mercoledì 23 ottobre 2019

Prototipi di morte (Recensione "Savage Weekend")

Quando parliamo di slasher  parliamo probabilmente del sottogenere horror di maggior successo.

Sono innumerevoli i film di questo filone usciti tra gli anni 70 e 80,  figli del successo degli immortali “Halloween” e “Venerdì 13”, che sono andati a porre i principi e le caratteristiche fondamentali di questa particolare categoria. Possiamo dire che, in realtà, lo slasher non è altroi che il risultato dell'influenza “new-hollywoodiana” sul genere horror. Michel Myers, Leatherface, Jason Voohrees, et similia, infatti, non sono altro che una rivisitazione dei classici “mostri” dell'epoca “Golden age”, capitanati dagli immortali Dracula, la Mummia, Frankenstein e l'Uomo Lupo. 
Una rivisitazione più realistica e spietata, che unisce all'aura misteriosa di queste creature classiche, la violenza e la crudeltà dell'atto di “uccidere” in sé. L'omicidio nello slasher è il vero protagonista, questa volta propriamente messo in scena in tutta la sua crudezza sanguinolenta e non più un elemento destinato al “fuori campo”. Sebbene la nascita di questi specifici film dell'orrore venga fatta risalire ufficialmente al 1978 con “Halloween”, c'è chi, qualche anno prima, aveva già tentato di mettere in scena pellicole incentrate sulla serialità omicida di qualche killer misterioso e sconosciuto, spesso mascherato. Film, questi, assolutamente “underground” e destinati principalmente ai cinema drive-in e grindhouse, diventati cult veri e propri soltanto molti anni dopo, quando ormai il genere era più che assodato.

E molto probabile che diversi cittadini di alcune periferie statunitensi, annoiati delle solite e monotone routine, si siano imbattuti in film del calibro di “Drive-in Massacre”,  “Death House” (qui già recensito dal nostro buon Roberto), “Black Christmas”, o “Savage Weekend”. Quest'ultima pellicola, diretta da David Paulsen nel 1976 (che negli 80s diventerà piuttosto popolare in quanto produttore di soap operas di successo come “Dallas” e “Dinasty”), rappresenta un bell'esempio di “proto-slasher” e di come questi film siano serviti ad affinare tutte quegli aspetti che verranno affinati negli anni a venire. 
Gli avvenimenti sono quelli tipici del filone: un gruppo di amici decide di concedersi un weekend in campagna, distaccandosi dall'asfissiante monotonia della vita cittadina. Fra questi c'è Marie (Marylin Hamlin), divorziata da Greg (Jeffrey Pomerantz), un funzionario politico appena inciampato in uno scomodo scandalo. Tutto sembra andare bene per i villeggianti, quando improvvisamente, uno dopo l'altro, iniziano a morire per mano di un misterioso folle mascherato...

Il film si apre subito con il guardiano dello stabilimento, Otis (interpretato da William Sanderson, famoso per il ruolo di Sebastian nel capolavoro di Ridley Scott, “Blade Runner”) impugnare un motosega e apperentemente commettere un omicidio. Un trovata questa che si rivelerà di fondamentale importanza man mano che il film prosegue sui suoi binari, binari che portano il film persino sul territorio del “giallo”, dove il regista gioca sul far credere allo spettatore che l'assassino sia uno rispetto che l'altro. Una lodevole scelta che, sebbene telefonata, testimonia come anche nel cinema d'explotation si tenda, spesso, a cercare qualcosa di diverso, pure con budget irrisori ed un comparto artistico di terza, o anche quarta scelta. 
Paulsen, inoltre, non vuole che i suoi personaggi siano semplice carne da macello, ma tende a donargli un loro personale spessore, una caratterizzazione che questi utilizza anche come critica all'odio che in quel periodo si aveva sulle minoranze. Non è un caso, quindi, che tra i protagonisti troviamo il politico corrotto, il giovane omosessuale preso di mira dai motociclisti, il ragazzo non propriamente “normale”, discriminato e considerato il primo colpevole per gli omicidi commessi (un a caratteristica presente anche in “Drive-in Massacre” di Stu Segall), tutti aspetti questi che rischiano di perdere efficacia a fronte di una recitazione non sempre ottimale, ma riescono comunque a colpire lo spettatore meno superficiale. Nel suo lato più “diretto”, come ogni film horror underground che si rispetti, la pellicola funziona ed intrattiene, con delle scelte azzeccate ed una buona costruzione della suspense nei momenti in cui il nostro assassino decide di porre fine alla vita delle sue vittime, con soggettive, “mirror shots” e sequenze dal montaggio frenetico, che si sposano a delle scene gore visivamente ben realizzate. 

Cromaticamente, ovviamente, si tende ad incentivare la sporcizia dell'ambientazione campagnola, con una fotografia che predilige il grigio della polvere ed il marrone del fango, dando allo spettatore una sensazione quasi di disgusto che esalta anche quell'aspetto di critica sociale accennato prima. 
Un film questo “Savage Weekend” che rappresenta un tassello fondamentale per lo sviluppo dello slasher come lo conosciamo oggi, anche se in qualche punto è possibile notare qualche ingenuità di scrittura, con una presenza di scene più o meno comiche che vanno a stonare con quell'atmosfera sinistra e sudicia che il film mantiene per tutti i suoi 88 minuti. 


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