lunedì 16 marzo 2020

La paura più grande è quella dell'ignoto (Recensione "Il colore venuto dallo spazio")

H.P. Lovecraft è forse lo scrittore più influente del panorama horror e fantascientifico letterario. L’autore di Providence, tappa obbligatoria e divinità assoluta per qualunque appassionato, ha creato un microcosmo complesso, intricato e affascinante, popolato da creature mostruose e mondi talmente fantastici e arcaici da risultare inconcepibili per la mente umana; mente umana che viene messa costantemente a dura prova da Lovecraft, le cui creazioni sono in grado di far precipitare i personaggi in uno stato assoluto di follia dal quale è impossibile uscire. Proprio per questo, l’opera di Lovecraft è e sarà sempre difficile da trasporre al cinema. Ci sono stati diversi tentativi nel corso degli anni, i più riusciti principalmente ad opera di grandi autori di genere come Stuart Gordon e Brian Yuzna (la trilogia di “Re-Animator”, “From Beyond” e “Dagon – La Mutazione Del Male”). Anche John Carpenter ha abbracciato la mitologia lovecraftiana per alcuni dei suoi massimi capolavori, come “La Cosa” e “Il Seme Della Follia”, pellicole che non adattano un racconto nello specifico ma che sono fortemente contaminate dal lavoro dello scrittore.
Il Colore Venuto Dallo Spazio”, datato 1927, è senza dubbio una delle produzioni più amate e complesse di Lovecraft e, proprio per questo, particolarmente difficile da adattare su celluloide. Negli anni, diverse pellicole hanno provato a trasporre questo racconto più o meno liberamente, come “La Fattoria Maledetta” di David Keith, “La Morte Dall’Occhio Di Cristallo” di Daniel Heller e il parzialmente italiano “Virus: Extreme Contamination” di Domiziano Cristopharo. Ma nessuno aveva mai provato a realizzare un’opera che rendesse davvero giustizia al capolavoro scritto da Lovecraft, con il medesimo titolo e la stessa profondità e complessità. Fino ad ora. 

Il regista Richard Stanley, filmmaker sudafricano già apprezzato per i suoi horror indipendenti “Hardware” e “Demoniaca”, torna dopo quasi trent’anni dalla sua ultima fatica e dopo essere stato allontanato dalla regia de “L’Isola Perduta” con Marlon Brando, nel 1996. Dopo questa esperienza, Stanley collabora a numerose sceneggiature (come per i film “The Abandoned” di Nacho Cerdà e “Imago Mortis” del nostrano Stefano Bessoni), gira cortometraggi, documentari e video musicali, ma senza mai tornare realmente alla ribalta con un film da lui scritto e diretto. Fan di Lovecraft fin dalla tenera età, studioso di antropologia e appassionato di stregoneria e folclore, Stanley sembrava il regista perfetto per portare sullo schermo questo racconto. E la scommessa è stata decisamente vinta.
La trama rispecchia fedelmente quella dello scritto originale, con le dovute variazioni. Siamo nel New England, in epoca moderna. La famiglia Gardner, composta dal padre Nathan, la madre Theresa, i figli Lavinia e Benny e il cane Sam, si trasferisce in una remota fattoria immersa nella natura, in cerca di tranquillità e solitudine. Una sera, la quiete della famiglia viene sconvolta dalla caduta di un misterioso meteorite proprio nei pressi dell’abitazione, evento che segnerà l’inizio di un incubo senza fine. Uno strano colore alieno e apparentemente senziente è stato portato dal meteorite; consuma tutto ciò che tocca, manipolando il tempo, lo spazio, i corpi e la mente. La famiglia Gardner dovrà quindi lottare contro questa minaccia sconosciuta e sovrannaturale, che ha sconvolto l’intero ambiente e l’equilibrio familiare dei protagonisti. Nulla sarà come prima.

