giovedì 12 dicembre 2019

Re-Animator ed il cinema Lovecraftiano - Re-Animator Sviscerato: L'Ultimo Esperimento (Parte Prima)

ATTENZIONE: Questo articolo è il nono della serie ed il terzo del capitolo dedicato agli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore, consigliamo la lettura dei precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Quarto, Paragrafo Terzo
Cinema, letteratura e Cosmic Horror

Sperando di aver indotto nel lettore quantomeno un vago senso di rispetto per le pellicole finora trattate, è giunto finalmente il momento di chiedersi cos'è che le renda per la maggior parte e nella maggior parte dei casi così invise a molti dei sedicenti amanti e studiosi dell'opera di Howard Phillips Lovecraft, e quanto siano solide le basi su cui si fonda tale giudizio. Ovviamente il nostro discorso tenderà a far capo principalmente a Re-animator, ma la condivisione di stili e tematiche che, come visto, sussistono tra molte delle opere succitate permetterà di condurre un discorso più generalmente legato al moderno cinema “lovecraftiano” (termine con cui abbiamo finora inteso impunemente come “giustificabile anche dalla sola presenza di riferimenti narrativi ai racconti dello scrittore”, ma che adeso analizzeremo meglio) di Gordon e Yuzna, accennando pure a qualche altro esempio degno di nota di quella che abbiamo definito la “seconda wave” di questo cinema.
In realtà, ormai, chi non l'avesse si dovrebbe anche essere fatto un'idea generale piuttosto chiara dei temi stilistici e contenutistici ricorrenti nel corpus dello scrittore di Providence, spesso e volentieri diversi da quelli dello specifico racconto Herbert West – Rianimatore, e, pur non pretendendo di riuscire a sviscerarne in poche righe la compessità, si proverà quantomeno a compendiarne con sufficiente chiarezza il minimo comune denominatore, ovvero la primigenia concezione estetica da cui tutti sorgono; tale era il pensiero di Lovecraft in proposito:
«Per essere arte autentica, la narrativa weird deve anzitutto cercare di cristallizzare o simbolizzare un particolare stato d'animo – e non descrivere degli eventi, poiché gli eventi in questione sono naturalmente in larga misura fittizi e impossibili. Questi eventi dovrebbero restare sullo sfondo - l'atmosfera viene prima. Tutta la vera arte dovrebbe essere in qualche modo collegata con la verità, e nel caso del weird occorrere insistere sull'unico elemento capace di rappresentare la verità – certamente non gli eventi (!!!), ma lo stato d'animo legato all'intensa – per quanto sterile e illusoria – aspirazione dell'uomo a sconfiggere le leggi dell'universo e a trascendere l'esperienza umana.» (Teoria dell'orrore. Tutti gli scritti critici, G. de Turris (a cura di), cit., p. 519)

Come quello che potrebbe essere “cristallizzato e simbolizzato” attraverso l'idea della rianimazione dei morti. Lovecraft aveva principalmente affidato questa sua innovativa concezione estetica nell'ambito della fiction, più che semplicemente horror, “di cupa fantasia”, e che lui stesso definiva weird, accostando all'orrore per l'ignoto anche un più “romantico” sense of wonder (che palesemente in Re-animator non è più presente che nel suo racconto d'origine), ad un corpus narrativo la cui coerenza e consapevolezza diegetiche andarono sviluppandosi nel corso della sua vita (D. W. Mosig, Lovecraft mitografo, in I Miti di Cthulhu, G. de Turris – S. Fusco), fondamentalmente basato su di una 
