venerdì 27 marzo 2020

Un paradisiaco tripudio di frattaglie demoniache (Recensione "Doom Eternal')

Dopo il successo di “DOOM” nel 2016 un sequel era inevitabile, così all’E3 2018 la Bethesda Softwork ha annunciato il nuovo capitolo della serie: “DOOM Eternal”. Originariamente programmata per il 22 novembre 2019, la pubblicazione del gioco fu rimandata al 20 marzo di quest’anno, data in cui il gioco è approdato su Steam, Xbox One, Google Stadia e Playstation 4, mentre la versione per Nintendo Switch, sviluppata da Panic Button, deve ancora ricevere una data di rilascio ufficiale. 
Il gioco è ambientato due anni dopo gli eventi di “DOOM”: la Terra è stata invasa da orde di Demoni, aiutati dall’ormai corrotta UAC, controllata dai cultisti che avevano causato l’invasione di Marte nel capitolo precedente. Il Doom Slayer, liberatosi dalla prigione in cui era stato piazzato dal Dottor Samuel Hayden in “DOOM”, ritorna a bordo di una stazione spaziale, pronto a fare nuovamente strage di demoni. Lo scopo del protagonista è quello di eliminare i tre Sacerdoti Infernali a capo delle armate infernali, a loro volta controllate da Khan Maykr, un’entità apparentemente angelica con cui lo Slayer sembra aver avuto a che fare in precedenza.

