giovedì 21 novembre 2019

In un obiettivo oscuro (Parte Prima - Analisi "Vampiri Amanti") - Vampiri tra letteratura e cinema: Carmilla

Torniamo ad indagare le dinamiche che dalla nascita della settima arte la legano in un abbraccio immortale alla letteratura, continuando a evitare, per ora e per quanto (im)possibile, gli argomenti più discussi, sia per evitare di dare un apporto inutile al loro già inflazionato panorama critico, sia perchè ritengo che proprio nelle forme più insolite del suddetto corteggiamento vampirico tra le due arti si possa individuare con maggiore chiarezza possibile il tortuoso percorso che gli autori cinematografici devono attraversare nela realizzazione dell'adattamento di un'opera letteraria: percorso di cui fin troppo spesso viene tracciata una mappatura rozza e approssimativa, da chi brama di vedere un ennesimo mito letterario prendere vita sul grande schermo solo per demolirlo come un idolo o esaltarlo come una divinità, senza la benchèminima argomentazione valida; e come se non bastasse, introdurrò l''argomento dell'articolo, di cui state leggendo la prima parte, che nelle mie poco attendibili intenzioni dovrebbe costituire il primo tassello di una nuova serie di articoli di cui a questo punto solo i babbi di culo non avranno capito il tema, è solo la scusante per un'altra secchiata di bile che verso volentieri sulla tuttora indigesta esperienza vissuta alcuni mesi fa al Napoli Horror Fest, dove il film di John Landis “Amore all'ultimo morso” (1992; Innocent Blood) riportato nel pamphlet veniva spacciato come protagonista di una proiezione che sarebbe invece spettata ad un suo disgraziato omonimo nella traduzione italiana, tale “Love Bite” (2012) di Andy De Emmony, con una comicità degna di Neri Parenti e una messa in scena degna del peggiore Twilight, solo con una comicità ancora più idiota e con i lupi mannari al posto dei vampiri.
Dante, perdonali perchè non sanno quello che fanno
La vampira interpretata da Anne Parillaud del così impunemente maltrattato film di Landis è solo una delle più giovani (neanche tanto, ma comunque di vampiri ed immagini cinematografiche stiamo parlando) incarnazioni femminili in cui il mito dei succhiasangue ha protratto la sua vita dopo la morte, dalla Lilith di Adamo alla Lamia di Apollonio, traendo poi rinnovata energia alla giugulare della letteratura, dalla Christabel di Coleridge alla Lamia di Keats
Illustrazione della poesia di Coleridge di H. J. Ford e Lancelot Speed 
I meno fessi avranno già capito che voglio portare la loro attenzione proprio sulla figura letteraria, preceduta in celebrità solo dal suo stesso fascino saffico, della regina indiscussa di queste predatrici notturne il cui stesso nome è diventato sinonimo di sensuale fascino indomito e del femineo potere del sangue: Carmilla.
Carmilla and Laura, di AbigailLarson (Devianart)
Il personaggio protagonista dell'omonimo racconto scritto dall'irlandese Joseph Sheridan Le Fanu, per la prima vclta pubblicato a capitoli nel 1871-72 sulla rivista The Dark Blue, ha costantemente infestato il grande schermo attraverso numerose riduzioni cinematografiche dell'opera e non, tali da rendere superfluo, viste le intenzioni di questo articolo, la compilazione di un elenco (che peraltro non sarebbe difficile rintracciare sul web) di ogni singola apparizione di un omonimo della vampira e che possa comunque dirsi esaustivo: terremo infatti in considerazione soltanto quelle manifestazioni su celluoloide che vedono Carmilla quantomeno impegnata nelle sue originali peripezie letterarie che ruotano intorno alla persecuzione che conduce ai danni di una giovane fanciulla mortale, e che risveglierà in entrambe uno strisciante desiderio (omo)sessuale a prelusdio del nutrimento saguineo; o che la vedano affiancata quantomeno da uno di quegli elementi narrativi formali del racconto originale, come l'ambientazione in un proverbiale castello austriaco dovo Carmilla viene poco saggiamente ospitata, libera di cibarsi, oltre che della figlia del castellano con la quale cui si trastulla in attesa del pasto finale, pure col vicinato non poi così all'oscuro dell'esistenza di quel villaggio abbandonato e infestato cui l'eternamente giovane contessa di Karnstein deve fare ritorno parte della notte e del giorno;  faranno una recente web serie che ignorerò totalmente ed un primo ed importantissimo adattamento cui darò, nella sua infedeltà formale, un attenzione anche superiore agli altri.
