mercoledì 3 giugno 2020

Paura retrattile (Recensione "Il Gatto a Nove Code")

Se c’è un cineasta nel panorama filmico italiano (e non) che più di tutti è riuscito a legare saldamente il suo nome al genere thriller/horror questo è sicuramente Dario Argento. Grazie a pellicole del calibro di Profondo Rosso, L’Uccello Dalle Piume di Cristallo e 4 Mosche di Velluto Grigio, il regista romano è riuscito ad affiancare, come pochi altri, la sua figura all’immagine della paura nella sua veste cinematografica, attraverso un utilizzo innovativo dell’espediente “giallo”, totalmente rimosso dalla sua natura romanzesca, ma bensì riadattata in chiave moderna, evitando di far soffermare lo spettatore ad interrogarsi su chi sia l’assassino per catapultarlo in una dimensione in cui la suspense ed il terrore la fanno da padroni. Di conseguenza non vedremo mai tra i protagonisti gli investigatori tipici dei romanzi di Agatha Christie, ma bensì persone comuni trovatesi per caso di fronte alla scena del crimine, con i quali lo spettatore riesce ad immedesimarsi, un espediente già utilizzato in passato da Hitchcock, in film come La Finestra sul Cortile.

È il 1970 quando Argento applica per la prima volta questa sua originale visione del thriller, col bellissimo e già citato L’Uccello Dalle Piume di Cristallo, dopo che Bernardo Bertolucci (col quale aveva già lavorato durante la lavorazione del Capolavoro di Sergio Leone C’era Una Volta il West) decide di affidargli l’incarico di portare su schermo una versione cinematografico del romanzo di Fredric Brown “La Statua che Urla”.  Il film riscuote un grande successo, soprattutto nel mercato statunitense, cosa che porterà la National General ad offrirsi come co-produttrice per un eventuale nuovo film del giovane talento italiano.
E così, da un soggetto scritto da Luigi Cozzi e Dardano Sacchetti, il 12 Febbraio 1971 esce Il Gatto a Nove Code, secondo film della cosiddetta “Trilogia degli animali”. Paradossalmente, questo è il film che meno sposa le caratteristiche del cinema “argentiano” accennate in precedenza, ma anzi, possiamo dire che qui il giovane cineasta romano realizza il suo film più tradizionale secondo i canoni del “giallo”, commettendo senza alcun dubbio un passo indietro rispetto alla pellicola d’esordio.

Dopo l’omicidio di un genetista, il giornalista Carlo Giordani e l’enigmista cieco Franco Arnò decidono di indagare sul caso, accorgendosi ben presto che l’assassino è intenzionato a togliere di mezzo chiunque intenda fermare la sua striscia di sangue…
Questo ritorno ad un giallo più tradizionale che Argento mette in scena, è probabilmente figlio delle esigenze per il mercato americano che la National General pretendeva il regista seguisse, portandolo a scelte sicuramente più appetibili al pubblico d’oltreoceano, con inseguimenti sui tetti ed inseguimenti in auto, donandogli un’aura quasi poliziesca, tutto al servizio di un cast scelto concentrandosi su volti noti del cinema USA, come James Franciscus, protagonista de L’altra faccia del Pianeta delle Scimmie uscito l’anno prima, e Karl Malden, un vero veterano del cinema a stelle e strisce, appena uscito dal successo di Patton.

Se nel primo film si tendeva a fuorviare il protagonista/spettatore attraverso l’ambigua scena iniziale, qui si affida la risoluzione del caso ad un non vedente, incapace di farsi ingannare da ciò che in primo luogo vede, ponendolo un gradino sopra alle indagini della polizia. Questa visione quasi ironica del cieco che riesce a risolvere il caso prima di chi il caso è tenuto a risolverlo per dovere, riprende quella visione totalmente diffidente che anche Hitchcock aveva delle forze dell’ordine, a testimonianza ulteriore della grande influenza del maestro britannico. Dal  punto di vista tecnico di Argento risulta ancora più confidente dietro la macchina da presa, sfruttando l’inquietante ambientazione urbana ben più marcata rispetto alla pellicola precedente, dove gli omicidi sono diretti con occhio attento e preciso, affidandosi ad inquadrature soggettive e netti tagli di montaggio, nascondendo, come da prassi, la vera identità del serial killer. 
Tuttavia, le “aringhe rosse” che vengono utilizzate per fuorviare lo spettatore, risultano eccessivamente forzate e sicuramente non credibili, generando un repentino calo di tensione in momenti in cui questa doveva mantenersi su livelli elevati, a testimonianza di un Argento sicuramente meno a suo agio in una produzione messa in piedi troppo di fretta per sfruttare il successo della sua opera prima. 

Il film a comunque numerosi momenti d’impatto, come il brutale strangolamento del fotografo, l’epilogo sull’ascensore o il bellissimo omaggio al gotico nella scena del cimitero, forse il momento migliore del film, a voler testimoniare come il regista romano fosse già maturo dal lato registico, compiendo un passo in avanti rispetto a L’uccello dalle piume di cristallo, e gettando delle basi solide per quelli che saranno i suoi veri capolavori negli anni successivi, quali il già citato Profondo Rosso o gli horror più puri come Suspiria o Inferno.
Alla colonna sonora si ha il grandissimo Ennio Morricone, che anche qui azzecca totalmente il mood adatto all’ambientazione prevalentemente notturna del film, con il pezzo Paranoia Prima ripresa da Tarantino nel suo Grindhouse – A Prova di Morte.

Il film ha un successo clamoroso, raggiungendo i due miliardi e mezzo di lire di incassi, cosa che permette ad Argento di raggiungere una notorietà ancora maggiore, che lo porterà dietro la macchina da presa di alcuni dei più grandi capolavori del cinema Thriller/Horror italiano, al fianco di maestri come Mario Bava e Lucio Fulci, ma entrando più nettamente nell’immaginario collettivo dello spettatore italiano, anche quello non di nicchia. 

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