«mitologia negativa di orrori multidimensionali a cui talvolta si da il nome di “Ciclo dei Grandi Antichi”, venuti sulla terra da altri mondi alla maniera degli ultracorpi e della Cosa […]: Dagon, Yog-Sothoth, e Shub-Niggurath […]. Lovecraft scrisse anche di esseri senza nome che è possibile comprendere soltanto tramite i loro attributi sensoriali, come l'entità che da il titolo al Colore venuto dallo spazio» (T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umanaa, cit., p. 182):
Un vero e proprio pantheon totalmente fittizio e assolutamente mostruoso, ricorrente personificazione della «posizione insignificante e priva di senso dell'uomo in un immenso universo meccanico e privo di scopo, governato da correnti di forze cieche e impersonali» (Mosig). Tuttavia, la conferma di quanto afferma Lovecraft, ovvero della poca rilevanza del contenuto narrativo in sé per giungere al suo ideale di letteratura weird, e che noi ci permettiamo di estendere all'horror puro e semplice in quanto considerabile un “sottogenere” della stessa, e della non necessità di mantenere suddetto schema mitologico o, più in generale, la specifica influenza di spaventose intelligenze aliene per il soddisfacente raggiungimento di un senso di orrore che sia effettivamente “cosmico”, se proprio non “lovecraftiano” come solo qualcosa scritto da Lovecraft stesso potrebbe essere, deriva dall'analisi che Ligotti fa di quella che, non a caso, avevamo definita una “detective story gotica”, dove sono le investigazioni del dottor Willett a portare alla luce ciò che è realmente accaduto a Charles Ward:
«il fatto che sia posseduto dal suo antenato Joseph Curwen, maestro di arti occulte, è soltanto funzionale a scopi più grandi, per raggiungere i quali è occorsa un'eternità […] - Il caso di Charles Dexter Ward emerge da un'immaginazione tutt'altro che ossequiosa verso tradizioni e dogmi, e il suo autore porta la disillusione al massimo grado possibile presupponendo lo stesso universo senza senso che diventerà poi il punto di partenza per diversi investigatori scientifici e filosofici» (Ligotti 117).
Anche qui emergono aspetti che ormai ben sappiamo essere propri dello stesso Re-animator, dall'intenzione di “spingersi oltre” che a ragione Paoli vedeva quale grande punto di d'incontro fra la sue sceneggiature outrè e l'elegante opera di Lovecraft, all'impiego della ricerca scentifica quale mezzo per svelare i meccanici e insensati ingranaggi che regolano esistenza umana all'interno di un cosmo “cieco e idiota” come il supremo dio Azathoth. 

Ma è pure giunto il momento di guardare all'altra faccia della medaglia, ovvero il passaggio concreto di questi concetti estetici e filosofici dalla letteratura al cinema: Rosati è tra quelli che hanno analizzato le dinamiche di tale passaggio, proprio in relazione all'opera di Lovecraft, dicendo che
«un'opera scritta non può rivivere completamente in un film, di essa è possibile far sopravvivere solo ciò che ne caratterizza l'essenza, il significato, incarnate dallo stile proprio a ogni autore. Nel nostro caso,  quello spesso ellittico di HPL, nel quale sovente si evita una descrizione diretta del mistero e dell'incubo, rende la riproposizione su pellicola della parola scritta un compito arduo, ma non impossibile. […] L'unico modo per fare ciò risiede nell'uso del movimento di pensiero tra le arti e la trasposizione costituisce proprio tale movimento. Ciò permette, durante la rivisitazione di un'opera in un'arte diversa da quella di partenza, il mantenimento del suo significato, sebbene cambino inevitabilmente molte caratteristiche: ad esempio, le descrizioni a focalizzazione zero di un racconto diventano discorso diretto in un film. In tale modo muta la forma dell'idea, ma non il senso» (R. Rosati, Lovecraft e il cinema, tra forzature e misinterpretazioni, in A. Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, cit., pp. 209-210).