Fin dalle prime inquadrature si rimane colpiti dalla qualità della fotografia e dall’atmosfera in generale. Stanley dimostra ancora una volta di essere un regista di grande mestiere, confezionando un film tecnicamente impeccabile e di grande impatto visivo. Le prime immagini proiettano immediatamente lo spettatore nei lugubri boschi che circondano la fattoria dei Gardner, impostando l’atmosfera misteriosa e cupa che caratterizzerà l’intera opera. Molto interessante l’uso dei colori: se nel racconto di Lovecraft il colore alieno non faceva parte della nostra scala cromatica, non avvicinandosi a qualunque sfumatura esistente, Stanley, per esigenze cinematografiche, opta per un violaceo acceso quasi accecante e molto psichedelico. Questo colore particolare ben si adatta all’’atmosfera e alle ambientazioni del film, creando inquadrature molto suggestive e che ricordano il film “Annnientamento” di Alex Garland. Il viola è inoltre simbolo di mistero e metamorfosi, entrambi temi portanti di quest’opera.
Gli effetti speciali, sia digitali che artigianali, sono davvero ottimi; pur essendo un B-Movie dal budget piuttosto contenuto, il film regala sequenze mozzafiato e da brivido, amalgamando perfettamente la computer grafica con ciò che realmente è presente in scena. Alcuni effetti pratici faranno la gioia dei fan dell’horror vecchio stampo, soprattutto in una particolare sequenza che è un bellissimo e palese omaggio al capolavoro “La Cosa” di John Carpenter, una scena da incubo che rimarrà scolpita senz’altro nella vostra memoria. Vi diciamo solo “alpaca”, il resto lo lasciamo scoprire a voi.

Straordinarie le musiche di Colin Stetson, già compositore di “Hereditary” di Ari Aster, che crea una soundtrack penetrante, tetra e a tratti quasi “tribale”, che sottolinea la progressiva discesa nella follia e oscurità a cui andranno incontro i protagonisti. 
Parlando proprio dei personaggi, Stanely impiega buona parte della pellicola ad approfondire i vari protagonisti e il loro rapporto familiare, creando un forte legame tra loro e lo spettatore. Tutti gli attori se la cavano egregiamente: Nicolas Cage, nei panni del protagonista e padre di famiglia Nathan Gardner, dopo l’ottimo lavoro svolto nel revenge movie psichedelico “Mandy” di Panos Cosmatos, dimostra ancora una volta di essere completamente a suo agio in questo tipo di produzioni di genere a basso budget. Cage interpreta un personaggio il cui sviluppo è il cuore pulsante del racconto, un personaggio che dovrà affrontare forze ignote e oscure molto più grandi di lui, che assisterà al decadimento della sua casa, della sua famiglia e infine di se stesso. La sua progressiva discesa nella follia porterà lo spettatore a provare diverse emozioni nei suoi confronti: empatia, preoccupazione, rabbia, paura. Un personaggio ben scritto e ben interpretato dal bravo Cage, che negli ultimi tempi si sta riscattando da alcuni lavori non proprio riusciti, indirizzando la sua carriera artistica verso pellicole più indipendenti e di genere puro, meno commerciali ma artisticamente validissime e in grado di valorizzare le sue doti da attore spesso eccessivo e sopra le righe (presenti anche in questo film, ma ben contestualizzate al racconto). Una scelta molto coraggiosa da parte di Cage, che speriamo possa tornare alla ribalta e continuare questo suo sodalizio con film e registi più underground.