Questa volta la trama del gioco ha un ruolo molto più prominente, rallentando spesso e volentieri il gameplay a favore di inutili esposizioni. Le azioni del giocatore sono continuamente guidate, perdendo conseguentemente quel senso di liberta (seppur illusorio) che aveva caratterizzato i capitoli precedenti. L’esperienza di gioco risulta quindi estremamente lineare e piuttosto che un’avventura continua e consistente sembra essere una serie di compiti disconnessi affidati al protagonista. 
Altra critica da muovere al titolo è quella relativa alla presenza di cutscene in terza persona, che, fatta eccezione per i titoli di testa e per il finale, risultano essere fuori posto e non sembrano avere uno scopo concreto se non forse quello di evitare la presenza di schermate di caricamento. In tutti i giochi della serie di “Doom”, fatta eccezione per il terzo capitolo (considerato da molti “apocrifo”), l’avventura era interamente vissuta in prima persona, risulta quindi incomprensibile la scelta di cambiare la formula, se non per il semplice scopo di mostrare le diverse armature che è possibile indossare.
In queste cutscenes, tra antagonisti ed alleati che si perdono in monologhi interminabili, mentre l’intero modo d’intendere “Doom” viene alterato e modificato, il Doom Slayer appare impassibile a tutto ciò, come se lui, così come il giocatore, fosse ancora rimasto alla vecchia concezione del franchise: in tutta la durata del gioco, epilogo compreso, non parlerà mai, se non tramite la violenza brutale a cui è abituato, e tutti i personaggi, antagonisti  e non, sembreranno provare timore nei confronti di una forza della natura, troppo “tosta per l’Inferno” o anche solo per esser partecipe alla trama del suo stesso gioco. Il Doom Slayer non necessita di queste velleità, che siano gli altri a fare il lavoro sporco di mandare avanti il plot nei momenti in cui non si devono sbudellare demoni. 
Il gameplay rimane la parte migliore del gioco: oltre a riprendere le meccaniche del capitolo precedente, “DOOM Eternal” riesce ad apportarvi svariate migliorie. Le sezioni platform sono ora meglio integrate con i combattimenti: il giocatore potrà saltare, arrampicarsi o aggrapparsi a determinate superfici per avere un migliore controllo delle battaglie affrontate, inoltre le aree sono inoltre più aperte per consentire una maggiore libertà di movimento, ulteriormente incrementata dalla presenza del dash, che consente un ulteriore estensione delle distanze percorribili in volo. Il gioco risulta inoltre molto più punitivo del predecessore: per sopravvivere alle orde di demoni da affrontare il giocatore non potrà più buttarsi nella mischia senza pensare, ma dovrà elaborare una strategia, usare gli spazi a sua disposizione e dosare le munizioni disponibili. Altra meccanica, che si va unire a quella delle “Glory Kills” del capitolo del 2016, è la possibilità di dar fuoco ai propri nemici che causa il drop dell’armatura da parte dei corpi carbonizzati delle vittime dello Slayer. Proprio parlando di uccisioni, risulta impossibile non citare le armi che, in questo nuovo capitolo, sono ben otto, oltre alle novità come la granata congelante, che permette di potersi muovere liberamente tenendo il nemico bloccato al suo posto. Tramite le “Glory Kills” è, inoltre, possibile caricare un attacco corpo a corpo, ossia il temibile “Blood Punch”, utile per eliminare nemici fortemente corazzati come il Cyber Mancubus
L’introduzione di una vera e propria mitologia, a metà tra il cristianesimo e la fantascienza, permette, inoltre, per la prima volta nel franchise, di ritrovarsi contro a qualcosa di diverso da un demone o uno zombie (pur sempre di matrice demoniaca) anche se, a fine dei conti, tutti si riduce comunque a quello. Anche il Marauder, uno dei più temibili nemici introdotti in questo nuovo capitolo, pur essendo originariamente una Sentinella della Notte rivoltosa resuscitata, ossia un protettore della razza aliena Wraith  (già vista in “Doom 3” seppur in una diversa incarnazione), de facto ha l’apparenza di un normale demone. Anche lo stesso Khan Makyr perderà, man mano, le annotazioni angeliche che saranno, infine, solo di facciata. 
Riguardo proprio ai nemici, i design di alcuni di essi sono drasticamente cambiati: se da un lato Imp o Cacodemon non risultano drasticamente dissimili, dall’altro mostri come il Baron of Hell o il Mancubus sono profondamente diversi, risultando, in alcuni casi, semplificati nel design rispetto al capitolo precedente, meno “viscerali” e inquietanti e più solidi e “pietrosi”: le texture viscide che ricordano interiora o carne viva danno spazia ad altre dall’aspetto più duro, il rosso diventa nero e la carne da macelleria che si trascina per uccidere lo Slayer diviene una roccia incandescente pronta ad attaccare. Questo cambiamento è, comunque, in linea con il generale cambio di rotta del titolo, più improntato verso la fantascienza che mai, tra ordini di cavalieri alieni dalle armature bianche, robot e antiche civiltà extraterrestri. 
Per la gioia dei fan, comunque, due degli elementi più amati del franchise fanno il loro ritorno in grande stile: l’Icona del Peccato, leggendario boss finale del secondo “Doom”, già omaggiato in un easter nel titolo del 2016, appare per la prima volta in tutto il suo orrido splendore per un’immensa boss battle in cui lo Slayer si troverà davanti all’essere nella sua interezza e non solo come una testa in un muro grazie alle evidenti migliorie tecniche di questo nuovo capitolo, primo a poter permettere una battaglia di tale portata. L’altro ritorno, più che gradito, è quello di Daisy, il coniglio domestico del Doomguy dei titoli originale la quale morta spinge l’ex marine nella sua missione di vendetta nei confronti dell’Inferno intero. In questa nuova incarnazione, sulla falsariga del porting di Doom95 per sistemi Win9x, il coniglio è fortunatamente ancora vivo e, per giunta, presente in ogni livello, nascosto nelle mappe, così come lo è nella locandina stessa del gioco.
Proprio parlando di vecchi porting, in bundle con il titolo, una nuova versione di Doom 64 fa capolino, evolvendosi da semplice adattamento del primo capitolo della serie dalle vistose migliorie grafiche e tecniche, al vero e proprio prologo del nuovo universo del "DOOM" del 2016 e del suo sequel, con l'aggiunta di diversi livelli che fanno da ponte con il titolo Bethesda.
Un titolo che, tecnicamente, eccelle e che porta un gameplay sempre movimentato e dinamico, adattabile alle scelte di gameplay del giocatore ed ai suoi tempi ed alle sue strategie, accompagnato dalla solita leggendaria colonna sonora heavy metal sensibile al ritmo delle azioni sullo schermo, ma che, forse, richiederà un impegno da parte dei fan hardcore di “Doom”: adattarsi ad una nuova concezione del franchise, riuscire a lasciar andare la nostalgia e che, così come tutto, anche la serie di John Carmack, prima o poi, avrebbe dovuto subire un’evoluzione e, forse, questa è la migliore delle possibili. 
For Daisy

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