giovedì 5 settembre 2019

L'altro invisibile

«... non c'è dubbio. Egli non è morto... Allora... allora... sarà dunque necessario che io mi uccida!».
Guy de Maupassant, che conclude con queste parole il proprio racconto del 1887 “Le Horla”, non riuscì però effettivamente a uccidersi come avrebbe voluto, pugnalatosi alla gola con un tagliacarte ma prontamente soccorso dai domestici, rimanendo così prigioniero dell'Altro, come lo definisce Alberto Savinio (fratello del celeberrimo pittore metafisico Giorgio de Chirico) in un saggio del 1944 dedicato allo scrittore francese, fino alla fine dei suoi (o Suoi) giorni. In teoria, fu la sifilide a minare la sanità mentale e fisica dell'uomo che aveva scritto “Bel-Ami” portandolo inevitabilmente alla morte in manicomio, dove lui stesso aveva aiutato i medici a rinchiudere il fratello solo alcuni anni prima. In pratica, quei giorni li visse cedendo la proprietà del proprio corpo ad un'entità invisibile ma tangibile (e ci risiamo) che aveva preso a perseguitarlo e tentato di imporre la Propria volontà su di lui. E questa è in due parole l'intera sinossi del racconto, scritto in forma di diario dallo sventurato protagonista perseguitato dall'Invisibile.
Ma chi o cosa sarebbe poi questo Horla? Chi è quest altro (o Altro) invisibile da cui prende il titolo il racconto stesso, con un neologismo che, a detta di Charlotte Mandell, in teoria non è nulla più che una sincrasi della parole francesi “hors”, “oltre” (se avete letto quest'articolo, lo identificherete facilmente con il “beyond” usato da Lovecraft), e “là” (“la”), dunque Horla è “la fuori”; in pratica “Le Horla” è “l'Altro”, e in tal modo andrebbe mentalmente tradotto secondo il suggerimento di Savinio, alla stregua del lovecraftiano “Outsider”, che poi è letteralmente tradotto così. Se poi fosse parola vera da potersi consultare su un dizionario, troveremmo scritto che
«[l]'avvoltoio ha divorato la colomba, il lupo ha divorato l'agnello, il leone ha sbarnato il bufalo dalle corna puntute, l'uomo ha ucciso il leone con la freccia, con la spada, col fucile; ma il Gorla [Savinio lo traduce così per riprodurre correttamente l'articolo determinativo] farà dell'uomo quello che l'uomo ha fatto del cavallo e del bove; la sua cosa, il suo servo e il suo nutrimento, con la sola potenza della sua volontà. Guai a noi!».