Molto brave anche Joely Richardson (vista in “Punto Di Non Ritorno” di Paul W.S. Anderson e “Contagious – Epidemia Mortale” di Henry Hobson) e Madeleine Arthur, nei panni rispettivamente di Theresa e Lavinia, moglie e figlia di Nathan. Entrambi personaggi ben caratterizzati e che dovranno far fronte a questa minaccia inarrestabile. Lavinia, in particolare, è un personaggio molto forte e combattivo che, mano a mano, si farà sopraffare dalle proprie debolezze tipiche dell’età adolescenziale. Interessante anche il personaggio di Ezra, interpretato da Tommy Chong (visto in “Fuori Orario” di Martin Scorsese), sorta di visionario eremita che racchiude in sé la poetica e i messaggi trasmessi dai racconti di Lovecraft. Importante nella vicenda è il personaggio di Ward Phillips, l’idrologo interpretato da Elliot Knight. Senza fare spoiler, il suo è un personaggio fondamentale, e proprio per questo, forse, avrebbe meritato un maggiore approfondimento. Ci viene presentato all’inizio, compare sporadicamente nel corso del film per poi assumere un ruolo rilevante nel finale, senza la necessaria personalità che avrebbe meritato.
Parlando della fedeltà all’opera originale, si può certamente affermare che Stanley ha adattato il racconto di Lovecraft nel miglior modo possibile, confezionando il film lovecraftiano definitivo. La pellicola è fedele nello svolgimento, nell’ambientazione e nelle tematiche, con le dovute differenze per rendere il tutto più scorrevole e adatto ad una sceneggiatura cinematografica. Il ritmo è lento e si prende i suoi tempi, ma rimane coinvolgente, teso e in continua crescita fino al climax finale. Il film abbraccia l’intera mitologia lovecraftiana: si parla di follia, dell’impossibilità della mente umana di concepire orrori cosmici e sovrannaturali, della piccolezza dell’essere umano di fronte a forze sconosciute, arcaiche e devastanti. È un film sul cambiamento, sia fisico che psichico, e sul consumo irrefrenabile dell’ambiente, della mente e dell’animo, dove lo spettatore viene trascinato in un’escalation di orrori indecifrabili e al di là della nostra comprensione. Ma è anche una pellicola profondamente umana, che parla di famiglia, dei suoi delicati equilibri e di come essi si possano disgregare a causa di potenti agenti esterni. È un film di scelte, scelte estreme che l’uomo è in grado di compiere se costretto e portato all’estremo delle sue capacità, scelte terribili che implicano gesti atroci commessi per un bene superiore. Insomma, Stanley amalgama perfettamente ciò che lo spettatore lovecraftiano più accanito si aspetta con la propria visione personale e autoriale del mito, dando vita ad un’opera rispettosa, fedele ma al contempo personale, genuina e unica. Si percepisce la conoscenza e l’amore sconfinato di Stanley vesto questo incredibile autore, tanto che il regista inserisce numerosi riferimenti all’intero universo lovecraftiano. Si citano Arkham, Innsmouth, Dunwich… compare persino il Necronomicon! Il lettore di Lovecraft coglierà fin da subito questi piccoli easter eggs, che non sono solo affettuosi omaggi da parte del regista, ma sono semi che potrebbero essere espansi in future pellicole dedicate allo scrittore di Providence. E pare proprio che “Il Colore Venuto Dallo Spazio” sia il primo di un’imminente trilogia e che Stanley sia già al lavoro sull’adattamento cinematografico de “L’Orrore di Dunwich”. Se la qualità rimarrà questa, possiamo solo gioire e attendere con ansia questi intriganti sviluppi.

Sperando che questa pellicola possa trovare prima o poi una distribuzione italiana, i fan di Lovecraft rimarranno sicuramente soddisfatti dall’opera di Stanley. È un film sentito e realizzato col cuore, una grande lettera d’amore da parte di Stanley a Lovecraft e alla sua mitologia, in cui il regista infonde la propria poetica e sensibilità. Un film fresco e che finalmente eleva il film di genere ad un livello altissimo e profondo, con un fanta-horror vecchio stampo, divertente, disturbante e visivamente spettacolare, che farà la gioia dei fan di questa intramontabile colonna portante dell’horror letterario che risponde al nome di H.P. Lovecraft. Ma è anche un’opera che appassionerà sicuramente i neofiti che, dopo la visione di questo  film, avranno sicuramente voglia di immergersi nel ricco universo creato dallo scrittore di Providence, tra grandi antichi e creature aberranti. Una piccola gemma, quindi, da tenersi stretti e conservare come una reliquia preziosa, una perla che, si spera, possa aprire la strada non solo ad un nuovo ciclo lovecraftiano cinematografico, ma anche a più film di genere di questo tipo, con poco budget ma tante idee e cuore. 
Consigliamo  caldamentela visione e ricordate: “non è morto ciò che in eterno può attendere”.

Articolo di Riccardo Farina

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