giovedì 26 settembre 2019

La sanguinosa resurrezione di Hans Gruber (Parte Seconda) - Re-Animator sviscerato (Capitolo Primo)

ATTENZIONE: Questo articolo è il secondo della serie ed il secondo del capitolo dedicato alla sanguinosa resurrezione di Hans Gruber, consigliamo la lettura dei precedenti paragrafi (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Primo, Paragrafo Secondo
Estetica, mad doctors, black humor

In Re-animator il siero di cui abbiamo parlato nel primo articolo, chiamato a più riprese (come nel racconto) “reagente”, compare per la prima volta in uno scantinato claustrofobico che, come gran parte degli ambienti della pellicola, nota ancora Worland, «richiamano le visioni chiuse dell'Espressionismo»: ambienti cupissimi in cui, grazie alla fotografia di Mac Ahlberg che non esitò a dare a Gordon consigli e aiuti con la macchina da da presa, e grazie alle scenografie dello stesso Robert A. Burns che aveva creato l'indimenticabile casa-ossario di Non aprite quella porta (1974; The Texas Chainsaw Massacre); vi si scontrano «colori forti e saturi con illuminazioni soffuse e ad alto contrasto tipiche del genere, in particolare il reagente dal forte colore verdastro e fosforescente contenuto nelle siringhe del mad doctor Herbert West ed i fondali neri [dello scantinato] – composizioni che evocano sia i laboratori della fantascienza del dopoguerra che […] La maschera di Frankenstein della Hammer, i cui colori tenui mettevano in evidenza gli sprazzi di rosso e blu acidi» 
(R. Worland, The Horror Film: An Introduction, cit., p.244).

Per via del budget limitato ($900.000), la città di Arkham del fittizio New England lovecraftiano non compare mai e tutta la vicenda si svolge quasi esclusivamente negli interni del Dipartimento di Medicina, e nell'annesso ospedale, dell'altrettanto fittizia e lovecraftiana Miskatonic University, messi sapientemente in scena dal regista in modo tale da convertire la mancanza di mezzi in un'ambientazione simile a quelle del cinema del terrore degli anni '30 dove «le vicende hanno luogo in un'acronica e surreale terra di nessuno» (R. Curti, Demoni e dei. Dio, il diavolo, la religione nel cinema horror americano, cit., p. 333); un'atmosfera «intima» secondo il compositore Richard Band, motivo per il quale ha sostituito gli strumenti a fiato a quelli a corda per la propria versione della theme di Psycho (1960; Psyco) cui accennammo, depotenziando la storica colonna sonora per creare una nuova melodia sinuosa e sottile e a cui si conforma la gran parte del soundtrack restante e totalmente originale.
È proprio nell'infestata città di Arkham che lo spettatore vedrà Herbert West trasferirsi dalla Svizzera per riprendere i propri studi accademici e non, e tra i corridoi e l'obitorio della Miskatonic University faranno insieme la conoscenza del rigido preside puritano Alan Halsey, dell'ambizioso e frustrato professor Carl Hill e dello zelante e promettente studente in medicina Daniel Cain, che, in una situazione già nel racconto di Lovecraft memore della “strana coppia” formata dal geniale Sherlock Holmes e dal rapito dottor John Watson (non a caso Cain è la controparte cinematografica dell'io-narrante del racconto), prende in casa come coinquilino il giovane mad doctor. Ed è proprio in casa sua, nello scantinato di cui sopra, che il gatto viene riportato in vita dinanzi agli occhi del suo padrone, che è proprio Cain, nel tentativo di West di convincere il giovane ad aiutarlo nei propri esperimenti.