Assolutamente niente da obbiettare, non fosse che subito dopo Rosati afferma che la potenzialità di Lovecraft di essere sottoposto ad un tale passaggio transmediale «è stata spesso accantonata, preferendole delle interpretazioni sensazionalistiche, con vari ammiccamenti alla sessualità»; tuttavia, se è vero che il «lavoro di decodificazione e riespressione di un concetto precedentemente sviluppato […] può beneficiare di una forma del tutto nuova: l'espressività di un'altra arte, e di conseguenza presentarsi al pubblico come un'opera del tutto rinnovata» (212), non è chiaro quanta influenza sul significato possa effettivamente avere una forma sensazionalistica o meno di tale decodifica, tanto più se ci muoviamo in un campo estetico dove gli eventi in sé possono dimostrarsi totalmente insignificanti. Un'interessante aggiunta al discorso è il fatto che Lovecraft stesso (nato 1989 e morto nel 1937) non fosse un grande estimatore dell'approccio che la neonata settima arte  aveva riservato al genere a lui tanto caro («Non permetterò mai che un testo con la mia firma venga banalizzato e volgarizzato in quella sorta di pastone infantile che passa per “horror” al cinema e alla radio!» (Tutti i racconti 1931 – 1936, a cura di G. Lippi, cit., p. 190), diceva), persino di ormai indiscutibili capolavori come Dracula (1931; Id), che non sopportò nemmeno di vedere per intero, e lo stesso Frankenstein di Whale, mentre ne apprezzò relativamente L'uomo invisibile, rendendoci così difficile immaginare con quale dei paragoni che abbiamo fatto di entrambi con Re-animator nel primo capitolo sarebbe stato d'accordo. Più in generale, egli era uno spettatore assiduo del cinematografo che però tendeva a considerare una superficiale distrazione (S.T. Joshi, A Dreamer and a Visionary: H.P. Lovecraft in His Time, cit., p. 105), eppure proprio lui una una volta scrisse che «[p]er il vero scrittore il linguaggio non è casualità o strumento utilitaristico, bensì la congiunzione del marmo e dello scalpello dello scultore» (Teoria 519): non possiamo che speculare sul se, col senno di poi delle teorizzazioni estetiche prodottesi fino ad oggi nel campo della settima arte, non avrebbe detto lo stesso del regista e del linguaggio della macchina da presa, del montaggio, della fotografia, ecc., acquisendo nuovi schemi di pensiero e metri di giudizio in materia. 
E benchè lo stesso Rosati sia disposto ad ammettere che «[p]iù che segnalare il valore cinematografico delle opere prese in considerazione» il suo scopo sia di individuare eventuali differenze con l'opera originale, proprio lui ci ha dato l'input per comprendere perchè ne La maschera di Innsmouth non si faccia mai accenno a condizioni metereologiche sfavorevoli, mentre in Dagon piova dall'inizio alla fine del film: i linguaggi sono diversi, e se quello letterario può indulgere in elaborati flussi di coscienza («non posso pensare al mare profondo senza rabbrividire all'idea degli esseri che, forse, in questo stesso momento, si trascinano e sguazzano sul fondo melmoso», da Dagon), quello cinematografico, che si fonda sull'immagine, dovrà logicamente perseguire un elemento visivo che ricordi costantemente una malsana atmosfera equorea, e la conseguente resa estetica dovrebbe avere un valore qualitativo totalmente a sé stante, sottoposta alle sole regole del linguaggio del nuovo medium, costituito appunto dalla regia a mano, la fotografia bluastra, il montaggio ecc. . 
Contrariamente, un film come La Cosa (1982; The Thing), costantemente esibito quale migliore e più fedele trasposizione dell'opera di Lovecraft al cinema e quintessenza dell'epiteto “lovecraftiano”  (B. Tolfa, Da “Le montagne della follia” a “La Cosa”, in A. Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, cit., pp. 79-106), non rispondebbe assolutamente a questa logica, essendo gli elementi davvero definibili tali, il mostro mutaforma e l'ambientazione (ant)artica che ricordano Le montagne della follia (1931; At the Mountains of Madness), più ascrivibili alla “forma” che non alla “sostanza” del molto più concreto e terreno terrore paranoico indotto dalla regia di Carpenter, dalle interazioni tra i personaggi e dal discorso socio-politico, questi ultimi due elementi che in Lovecraft contano praticamente poco o nulla; a maggior ragione, quest'analisi non rende il film meno un capolavoro del cinema o meno debitore