Con questa precisa identica citazione si apre la pellicola con cui nel 1963 Reginald Le Borg (“The Mummy's Ghost”, “Il sonno nero del dottot Satana”) alla sua ultima impresa cinematografica adattò il racconto per la Admiral Pictures di Robert Kent, che qualcuno potrebbe inizialmente scambiare per la American International di Roger Corman in ragione della doppia partecipazione al lungometraggio sia di Vincent Price (davvero volevate citati alcuni suoi film per capire chi fosse?) come attore protagonista che di Daniel Haller (“La morte dall'occhio di cristallo”, “Le vergini di Dunwich”) come scenografo: diciamocelo, i due veri pregi della pellicola che lascia alquanto a desiderare come adattamento dell'originale racconto di Maupassant, fondendone i soli gli elementi narrativi del Gorla, la scena dello specchio (brillantemente estrapolata dal racconto e recitata da Giancarlo Giannini in uno dei Racconti Neri che qualcuno ricorderà andarono in onda su Fox Crime) e la modalità della sua, come abbiamo visto, solo presunta disfatta finale, insieme ad altri provenienti dal racconto (pure recitato integralmente da Giannini) “Un pazzo” (“Un fou”; 1885); da qui l'effettivo titolo della pellicola “Diary of a madman”, da noi reso con più completezza come “Horla – Diario segreto di un pazzo”.
E infatti, dopo una sequenza di apertura in un cimitero assolutamente identica a quella di “Sepolto vivo”, solo dell'anno precedente, veniamo introdotti all'apertura e conseguente lettura (con conseguente rappresentazione visiva del testo che costituirà il nucleo della pellicola) di un diario redatto dal defunto, un giudice proprio come nel racconto “Un pazzo”: tuttavia, Simon Cordier (Price) è un vero magisitrato integerrimo, seppur roso dal senso di colpa per il suicidio della moglie (la prima di una serie di sottotrame aperte e lasciate perdere), decisamente lontano da quello solo apparentemente tale che il racconto di Maupassant rivela quale ipocrita omicida reso mentalmente instabile (o forse no) dalla presa di coscienza che il tabù dell'uccidere sia soltanto un innaturale costrutto mentale dell'uomo; oltre a ripresentare il tema della pazzia che il pupillo di Flaubert sentiva molto (anche troppo) vicino, il racconto era un esempio calzante dell'assoluta mancanza di fede (in tutti i sensi) nella moralità del genere umano, che mal si presta ad una rappresentazione del male convenzionale come quella che emerge dalla pellicola di Le Borg, dove il riflesso di un crocifisso sulla lama di un pugnale permette a Cordier di liberarsi della temporanea presa che il Gorla ha stretto su di lui. Cionondimeno, tali scelte narrative sono probabilmente più da imputarsi alla produzione, dal momento che essa fu pure contraria a disumanizzare la voce dell'Invisibile distorcendola come voleva il regisa, benchè il lavoro di doppiaggio accreditato a Joseph Ruskin (comparso in diversi episodi ed un film di “Star Trek”, sul web girano alcune supposizioni sul fatto che il doppiatore sia un altro) resti comunque apprezzabile.
Inoltre, il personaggio interpretato da Kim Kovack (Medea nel “Gli Argonauti” dello stesso anno che avrebbe poi ispirato Raimi per “L'armata delle tenebre”), rappresenta senz'altro uno dei punti d'incontro più interessanti tra l'opera di Le Borg e De Maupassant: giovane e ambiziosa modella di cui il giudice, che si diletta di scultura, si innamora, dopo che la sua convinzione di soffrire di allucinazioni dovua alle prime manifestazioni del Gorla/Horla costretto a separarsi dall'uomo che il giudice uccide accidentalmente, lo spinge a concedersi un po' di meritato riposo (la sculura insomma diviene per lui quello che l'idroterapia dovette essere per Maupassant), il suo personaggio tende, seppur in maniera molto vaga e poco utile alla trama, a ricordare l'onnipresente opportunismo borghese e l'implacabile edonismo umano che permea l'intero opus dello scrittore normanno, dal momento che la donna parrebbe essere esclusivamente interessata alla sola posizione economica dell'ingenuo Simon. Tuttavia, il tentativo di inserire questa tematica si rivela, come già accennato, scialbo e blando, in quanto il sospetto dello spettatore non fa in tempo a destarsi che la ragazza diviene la prima e unica vittima del Price “horlizzato”, e che lo stesso Horla aveva insinuato il dubbio nella mente dell'innamorato protagonista, a piuttosto insulsa nuova degradazione del nostro essere incorporeo a mero spiritello ingannatore e traviante che nel racconto, ovviamente, non proferiva parola. Niente a che vedere con il possibile esponente di un'intera razza di Invisibili che, in un'anticipazione della rivoluzione artisica di Howard Phillips Lovecraft, potrebbero aver abitato il nostro pianeta da tempo immemore prima che ci accorgessimo con i nostri «miserabili sensi» della loro presenza. Il film però preferisce rifarsi ad una logica più semplice e accattivante, e così quel che vale veramente la pena ricordare del personaggio della Kovack è la sola scoperta da parte del giudice della sua testa decapitata al di sotto del busto di cera che lui aveva scolpito, nella speranza di fare il verso allo stratosferico (o stereoscopico) successo che esattamente dieci anni prima aveva avuto Price ne “La maschera di cera”.