Intanto  si è avuto tempo a sufficienza per conoscere questo novello mad doctor e per notare come egli ricordi, più che il tormentato Victor Frankestein nella Shelley o il redento (già a partire dalla seconda metà del primo film di Whale) Henry Frankenstein di Clive, l'incarnazione del suo progenitore gotico a cui diede vita, proprio ne La maschera di Frankenstein (1957; The Curse of Frankenstein) di Terence Fisher, Peter Cushing, il quale, racconta Luigi Cozzi, «prese la parte del barone e la fece sua, evidenziando con il suo fascino la crudeltà spietata che rendeva quel personaggio molto più spaventoso della sua creatura» (L. Cozzi [a cura di], Peter Cushing. Dalla Hammera Guerre Stellari, Profondo Rosso, Roma 2003, p. 84).
Sebbene, lo vedremo spesso, Herbert West non sia un individuo certo peggiore dei personaggi che lo circondano, l'ormai iconica interpretazione che ne diede Jeffrey Combs - un misto tra lo sguardo penetrante e il portamento superbo di Cushing insieme con un un cinico sarcasmo e un'esaltazione infantile di fronte agli orrori da lui stesso creati - comunque lo renderanno il villain principale almeno, come sempre sottolinea Worland, per la prima parte della pellicola, come quando senza tante cerimonie invade l'ambiente privato di Cain dopo essere stato introdotto da un'inquadratura che, come da manuale, lo riprende leggermente dal basso e si avvicina sempre di più al volto dell'attore, «proclamando avidamente lo scantinato come proprio luogo di lavoro, tipici segnali del sognatore pericoloso»; eppure «la performance glaciale ma travolgente di Combs è cruciale visto che dovremo avere in simpatia West, o almeno esserne un po' intrigati, come scrive il già citato Worland.

Questo carisma, che soggioga sia lo spettatore che Cain, non gli impedirà, proprio come Cushing, di «creare addirittura [più di] due volte la sua mostruosa creatura [...] [e di] ricorrere al delitto», rendendosi colpevole di tutte le tragedie che avverranno in un film che, proprio come La maschera di Frankenstein, «si segnala per l'estrema graficità dei dettagli orrorifici che presenta» 
(L. Cozzi, Hammer.La fabbrica dei mostri, Profondo Rosso, Roma 1999, p. 44): il primo esperimento condotto su un cadavere particolarmente nerboruto dell'obitorio (Peter Kent, all'epoca stuntman di Arnold Schwarzenegger) condurrà alla violenta uccisione del preside da parte dello stesso, dopodichè sarà proprio West a porvi fine trapassando lo zombie da parte a parte con una piccola sega circolare per l'apertura della scatola cranica «con lo stesso disprezzo con cui si schiaccerebbe un insetto», a detta del critico Worland; una sequenza in cui il sangue sconvolge tanto quanto all'epoca, nel film di Fisher, la scena in cui «il Mostro viene sparato nell'occhio, e dalla ferita esce più sangue di quanto se ne fosse mai visto prima sullo schermo» (E. Lieberman, Frankenstein at the boundaries of life, death, and film, in S. Perkowitz – E. von Mueller [ed.] Frankenstein:How a Monster Became an Icon, cit., p. 64). Ovviamente il primato era già stato largamente superato e la scena di Re-animator è decisamente più sanguinolenta.
A questo punto West, assolutamente indifferente alla morte del preside, decide di sfruttarlo subito come più fresca e promettente cavia (come nel racconto, sebbene il preside fosse morto per l'epidemia di tifo che avrebbe investito Arkham agli inizi del secolo). Invece, Cain che l'aveva assistito nell'esperimento è rimasto tremendamente sconvolto, ma si lascia trascinare passivamente nel nuovo tentativo di rianimazione da West e dalla sua contagiosa convinzione e veemenza nell'affermare che possono ancora salvare sé stessi e l'uomo che, se qualcuno scoprisse l'accaduto, teoricamente avrebbero appena assassinato.