Illustrazione di David Henry Friston su The Dark Blue
Ora, senza dubbio in pochi non converranno che l'adattamento narrativamente più narrativamente fedele al racconto di Le Fanu, oltre che quello probabilmente più noto, è uno degli ultimi grandi titoli di quella golden age con cui la storica casa produttrice inglese Hammer, qui in collaborazione con la American International, portò alle estreme conseguenze, sfidando per l'ennesima volta i limiti del “buon gusto” e delle precedenti produzioni di genere, la rivoluzione già apportata all'horror con i via via più graficamente espliciti remake dei grandi gotici della Universal
Primo capitolo di una trilogia (Karnstein Trilogy per l'appunto), i cui due seguiti non tratteremo avendo a che vedere poco o niente col racconto dello scrittore dublinese, la pellicola in questione venne diretta da uno dei migliori registi del celebre marchio sinonimo di canini insanguinati e festoni di ragnatele, Roy Ward Baker (assistant director di Hitchcock sul set di La Signora Scompare e regista di punta anche della rivale hammeriana Amicus, avrebbe diretto un altro grande classico del cinema vampirico, La leggenda dei sette vampiri d'oro), la cui mano, degna dei colleghi Freddie Francis (Le cinque chiavi del terrore, I racconti della cripta) e Terence Fisher (La maschera di Frankenstein, Dracula il vampiro), si dimostra indiscutibilmente uno dei più grandi pregi del film, fin dalla sequenza di apertura tra le spettrali rovine, che nel racconto originale comparivano solo alla fine (anche se la scena finale, con la scoperta della tomba di Carmilla, qui tornerà a svolgersi), dove i set inquietantemente predisposti vengono sapientemente messi in scena, attraversando un escalation di violenza estetica e grafiica che passa da un'insolitamente gotica e surreale apparizione di un primo vampiro interamente ricoperto da un sudario, più simile ad il proverbiale spettro, fino al dolly che denuda questo apparente fantasma, per contrappasso con la pudicità di questa prima apparizione, quale ragazza inquietantemente seducente, cui viene, a completare il disorientamento dello spettatore precipitato nell'ascesa provocante che le immagini compiono, immediatamente tagliata la testa con una sciabola nel modo più brutale e verosimile che l'ottimo effetto speciale e il chirurgico taglio di montaggio potessero permettere; una splendida inquadratura di un dettaglio della lama mentre la testa della vampira giace fuori fuoco sul pavimento è il momento perfetto per presentare finalmente il titolo della pellicola: Vampiri Amanti (Vampires Lovers; 1970).
 “Tagliatele la testa!”
Insomma, questa sequenza iniziale sintetizza alla perfezione il mood sovversivo e cruento, pur nella sua elegante classicità, dell'intera pellicola, e anche solo da questo prologo non è difficile capire come mai la spregiudicatezza del film avrebbe dato via libera, in concomitanza con la crescente emancipazione sessuale e femminile di quel periodo, ad un numero sempre maggiore di riletture simili della figura del vampiro in chiave lesbica, da Jesùs Franco (Vampyros Lesbos) a Jean Rollin (Lèvres de sang); ma è al film di Baker che spetta il merito di aver per la prima volta portato sullo schermo il prototipo universale di tale immaginario, e alla splendida Ingrid Pitt di prestare corpo e anima attraverso un'interpretazione memorabile: difatti, al di là di tutta la struttura del racconto ottocentesco, cui vengono mantenute perfino le trasformazioni debolmente occasionali e fortemente enigmatiche della vampira in quello che pare un grosso felino e non preservate da nessun altro adattamento, la fedeltà concettuale, e quindi per chi scrive di vero interesse in un tale confronto, verso il lavoro di Le Fanu risiede proprio nell'aver preservato «un'empatia percorrente tutta la storia nei confronti della sessualmente disinibita ma languida Carmilla» (A. Major, ‘Other love: Le Fanu’s Carmilla as lesbian Gothic’, in R. B. Anolik (ed.), Horrifying Sex: Essays on Sexual Difference in Gothic Literature, Jefferson, NC: McFarland 2007, p. 152).