Parlando più nello specifico dell'invisibile persecutore, anche in questo caso il film difetta, più che di una vera e propria fedeltà di cui chi scrive non è mai alla ricerca, di una pura e semplice ragion d'essere della sua modificata natura: la scelta di far parlare il Gorla è ovviamente quasi necessaria da un punto di vista cinematografico, ma dopo un po' i dialoghi tra Price e l'invisibile cominciano inevitabilmente e stancamente a ripetersi, lasciando sulle sole spalle del pur bravissimo attore il peso di portare avanti la scena, perlomeno fino a quando una fin troppo retrò luce azzurrina sugli occhi del giudice ci avverte che l'entità lo ha posseduto (solo vaga reminescenza della profondissima inquietudine che si respirava nei confronti del mesmerismo e dell'ipnosi nel racconto originale) e che Vincent Price è pronto ad uccidere il proprio canarino (citazione diretta a “Pazzo”) o la Kovack; si vede da sé l'incapacità e conseguente pochezza di impiego di un'intuizione artistica che si sarebbe prestata alle più svariate chiavi di lettura: dall'insita duplicità dell'essere umano, qui liquidata perfino quando staremmo quasi per credere che il giudice cerchi nel confronto con gli altri di proteggere sé stesso da un'accusa di omicidio piuttosto che obbedire al suo aguzzino, dubbio subito fugato dal modo in cui in privato riprende la propria battaglia per il governo del proprio corpo; fino a tutte le innumerevoli fisime e nevrosi che perseguitano ciascuno di noi, come lo stesso Maupassant aveva prima ancora di contrarre la sifilide, a fronte, giusto per citare gli esempi che più saltano all'occhio, di un padre assente (o invisibile) dalla nascita e di una madre che volle per lui ad ogni costo una notorietà (o non invisibilità) letteraria (così ironicamente dissimile dal successo quasi casuale e disinteressato che Price ebbe in negli anni precedenti all'interno del panorama orrorifico).
Invece, qui più in la di urlare un paio di minacce a Price, sghignazzando in una voce troppo composta e troppo volutamente e artificiosamente malvagia per risultare inumana e far cadere vasi in giro per la casa per la disperazione del povero maggiordomo di casa Cordier (interpretato da un Ian Wolfe rimasto uguale identico a quando interpretava sempre un maggiordomo che pare lo stesso più di venti dannatissimi anni prima ne “Il prigioniero di Amsterdam”) il nostro Invisibile non si spinge; trascurabili tutti gli altri personaggi, dal pittore e (ex) marito della Kovack che viene accusato ingiustamente al capo delle forze dell'ordine convinto sostenitore della pena capitale, che non riescono a tenere viva una potenziale critica al sistema giudiziario della Francia dell'Ottocento per più di cinque minuti. Ma è per l'appunto la presenza di una motivazione così manichea nell'operato del Gorla, piuttosto che un disegno non meno imperscrutabile delle sue fattezze, la differenza più grande tra racconto e pellicola ed il più grande difetto di quest'ultima: il fatto che l'Invisibile, per sua stessa ammissione, si “nutra di malvagità” passi pure per quanto semplicistico, ma fargli affermare che “L'odio è male” comincia a semplificare molto di più, concettualmente parlando, della mera diegesi della storia.
Tuttavia, ancora una volta le giusificate inefficienze di un lungometraggio nel portare nel regno dell'Immagine una narrazione senza immagini e su di un Senza Immagine viene smentita da un prodotto di minore durata e ambizione: tre anni dopo la pellicola di Le Borg venne infatti diretto questo piccolo gioiellino francese di poco più di mezz'ora post Nouvelle Vague (e si vede), ad opera di tal Jean-Daniel Pollet e intitolato appuno “Le Horla” (potete vederlo con sottotitoli inglesi qui) La ricorrente immagine di una barca vuota (e fastidiosamente dipinta di giallo), fatta eccezione per la presenza a bordo di un registratore, a mollo nell'acqua, che come fa notare sempre Savinio e come già avevamo accennato doveva essere oggetto di una bramosia estremamente radicata nel Maupassan uomo e nel Maupassant folle prima ancora che nel Maupassant scrittore, si alterna con un montaggio stupefacente alle diverse fasi della persecuzione del solitario attore e protagonista, le cui parole sono uguali identiche a quelle del racconto e per sempre racchiuse con il loro orribile segreto nei nastri del registratore: questa messa in scena, forte di una fotografia (prevalentemente blu) ricchissima ma che mai si presta a trasmettere qualcosa di più di un terribile senso di angoscia e solitudine stretto entro i netti confini dei colori primari di giorno o delle ombre soffocanti la notte e che nulla ha da invidiare la scenografia naturale a quella più costosa di Haller, «serve ammirevolmente la storia originale racchiudendo le suggestioni di possesso e follia nell'inflessibile cadenza di un fatalismo incombente» (Jonathan Rosenbaum); inutile dire che la narrazione è estremamente fedele nella forma e nella sostanza in tanti altri piccoli dettagli (l'appettito per l'acqua e per il latte del Gorla, l'episodio della rosa) e che l'Invisibile torna ad essere l'imperscrutabile presenza maupassantiana piuttosto che una voce scorporata di un mero villain alla Jack Griffin. E la barca vuota rimane a muta testimonianza del fatto che, come detto all'inizio e contrariamente alla pellicola del '63, che l'Altro non può essere ucciso.
Non può essere ucciso perché il Gorla è un Altro invisibile solo teoricamente, mentre in pratica esso non è né meno (né più) reale della nostra percezione fallace e nevrotica di ciò che ci circonda. Esso è e non è allo stesso tempo in quanto entro la portata della nostra percezione e al di fuori di essa, come tutte le cose che crediamo di conoscere ma che vediamo solo con le limitazioni sensoriali di cui disponiamo, di cui il pensiero umano ci ha reso consapevoli dalle speculazioni totalmente filosofiche di Parmenide a fino a quelle scientificamente indagabili di Thomas Nagel. In questo Maupassant è diverso, e non superiore come una volta tanto dice erroneamente Savinio, da Poe e al suo utilizzare le psicosi mentali dei suoi narratori come ambigue demarcazioni tra una realtà sovrannaturale, e di fattura più elevata a livello orrorifico, ed una reale; ma in Maupassant a parlare non è la voce di un pazzo, bensì la voce della pazzia (e del Gorla...solo metaforicamente per fortuna), che ci sussurra all'orecchio dicendoci che l'essere un mero stato psicologico piuttosto che un fittizio mostro invisibile (proprio perché fittiziamente è entrambe le cose, non o l'una o l'altra) non lo rende meno insistentemente alla ricerca della nostra attenzione. E anche se non lo vediamo dobbiamo concedergliela. Anche se non è chino su di noi a osservarci mentre scriviamo (o leggiamo) o in nessun altro posto, dobbiamo convincerci che lui invece è proprio lì a spiarci. Sempre e dovunque. E per farlo smettere è necessario uccidersi.

Articolo di Donato Martiello, revisione di Sergio Novelli e Robb P. Lestinci

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