Questa sottomissione, molto insolita visto che dal punto di vista fisico e sociale il prestante, estroverso e “alla mano” Daniel Cain sarebbe superiore (scenicamente parlando è perfino più alto) al gracile, introverso e pedante Herbert West, diventerà ancora più complessa nel sequel del film grazie alla recitazione di Bruce Abbott, che interpreta sempre Cain, ancora più convincente, dove il personaggio è più volte preda di improvvisi e passeggeri rimorsi di coscienza e attacchi di depressione di fronte all'annichilimento continuo da parte di West e dei suoi esperimenti di ogni tentativo e ideologia del futuro medico che siano rivolti ad aiutare e curare il prossimo: memorabilmente esplicativa sarà la scena dove Cain sarà incapace di portare a termine, per via di uno di questi abbattimenti emotivi, l'intervento critico su una paziente cui si era particolarmente affezionato, dovendo così lasciare le redini dell'operazione all'ormai dottor West che, morta la paziente, tiene le mani grondanti di sangue alte davanti a se, inquadrato all'interno di un mezzo primo piano in modo tale che esse si trovino tra sé e lo spettatore, con il palese effetto di focalizzarne lo sguardo su di esse prima ancora che sul loro proprietario; una rappresentazione visiva, a nostro dire, decisamente potente sul dramma tragico(mico), su cui torneremo alla fine, del frustratamente idealista Daniel Cain e di come abbia indissolubilmente legato la propria esistenza ad un individuo che, in nome del prolungamento della vita stessa, non fa che uccidere o causare la morte di chi gli sta intorno. E non è un caso che il titolo del sequel del 1989 sia Bride of Reanimator (in italiano semplicemente Re-animator 2), ovvero “La moglie del rianimatore”, omaggio a quel capolavoro che fu La moglie di Frankenstein (1935; The Bride of Frankenstein) di James Whale, seguito diretto del suo Frankenstein. Infatti, i rapporti di forza che intercorrono tra Daniel Cain e Herbert West sono identici a quelli tra Henry Frankenstein e Septimus Pretorious,
«un personaggio partorito dalla fervida immaginazione di Whale durante il lavoro di sceneggiatura: serviva un motivo scatenante che facesse riprendere ad Henry i suoi esperimenti dopo le sciagure appena trascorse; qualcosa o qualcuno che gli facesse da coscienza malvagia e gli istillasse subdolamente la curiosità di continuare. Come nel Faust, Pretorius è una sorta di Mefistofele per Frankenstein, come nota Clive Barker, […] è lui che vuole spingersi oltre la moralità con i suoi esperimenti, mentre Frankenstein tenta di resistere in nome della scienza
razionale». 
Allo stesso modo Cain è inevitabilmente coinvolto nelle efferatezze di West per ingenuità, casualità degli eventi e, come si vedrà meglio alla fine di questa tesi, per il suo innato altruismo che non è proprio quel che sembra. E proprio come West, il personaggio di Pretorius, interpretato da Ernest Thesiger, si fa carico, tra gli altri, di uno dei momenti di più sfacciato ed irresistibile black humor di cui il La moglie di Frankenstein trabocca: ovvero, quando brinda, al lume di candela, a un cumulo di ossa poste sopra una bara che fa da tavolo per il banchetto, senza che il film, esattamente come Re-animator, rinunci alla propria valenza orrorifica o drammatica.
La messa in scena di Gordon si conforma al rapporto di subordinazione tra i due protagonisti quando, sempre nello scantinato, West si erge in piedi, col reagente in mano, accanto a Cain seduto vicino a lui, proprio come erano rispettivamente in piedi e seduto, nel laboratorio di Pretorius, questi e Colin Clive, la cui presenza in scena era “provvidenzialmente” quasi sempre a sedere per via di una gamba rotta.