Pippa Steel ed un raro esemplare di gatto mannaro
Difatti, il film è totalmente estraneo alle dinamiche di rottura e ripristino di una minacciata coppia eterosessuale di cui molti critici tacciarono a questa oltre che pellicole simili, dal momento che il finale non porterà ricongiungimento di dato che l'eroe di turno salva una ragazza che, nelle brame di Carmilla, ha di fatto succeduto quella che era effettivamente il suo ormai (tra)passato e vero interesse amoroso (Pippa Steel), e perchè la sofferenza con questa vittima (Madeline Smith)  accoglie la morte di Carmilla cui, volente o nolente, si era fortemente legata non sembra preludere ad alcuna liberazione, come del resto non faceva il finale in cui l'io narrante (e personaggio speculare della ragazza) chiosava dicendo che continuerà a sentire «il passo leggero di Carmilla alla porta del salotto».
Ingrid Pitt e Madeleine Smith
Inoltre il suo salvatore, tale Carl (Jon Finch, personaggio assente nel racconto), viene a far parte di una trittico di ammazzavampiri assolutamente bigotti e antipatici, insieme al barone Hartog (Douglas Wilmer, fusione del barone Vonderburg e dell'amante di Carmilla quand'era ancora viva), sempre più “ingessato” nel suo vestiario puritano dopo aver represso il proprio desiderio sessuale uccidendo nel prologo la vampira che aveva avvicinato pericolosamente i seni al suo crocefisso (gioco di parlole efficacemente non voluto), e l'immancabile Peter Cushing, che interpreta in maniera a dir poco straziante il generale Spielsdorf divorato dalla vendetta a cui Carmilla aveva precedentemente ucciso la figlia: il posizionamento di questa vicenda prima di quella principale, nella pellicola, piuttosto che narrata in medias res, come nel racconto, alla nuova preda di Carmilla e al padre di lei che l'ha accolta in casa sua come fece il generale, costituisce forse la differenza formale principale tra le due opere, eppure, come abbiamo visto, essa è perfettamente funzionale, esattamente come il maggiore coinvolgimento nella narrazione della servitù del castello che, da mere comparse in Le Fanu, diventano ridicolo contraltare all'ottusità di questi tutti questi aristocratici ammazzavampiri pieni di sè, non essendo meno meccanici nell'obbedire agli ordini quando entrano sotto l'ipnosi vampirica rispetto a quando rendevano conto ai loro superiori: un'ennesima “libertà” rispetto all'opera letteraria che non fa che darne nuovo slancio alle intenzioni, visto Carmilla si trova a dover sedurre sia uomini che donne, e dunque evitando che graficità di alcune scene di nudo sostituitesi dell'erotismo più sottile e accennato della novella vengano a creare, come la pensano diversi critici, un'eccessiva strumentalizzazione dell'elemento sessuale (vale la pemna di citare il testo del quasi omonimo del regista Ron Baker, Classic Horror Films and the Literature That Inspired Them, Jefferson, NC: McFarland 2005, p. 242), né tantomeno un'enfatizzazione su di una dichiarata pericolosità dell'omossessualità; e se nel racconto essa costituiva il naturale effetto dell'attrazione che i vampiri hanno nei confronti delle proprie prede, nel film di Baker diviene l'altrettanto naturale e consapevole tentativo di Carmilla di raggiungere i propri scopi.
Douglas Wilmer e Peter Cushing 
Meno vicini alle simpatie dello spettatore del personaggio di Ingrid Pitt, questi ammazzavmpiri non sono buoni neanche a fare quello che dovrebbe venire loro meglio, visto che, come nel racconto, la contessa che si spacciava per la “madre” di Carmilla, ma che ha tutta l'aria di essere una schiavetta mortale à la Renfield, ed il criptico e cadaverico “uomo in nero” (John Forbes-Robertson), che nel film è palesemente il master che veglia compiaciuto in suggestive inquadrature al chiaro di luna ogni volta che la sua pupilla compie un delitto, non verranno né smascherati in quanto creature delle tenebre né tantomeno scovati o uccisi; la morte di Carmilla non solo non ci è di alcun sollievo se ripensiamo qualora ripensassimo all'incredibile prova attoriale con cui la Pitt fa rivivere una delle scene più belle del racconto quando rimane turbata dalla musica religiosa di un corteo funebre e, ambivalentementem dall'ottusità con cui gli uomini si ostinano a non accettare la morte, ma non pone neppure effettivamente fine alla concreta minaccia costituita dai non morti. 
Christopher L... volevo dire, John Forbes Robertson
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Articolo di Donato Martiello

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