i distributori andarono ovviamente ad agire in quello che, negli anni ’70 più di oggi, era uno degli strumenti pubblicitari tra i più fondamentali: la locandina. Nella parte alta del manifesto di Zombi 2, è possibile leggere la tagline che recita: “…quando i morti usciranno dalla tomba, i vivi saranno il loro sangue…”, un’espressione che indubbiamente ricorda, per assonanza, la frase che accompagnava i manifesti italiani di Zombi di Romero, una questione che portò quest’ultimo ad accusare Fulci di plagio.
Un caso simile (che, come il precedente, rappresenta quindi un esempio di apocrifo originario) è quello che si verifica l’anno dopo con Alien 2 – Sulla terra, fanta-horror diretto da Ciro Ippolito che, ovviamente, si pone come sequel diretto di Alien (1979) di Ridley Scott. La frase che accompagna la locandina e il trailer “...ora può colpire anche te!” suggerisce, grazie al soggetto sottinteso, la sua (falsa) natura prosecutrice, facendo credere allo spettatore che la creatura presente nel film sia la medesima del film di Scott, cosa che naturalmente non corrisponde al vero, un esempio che resterà comunque circoscritto ad una pellicola unica.
1.1.1 Il caso: i
numerosi falsi seguiti
de La casa
Diverso
è l’eclatante caso degli unofficial
sequels de La casa (Evil Dead, 1981) e La casa 2 (Evil Dead II, 1987) di Sam Raimi, che si
presenteranno in Italia nel doppio ruolo (caso
probabilmente unico) di apocrifo
originario e apocrifo derivativo.
Dopo il grande consenso di pubblico de La casa 2, Aristide Massaccesi (in arte Joe D’Amato) e Achille Manzotti
producono Ghosthouse, diretto dal grossetano Umberto
Lenzi, che verrà distribuito in Italia col titolo
La casa 3 (1988), il primo “falso
seguito” di una serie più ampia che proseguirà nei due anni successivi con La
casa 4 (Fabrizio Laurenti, 1988) e La
casa 5 (Claudio Fragasso, 1990). Dal punto di vista pubblicitario, si può notare
come nei manifesti
di questi ultimi
primeggi
Un modo, questo, per creare un senso di continuità immediato e visivo con
le due pellicole di Raimi, così come l’utilizzo del font, leggermente più spesso nei tre
seguiti italiani, ma indubbiamente
simile, con la lettera “C” ben più grande delle altre (tranne nel caso de La casa
5). Possiamo dire che fenomeno de La casa in Italia sia stato estremamente significativo, portando le imprese di distribuzione
locali ad effettuare massicce operazioni di retitolazione di pellicole horror statunitensi di genere.
Il caso vuole che nel 1986 Sean S. Cunningham, già regista dell’horror cult Venerdì 13 (Friday the 13th, 1980),
inizi a produrre una serie di pellicole horror comedy intitolata proprio House,
un’occasione che Roberto
Cimpanelli, già distributore italiano dei due Evil
Dead, non si lascia sfuggire e, potendo puntare su una certa “coerenza traduttiva” rispetto al titolo originale,
decide di ricollegare (indirettamente) le pellicole della serie ad entrambi i film di Raimi. Di
conseguenza, il capitolo iniziale House (1986)
diretto da Steve Miner, giunge nel nostro paese col titolo Chi è sepolto in quella
casa?, e già dalla locandina si possono notare i chiari
rimandi al manifesto
italiano del cult del 1981, con l’utilizzo del medesimo font e della “C” a forma di falce, un elemento onnipresente nei poster di gran parte dei moltissimi horror che raggiungeranno il nostro paese col termine
“casa” nel titolo.
Difatti, sebbene la pellicola di Miner non sia considerata, in rapporto ai film di Raimi, né un sequel clandestino né, ovviamente, un sequel ufficiale, il manifesto italiano tende proprio a voler suggerire il contrario. Oltre al già citato utilizzo del font e della “C” maiuscola, la presenza del copy “Nessuno c’era più tornato da allora…È ancora viva. E vi aspetta.” indica un certo senso di continuità con un qualcosa che già era accaduto in passato (da allora…) e che lo spettatore conosce bene, identificando quel “qualcosa” indubbiamente con gli eventi de La casa, tant’è che la prima parte del titolo (“Chi è sepolto in quella…”) risulta in secondo piano rispetto alla parola “casa”, ben più grande e “attraente”. Questo esempio, pur non presentando il classico numero posto dopo il titolo (aspetto che più di tutti caratterizza il fenomeno dei sequel apocrifi) può essere considerato come “apocrifo derivativo” (un elemento che approfondiremo nel paragrafo successivo), sebbene il collegamento con la saga originale di Raimi mantenga un’evidente implicitezza. È poi ulteriormente incredibile quello che lo stesso Cimpanelli, che già aveva distribuito House II (Ethan Wiley, 1987) col titolo La casa di Helen, deciderà di fare col terzo film della saga di Cunningham, The Horror Show (1989) di James Isaac.