Altro elemento presente e mai abbastanza apprezzato in Re-animator è un rutilante e irriverente disprezzo per l'autorità costituita: lo spettatore tenderà comunque a preferire l'insubordinata apertura mentale del personaggio di Combs al bigottisimo del preside Halsey, la cui spropositata reazione quando viene a sapere dell'esperimento tenutosi sul gatto è quella di danneggiare sul piano accademico anche Cain che, in fondo, non aveva alcuna colpa (la scena aveva una valenza perduta con l'eliminazione di alcune scene); o tenderà a patteggiare per la pericolosa genialità del giovane rianimatore piuttosto che per l'ottusa saccenza del professor Hill, soprattutto quando, durante una scena esilarante, West continua ad interromperlo provocatoriamente spezzando delle matite mentre il professore tiene una lezione sui sei-dodici minuti che, a suo dire, trascorrerebbero tra la morte del corpo e quella del cervello, sede della coscienza (teoria che, per ovvie ragioni ma anche per via di un plagio che Hill avrebbe perpetrato ai danni del compianto dottor Gruber, lo studente non approva).
Situazioni, queste, impossibili da non associare alla sequenza in cui Pretorius mostra a Frankenstein i propri uomini in miniatura, i soli ai quali sia riuscito a infondere la vita fallendo nel creare un essere umano a grandezza naturale: sono per la maggior parte rappresentanti delle istituzioni dello Stato e della Chiesa (un re, una regina, un Papa e il Diavolo stesso), che Alvise Barbaro a ragione vede come «un'ironica presa in giro della società, fatta da individui “piccoli” di spirito e attenti a preservare il loro ruolo in una vita falsa e ipocrita» (Ivi, p. 82), come gli accademici di Re-animator.

È anche vero che la stessa intera vicenda del dottor Frankenstein, che la si veda come messa in discussione dei dogmi religiosi o come l'imporsi di nuove scoperte scientifiche, contiene già da sé un insito rifiuto delle istituzioni e conseguentemente lo trasmette a tutti i propri epigoni: si pensi solo alla somglianza tra l'improvvisato prologo di Re-animator e la scena (assente nel romanzo) del Frankenstein di Whale dove il Mostro prende vita dinanzi a un pubblico tra cui figura pure lo scettico professore interpretato da Edward Van Sloan (il Van Helsing che combatte Bela Lugosi), o al fatto che sia il personaggio di Combs che quello di Cushing uccidano sempre un professore per i propri scopi. Ma il film di Stuart Gordon non può che costituire un esempio unico nel suo genere di beffarda carica sovversiva e anti-istituzionale (pure ai danni dei “puristi” dello scrittore di Providence, ma ne parleremo meglio poi), con la sua ambientazione universitaria, regno dove burocrazia e formalità si contrappongono al supposto ampliamento incondizionato del sapere, e che invece verrà costretta a rivelare la sua reale natura quando il doppio contrasto creato da orrori spropositatamente fuori luogo tanto spaventosi quanto comici ne metteranno brutalmente e satiricamente a nudo le ipocrisie, in un anarchico spargimento di sangue e viscere e che, proprio come la rianimazione farà nel prossimo capitolo, rivela la vera natura degli uomini.
Inoltre, chi a questo punto volesse ancora tacciare il film di Gordon di un'insensata commistione tra commedia e orrore dovrebbe prima vedersela con un caposaldo del cinema come la pellicola di Whale, che peraltro già aveva brillantemente inserito quello stesso «contrasto tra humor e tensione» nel film dedicato ad un altro mad doctor della Universal, L'uomo invisibile (1933; The Invisible Man),di cui abbiamo parlato largamente qui, sempre esasperando gli elementi comici e grotteschi che già erano presenti nel romanzo originale di Herbert George Wells.