dell'opera dello scrittore, e forse il problema sta proprio nell'intendere l'attributo “lovecraftiano” come uno spartiacque netto tra “trasposizioni” (o “versioni”, quando per Rosati sarebbero semplici “copie che smarriscono il senso”) e “ispirazioni”, nel concepirlo come un termine assoluto e un sinonimo di qualità, piuttosto che opinabilmente soggetto a sfumature di quantità e qualità: i primi minuti di From Beyond, i soli a “copiare” formalmente la novella, di certo non «si auto-impongono delle restrizioni, visto che non possono raccontare una storia diversa da quella a cui si ispirano, con il risultato quasi certo di non riuscirci completamente» (Rosati 213); né un'imposizione del genere può essere giustificata, in un'ottusa supremazia della mera forma sulla sostanza, dal fatto che il film rechi semplicemente lo stesso titolo del racconto. Abbiamo infatti visto come il resto della pellicola prenda una piega totalmente differente e a determinarne la qualità dovrebbero essere esclusivamente i fattori interni alla stessa ed al mezzo cinematografico, più o meno alla ricerca di un'atmosfera lovecraftiana o un orrore cosmico e, qualora lo fossero, influenti a seconda dei casi. Tra questi casi, ovviamente, non può non rientrare il concetto di irrapresentabilità dell'orrore, che, a voler essere onesti, è talmente rivoluzionario in Lovecraft da costituire sia la forma (qualora il mostro non venga descritto) che la sostanza (perchè il mostro non può essere descitto) della narrazione, quindi Buechler, che oltre a quelli di Re-animator aveva pure realizzato alcuni dei trucchi di From Beyond, è leggermente in errore quando afferma che da tale ellitticità dell'autore si possa trarre impunemente qualunque cosa; ad ogni modo, si può tranquillamente dire che lo affermi in buona fede ed essendo un make-up artist ha pieno diritto a non porsi limiti nelle proprie creazioni, derivanti o meno da altri: che le creature extradimensionali di From Beyond siano ben realizzate o meno e qual'è l'effetto che producano a seconda del modo in cui vengono usate rientrano, a nostro parere, in due ambiti di giudizio differenti, che peraltro già abbiamo trattato
Inoltre, i non-morti di Herbert West – Rianimatore e de Il caso di Charles Dexter Ward, o gli extraterrestri di Colui che sussurrava nelle tenebre, non sono certo difficilmente rappresentabili come le creature di Dall'altrove o L'innominabile, che, a loro volta, perlomeno hanno degli attributi plastici rispetto a quelle assolutamente estranee ai cinque sensi de La casa stregata o Il colore venuto dallo spazio, nella cui irrapresentabilità viene pienamente in essere la suddetta sovrapposizione tra forma e contenuto: diviene quindi chiaro che gli stessi racconti di Lovecraft possono essere “relativamente” lovecraftiani (sempre tornando a intendere il termine come di solito vorrebbero proprio i puristi) a seconda di quante e quali caratteristiche che hanno reso riconoscibile e rivoluzionaria la scrittura dell'autore (che mai avrebbe potuto fisicamente produrre due opere identiche) possieda l'opera in questione; si pensi del resto al fatto che l'entità che Lovecraft «descrive in dettaglio» (Ligotti 161) ne L'orrore di Dunwich (1928; The Dunwich Horror) e il Grande Cthulhu in persona ne Il richiamo di Cthulhu (1926; The Call of Cthulhu) vengano distrutta, la prima, e costretto, il secondo, a ritirarsi nella propria tana, lasciando, per amor della narrazione, per un attimo da parte la loro inconcepibile superiorità sull'uomo. È ovvio, insomma, che l'ostinarsi ad una misurazione, come spesso viene fatta, del “grado di lovecraftianità” per valutare un prodotto audiovisivo, ancor più che un'opera dell'autore dove la sua stessa “autorialità”  effettivamente potrebbe costituire un valido metro di giudizio, lascia veramente il tempo che trova ed è forse più assurda delle vicende dello stesso Re-animator: «in certi racconti gli elementi del ciclo mitico di Yog-Sothoth sono di importanza fondamentale, mentre in altri assumono un ruolo marginale, e in altri ancora sono assenti» (Mosig). Nel frattempo, film come Annientamento (2018; Annihilation) di Alex Garland continuano a rendere sempre più sottile la linea di demarcazione tra quelle entità aliene che un giorno potranno essere rappresentate sullo schermo e quelle che resteranno per sempre dominio esclusivo dell'immaginazione.