Il film, difatti, raggiungerà le sale italiane con l’assurdo titolo
La casa 7, tentando
quindi di ricollegarsi a quella sfilza
di falsi seguiti
prodotti dalla coppia
Massaccesi-Manzotti che, per altro, si erano già assicurati i diritti sia per La casa 6 che,
appunto, per La casa 7,
un episodio che porterà i due produttori ad entrare
in causa col distributore romano. La scelta di questo titolo
per il film di Isaac appare indubbiamente confusionaria, considerando
la totale assenza di un La casa 6, ma
tuttavia ci suggerisce (grazie
all’oggettività del titolo) una testimonianza in questo senso esplicita del rapporto
viscerale che gli altri due capitoli della serie di House avevano avuto, promozionalmente, con la serie di Evil Dead,
perlomeno in Italia.
Inoltre, andando ad analizzare anche in questo caso la locandina
italiana, è impossibile non notare la sua estrema somiglianza
1.2 Gli apocrifi derivativi: alcuni esempi
Analizzando i casi dell’arrivo in Italia dei tre capitoli della serie House (in particolar modo del terzo), abbiamo introdotto degli esempi
concreti di “apocrifi derivativi”, ovvero quei film che, successivamente alla loro retitolazione in ambito
distributivo, vengono fatti passare come seguiti di film o franchise già esistenti.
Difatti, la consolidata abitudine dei produttori italiani di sfruttare il
successo di opere terze realizzandone
seguiti fasulli, non stupisce la massiccia presenza di questo tipo di
operazioni anche nell’ambito esclusivamente distributivo. Uno dei casi più spudorati
(oltre che probabilmente uno dei primissimi esempi) è indubbiamente quello di Silent Running (Douglas Trumbull, 1972),
pellicola di fantascienza uscita nelle nostre sale col titolo 2002: La seconda
odissea, tentando un’improbabile ricongiunzione col capolavoro di Kubrick 2001: Odissea
nello spazio (2001: A Space Odissey, 1968) uscito quattro anni prima, e
ancora ben presente nell’immaginario dello spettatore italiano. Il film di Trumbull, per altro già effettista proprio
del film di Kubrick (caratteristica che spesso veniva rimarcata
negli inserti giornalistici che annunciavano la pellicola nelle sale,
(uscito in madrepatria nel 1972 e, tra l’altro, unica opera di Bruce Lee come regista), che per il mercato italiano diventa L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente, e Game of Death (Robert Clouse, 1978) uscito cinque anni dopo la morte dell’attore e girato con materiali di repertorio, che viene diffuso nelle sale col titolo L’ultimo combattimento di Chen. Entrambi i film, difatti, vengono presentati come seguiti diretti de Il furore della Cina colpisce ancora pur non avendo nulla a che vedervi, utilizzando come espediente il nome del protagonista, che viene modificato in Chen, esattamente come i due personaggi interpretati da Bruce Lee nelle pellicole del 1971 e del 1972. Una tattica, questa della Titanus, sicuramente fruttuosa che contribuirà al raggiungimento dei due film di due posti nella top 100 degli incassi del 1974 e del 1978.
1.2.1 Il caso: quando
King Kong (non) incontra
Godzilla
Sin dalle sue origini col primo film del 1954, la saga dedicata al
celebre dinosauro radioattivo della
casa giapponese Toho (una delle più longeve dell’intero panorama
cinematografico, con ben 33 film
all’attivo) è stata territorio di ampie modifiche sul fronte delle
distribuzioni internazionali.