Chiudiamo questo primo discorso sul black humor di Re-animator ricollegandoci ad un'ultima e famosa variazione del tradizionale mito di Frankenstein: Frankenstein junior (1974; Young Frankenstein) di Mel Brooks, parodia proprio dei due film di Whale, con qualche elemento estrapolato dai sequel Il figlio di Frankenstein (1939; The Son of Frankenstein) e Il terrore di Frankenstein (1942; The Ghost of Frankenstein): capire in cosa differiscano la comicità di Reanimator e quella di Frankenstein junior, pur riconducendo entrambi alla medesima icona del genere, non è difficile, ma si rende assolutamente necessario per tenere la giusta distanza tra il film di Gordon e l'attributo “parodico”. In ciò ci è di grande aiuto di nuovo Barbaro che, attraverso l'analisi del film di Brooks, si dilunga a sufficienza sull'argomento.
Anzitutto, parlando di parodia s'intende «un ipertesto, frutto di un elaborato lavoro di riscrittura» che riprende da un testo, chiamato “ipotesto”, elementi linguistici e meccanismi del media in questione ricontestualizzandoli attraverso cinque procedimenti: «la reiterazione, la decostruzioneinversione,la letteralizzazione, l'inclusione di un elemento estraneo e l'esagerazione». Inoltre,
«la comicità è solo la punta dell'iceberg, la naturale conseguenza di un lavoro di riscrittura critica ben fatto. E […] solo chi ha una grande conoscenza del genere parodiato riuscirà a godere a pieno del film, accostandosi ai suoi diversi piani di lettura e cogliendo tutti i riferimenti ipertestuali presenti al suo interno»
(Ivi, p.107).
Si è già detto, e si vedrà sempre meglio, come Re-animator non decostruisca affatto il testo di partenza, che è Herbert West – Rianimatore che pure abbiamo definito a sua volta un racconto troppo indipendente dal Frankenstein della Shelley perchè ne sia qualcosa di più di una semplice derivazione; e pure si è detto come non ricorra assolutamente ad un citazionismo ammiccante o ad una fedeltà formale che sono alla base dei primi quattro procedimenti, ma molto semplicemente esaspera ricorrendo quindi alla sola esagerazione di quei caratteri che già avevano una loro sottile vena umoristica, esplicita o potenzialmente sovversiva nell'ipotesto; cosicchè, per fare un esempio, l'innaturale imperturbabilità di fronte agli orrori più assurdi del portamento di Jeffrey Combs, che lo spettatore sente fin da subito assolutamente naturale e parte del carattere del personaggio, non è comicamente “fuori luogo” come l'ancora più seria, e di conseguenza macchiettistica, «recitazione di [Gene] Wilder, sempre sopra le righe, come nella scena della lezione universitaria o quando pronuncia un panergico sulla vita, apprestandosi ad ultimare l'esperimento» (Ivi, p. 114), che cerca di ricalcare fedelmente ogni singolo topoi dell'iconico mad doctor; piuttosto è un mantenimento della medesima freddezza e indifferenza del personaggio lovecraftiano anche dinanzi a situazioni più “spinte” della storia originale.
Infine, in Re-animator non solo chiunque può lasciarsi trascinare dall'ilarità e dal disgusto pur non conoscendo assolutamente il racconto di Lovecraft (come prova il fatto che il film fu un successo al botteghino, vinse un premio a Cannes e fu apprezzato dal critico Roger Ebert), ma comicità e orrore risultano ugualmente importanti e “due facce della stessa medaglia”, vista la capacità delle commedie, per citare ancora Kawin, di «integrare i mostri e gli elementi di disturbo dell'horror in un mondo che rimane fondamentalmente comico» (B.F. Kawin, Horrorand the horror film, cit., p. 198): Re-animator non ha bisogno di essere solo una commedia (come non è soltanto un film dell'orrore) per fare ciò visto che, come vedremo, il mondo di Lovecraft, che poi sarebbe quello reale, è già “comico” di suo.

Chiudiamo il capitolo ricordando che, oltre al già citato Re-animator 2, il film ha avuto un terzo sequelBeyond Re-animator (2003; Id), ed entrambi sono brillantemente diretti dal produttore della prima pellicola, Brian Yuzna. Parleremo meglio di entrambi in seguito, ma per ora ci interessa sapere come fino a questo terzo capitolo il dottor West non riuscirà mai a spiegarsi fino in fondo il comportamento violento dei propri resuscitati (nè sembrerà troppo intersessato a farlo), e solo in Beyond Re-animator tenterà di darsi una risposta e di recuperare la coscienza dei trapassati.

Ovviamente il tentativo resterà vano, e ora nel prossimo articolo, vedremo perché.


Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva, adattato come articolo da Robb P. Lestinci

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