Rimane comunque difficile identificare da quale parte della linea di demarcazione che invece separa trasposizione e ispirazione si collochi un'opera come La Cosa: anche il primo episodio di  Necronomicon, The Drowned (“Il sommerso”), che da I topi nel muro (1923; The Rats in the Walls), in un modo simile a La casa stregata di Gordon che non stupisce viste le somiglianze tra i due racconti, mantiene solo la formale «struttura del racconto di fantasmi classico» (Lippi 3), che Lovecraft aveva piegato alla logica dei propri “miti”, ponendosi piuttosto come una trasposizione del connubio romantico tra eros e thanatos tipico di Edgar Allan Poe, in una versione à la Roger Corman dichiaratamente perseguita attraverso la gotica messa in scena e la figura dell'amata resuscitata dal mare, con l'aiuto del tomo maledetto; da notare che proprio il mostro “cthulhoide” (non ci si stupisca più, dunque, che alla fine venga poco lovecraftianamente “sconfitto” e ricacciato negli abissi) che emerge dal pavimento della magione sul mare di Drowned resta, grazie anche allo zampino del leggendario effettista Tom Savini, meglio realizzato dell'orrore finale, climax di molti racconti di Lovecraft, che si vedeva proprio ne La città dei mostri (1963; The Haunted Palace) di Corman, il cui difetto maggiore fu, ironicamente al contrario del proprio stesso epigono, il fingere di “fare il verso” a Poe, per  adeguarsi alla consolidata fama del ciclo cormaniano, tentando di adattare Lovecraft: così, il film potrà anche essere più narrativamente fedele di molti altri al racconto originale (sempre Il caso di Charles Dexter Ward, dal sapore gotico anch'esso e quindi di base più facilmente adattabile, come avevamo detto per The Resurrected), ma i “mostri” lovecraftiani, realizzati con il povero make-up dell'epoca, risultano totalmente fuori luogo (anche se non quanto “l'uomo radioattivo” del film successivo), il tutto salvato  dal solito Joseph Curwen interpretato magistralmente da Vincent Price. E lascia alquanto interdetti che, dopo tanto dire, Rosati possa, solo poichè Lovecraft «soleva definirsi sarcasticamente un gentiluomo dell'Ottocento» (211 - affermazione peraltro errata, ma probabilmente per una svista, era il '700 il secolo da lui prediletto), ritenere il solo stile goffamente goticizzante e manieristico di La morte dall'occhio di cristallo (1965; Die, Monster, Die!) sufficiente a ricreare lo “spirito lovecraftiano” (la regia, per cui in una scena addurittura Nick Adams si “nasconde” assurdamente in piena vista da Boris Karloff, non è di molto aiuto). Curti aveva già espresso un più che condivisibile giudizio su questa serie di film, di cui il migliore probabilmente è La porta sbarrata proprio perchè, ispirandosi in realtà ad uno dei tanti racconti che August Derleth spacciò spudoratamente per collaborazioni con Lovecraft (A. Derleth – H. P. Lovecraft, La lampada di Alhazred, G. de Turris – S. Fusco (a cura di), Fanucci, Roma 1977, p. 8), la trama inesistente e che nulla aveva a che fare con lo scrittore di Providence (se non un misero spunto iniziale) ha lasciato gli autori liberissimi di esprimere la propria creatività, e lo stesso Rosati, contraddicendo quanto poi dirà di Re-animator, riconduce la qualità della pellicola al suo fare «riferimento alla società dell'epoca con tutte le sue malcelate inquietudini e perversioni» (215); infine, Le messe nere ha un legame solo formale talmente labile con La casa delle streghe che ci pare superfluo fare confronti di qualunque tipo, mentre, in un'ennesima riprova del distacco tra qualità della pellicola e fedeltà all'originale,  Le vergini di Dunwich (1970; The Dunwich Horror) è al contempo un film certamente discreto ma un pessimo adattamento. Inoltre, il primo a voler trarre beneficio dall'opera scritta a cui diceva di ispirarsi e dal suo titolo fu proprio The Haunted Palace (si riveda sempre la citazione a Curti a inizio capitolo), e non Re-animator, come dice erroneamente Rosati (217), visto che il racconto di Lovecraft, racconta Joshi, era ancora misconosciuto all'epoca, tanto che Gordon lo consultò in una biblioteca di Chicago dove la rivista Weird Tales letteralmente «cadeva a pezzi» tra le sue mani, e, paradossalmente, visto che Gordon e Yuzna vollero creare un ciclo di pellicole tratte da Lovecraft proprio come già Corman aveva fatto con Poe, fosse per motivi commerciali o nostalgici.
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Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.

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