In Italia, salvo qualche rara eccezione, i film di Godzilla sono sempre andati incontro a titolazioni che poco avevano a che vedere col loro titolo originale, spesso inserendovi nomi di personaggi appartenenti ad altre saghe cinematografiche completamente estranee a quella della gigantesca creatura nipponica. Andando ad analizzare i box-office relativi al periodo in cui il franchise è sbarcato nelle nostre sale (ovvero nel ventennio che va dal 1955 al 1975), nessun episodio è presente fra i primi cento titoli, in favore di altre pellicole di genere che in quegli anni erano in grado di aggiudicarsi una grande fetta di pubblico, quali il peplum e lo spaghetti- western. Una sorte che, oltre che alla saga di Godzilla, sembra intaccare tutte le produzioni a tema “mostri giganti” che giungono in sala fino ai primi anni ’80. L’unica eccezione del caso è quella che riguarda il King Kong di John Gullermin che nel 1976, anno della sua uscita in Italia e nel resto del mondo, raggiunge addirittura la vetta della classifica al botteghino nazionale. Questo dato ci testimonia quindi un aspetto fondamentale per quanto concerne gli aspetti che stiamo per affrontare. Il personaggio di King Kong, probabilmente a causa della forte popolarità che il personaggio si era guadagnato a partire dal capostipite uscito nel 1933, era entrato nell’immaginario collettivo ormai da tre decenni, un aspetto che porterà le case distributrici (tra cui anche la già citata Titanus) ad inserire il nome del gigantesco gorilla in titoli di film che nulla avevano di che spartirvi, se non il genere, e tra questi, alcuni esempi riguardano proprio pellicole appartenenti all’ampio universo cinematografico di Godzilla. Tralasciando il celebre King Kong vs Godzilla (Kingu Kongu tai Gojira, Ishiro Honda, 1962) che da noi diventa Il trionfo di King Kong (titolo che, in fin dei conti, si rivela essere un clamoroso spoiler e unica volta (per adesso) in cui entrambe le creature compaiono contemporaneamente sul grande schermo, uno degli episodi più celebri della saga, Kaiju soshingeki (Ishiro Honda, 1968), raggiunge il nostro paese col fuorviante titolo Gli eredi di King Kong sebbene, nemmeno a dirlo, il mostro della Universal non sia presente in nessuna sequenza, né tantomeno venga nominato, differentemente da quello che la locandina italiana suggerisce, presentandoci un anonimo (ed enorme) gorilla intento a distruggere una città durante un attacco militare.
L’utilizzo di scene cliché del genere a cui il film pubblicizzato appartiene è sicuramente una delle principali
caratteristiche delle locandine italiane di questo periodo,
che molto raramente
(specialmente in questo genere di film) offrivano una rappresentazione fedele
delle sequenze che effettivamente apparivano su schermo (compito che veniva subordinato alle fotobuste, manifesti
che venivano consegnati nei cinema con lo scopo
di pubblicizzare i film in programmazione), una strategia di marketing per certi versi
ingannevole, ma rodata e funzionale. Una sorte similare è
CONCLUSIONI – Quel (nulla) che resta del sequel apocrifo
La complessiva aura di assurdità che circonda il mondo dei sequel apocrifi è probabilmente ciò che rende questo fenomeno estremamente affascinante. Risulta incredibile allo spettatore contemporaneo poter credere all’eventuale esistenza di strategie di marketing così fuorvianti e spudorate. Tuttavia, negli anni a cavallo fra i ’60 e gli ’80 queste operazioni erano, per molte case di distribuzione, una vera e propria prassi.
Cosa è cambiato quindi? Perché
al giorno d’oggi
è così difficile (o per meglio dire impossibile) assistere alla realizzazione di false
sequelizzazioni di questo tipo? Probabilmentela questione è da far ricadere su un ulteriore inasprimento delle norme sul diritto
d’autore, fattore che ha contribuito a favorire la scomparsa del
fenomeno dei sequel apocrifi (sebbene
sopravviva ancora una pratica per certi versi a lui “cugina”, quella dei
cosiddetti mockbusters), anche se, per certi versi, un’ulteriore motivazione potrebbe essere
riconducibile al cambiamento
dello spettatore stesso, che gradualmente è riuscito a comprendere l’aspetto ingannevole del fenomeno, cessando di
accontentarsi della mera apparenza del film in quanto seguito, preferendovi, sul fronte opposto, un vero e proprio
ritorno dei caratteri della pellicola originale,
dei medesimi personaggi e delle medesime situazioni, un traguardo indubbiamente raggiungibile soltanto col seguito
ufficiale. Ciò che è ha fatto proliferare gli unoffical
sequels è stato,
difatti, proprio la “sete seriale” del pubblico
di massa, una sete che ormai, nel cinema
non serve più. Inoltre, dal punto di vista etico non possiamo non considerare la natura truffaldina delle operazioni di serializzazione non ufficiale. A prescindere dalla qualità della pellicola, questo depistaggio premeditato di cui tanto abbiamo parlato nei paragrafi precedenti non può in nessun modo scindersi dal suo carattere profondamente scorretto. Certo, ciò che colpisce è proprio quella tranquillità con cui un Roberto Cimpinelli riusciva a portare in sala Martians Go Home (David Odell, 1990) col titolo di Balle Spaziali 2 – La vendetta, con tanto di locandina raffigurante i personaggi del celebre film di Mel Brooks, completamente assenti nella pellicola originale, tuttavia, volendo utilizzare un luogo comune, stiamo parlando di un periodo profondamente diverso, periodo nel quale si poteva sorvolare riguardo alla sfrontata uscita di un Terminator 2 (Bruno Mattei, 1989) in nome di quella proliferazione che tanto giovava agli esercenti delle sale cinematografiche oltre che all’intero settore cinematografico italiano.
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