venerdì 22 novembre 2019

In un obiettivo oscuro (Parte Seconda) - Vampiri tra letteratura e cinema: Carmilla

Potete leggere la prima parte dell'articolo qui

Appena due anni dopo il di Baker, in Spagna Vicente Aranda dirigerà un adattamento ambientato in epoca moderna, dal nome Un abito da sposa macchiato di sangue (La novia ensangrentada; 1972), mantenendo della storia originale praticamente soltanto alcune delle basilari caratteristiche del personaggio di Carmilla (la bond-girl Alexandra Bastedo) e la sua influenza dai caratteri solo vagamente lesbico-vampirici (anche qui le nudità sono sempre ben utilizzate), più una metafora dell'emancipazione dal maschio dominante, sulla giovane ragazza appena sposatasi (Julien Monteserrat) e trasferitasi col marito (Simón Andreu) nella magione di lui, dove l'antenata Mircalla (vero nome del personaggio, di cui Carmilla, Millarca e Marcilla sono in realtà degli pseudonimi) Karnstein aveva assassinato lo sposo la notte delle nozze; ma oltre a questi deboli legami ed altri ancora più formali, come la presenza del solito medico di turno (già comparso in Vampiri amanti) e del solito dipinto plurisecolare a testimonianza dell'innaturalmente lunga vita di Carmilla (qui riconoscibile anche da dei sessualmente significanti anelli indossati al contrario che vengono citati nello splendido Lacrime di sangue di Cattèt e Forzani, edito già da alcuni anni dalla Midnight), ogni confronto con l'opera originale si rivela piuttosto infelice a causa dell'insuccesso da parte della pellicola nel perseguire una seppur pertinente rilettura di Le Fanu in chiave (almeno così sembra nelle intenzioni) femminista: il modo in cui Carmilla sembra voler convincere la novella sposina, prima nei sogni di lei e poi ospite in carne ed ossa a casa del marito, a seguire le proprie orme uccidendo il compagno diviene, tuttavia, sempre più cerimonioso e ridicolo in una sorta di involontaria parodia e demonizzazione di un'ingiustificata androginia, anche dal momento che, nonostante alcuni debolissimi tentativi di attirarvi le antipatie dello spettatore quando all'inizio della pellicola tenta bruscamente di avere un rapporto orale con lei, il marito della protagonista è presentato più come una vittima delle psicosi sessuofobe della moglie e, dalla comparsa di in scena di Carmilla in poi, come il principale filtro e traino della narrazione; non fosse che, nel finale (spoiler?), egli le ucciderà entrambe (il paletto di frassino sostituito, nell'ambiguità generale, da un più pratico fucile), buttando dentro questa carneficina dal chiaro intento antimisogina anche la giovane figlia della governante, ma la scena si interrompe fin troppo frettolosamente, con un eloquente shot che dovrebbe rappresentare proprio la prevaricazione maschile (il seno di Carmilla che sta per essere tagliato via perchè il protagonista possa asportarle il cuore) che viene subito censurato dal frame conclusivo rappresentante un articolo di giornale, perchè possa raggiungere raggiungere la bencheminima violenza e valenza espressiva (anche altre scene di violenza soffrono di un'eccessiva goffagine tanto nel “nascondere” quanto nel “mostrare”).
Alexandra Bastedo e Julien Monteserret
Dunque, lontana dal riprodurre un'effettiva simpatia per il queer che, conspavolmente o no, aveva originariamente evocato Le Fanu, e come aveva invece fatto Baker, la sceneggiatura di questa pellicola «sembra sempre indecisa su quale posizione opinare: la violenta sessualita machista o il rancoroso risentimento femminista», come non riesce a sviluppare i vari riferimenti a Freud e a Jung (il film si apre proprio con un aforisma di Platone citato ne L'interpretazione dei sogni riguardante il desiderio inconscio, verso cui il film ancora una volta pare non sapere bene come porsi) insieme ad un inesistente “Complesso di Giuditta” (famosa figura femminile biblica dalla valenza androcida), che comunque rischiano di riportare la posizione femminista messa in scena al livello di una mera nevrosi, posizione che però pare al contempo venire ridicolizzata nella figura dell'ottuso medico che considera il lesbismo una patologia, piuttosto che di istinto non meno naturale di altri attraverso la resurrezione di Carmilla (che viene ritrovata sepolta nuda sotto la sabbia) in quanto archetipo; in breve, partendo da delle premesse decisamente ottime, Un abito da sposa macchiato di sangue si sviluppa in un modo che non rende loro giustizia, tanto più se si pensa alle potenzialità offerte dal racconto originale così ben reinterpretato, e pur restando, anche sul piano visivo, un discretissimo esempio del cinema d'exploitation europeo dell'epoca. 
“Stia tranquillo, sua moglie non è pazza. É solo lesbica.”
Anche meno parole spenderò per un dimenticabilissimo esempio dell'interminabile lista di gotici prodotti in Italia nei primissimi anni '60, ovvero La cripta e l'incubo (1964): diretta in maniera poco elaborata ed ancora meno interessante da Camillo Mastrocinque, unico film di genere insieme al migliore Un angelo per Satana con Barbara Steele di un autore noto per aver diretto i più famosi film di Totò in un periodo in cui questi film li facevano proprio tutti, la pellicola non lascia altra memoria di sé che non quella relativa ad uno sconsiderato uso, perfino per l'epoca, di zoomate fuori luogo e forse l'unico pregio di annoverare nel cast Christopher Lee: stavolta è nel suo di castello (ed è la sua di famiglia a portare il nome Karnstein) che viene nuovamente ospitata la famigerata Carmilla (ma qui più sobriamente chiamata Ljuba), ed alcune scene, come la sua solita entrata in scena per mezzo di un incidente in carrozza architettato ad hoc (pure questa era ovviamente presente nel film di Baker) ed il momento in cui caccia in malo modo un venditore ambulante deforme (non presente in nessuno degli altri adattamenti) si rifanno direttamente alla storia di Le Fanu sebbene i titoli del film non facciano menzione dello scrittore (R. Curti, Fantasmi d'amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, p. 76), insieme al solito villaggio maledetto e ad un'appena accennata relazione lesbica tra le due protagoniste, qui più casuale e manieristica che mai; il film, infatti, altro non è che un'infelice scopiazzatura de La maschera del demonio di Mario Bava, avendo gli sceneggiatori (Robert Bohr e Julian Berry, Valerii e Gastaldi per gli amici)) evidentemente pensato che la storia di Carmilla, con il suo dipinto che identifica la ragazza come proveniente da un'altra epoca, potesse prestarsi ad una rilettura in chiave baviana dove rendere la vampira una reincarnazione di una strega giustiziata dagli antenati dei castellani: scena questa identica in modo imbarazzante a quella di apertura del celebre capolavoro nostrano, ma senza un briciolo della classe registica che lo contraddistingueva e pure con l'irritante pretesa di nascondere il volto della strega agli spettatori nella speranza di dare loro l'incertezza che, quando nel corso del film ancora i personaggi non hanno potuto prendere visione del contenuto del dipinto, essa potrebbe avere avuto le stesse fattezze della protagonista, designando quindi lei come la malefica discendente, piuttosto che della nuova arrivata.
“No, non è ridicolo tutto questo.”
É solo a pochi anni prima che risale il primo vero e proprio adattamento di Carmilla, ovvero Il sangue e la rosa (Et mourir de plaisir; 1960), coproduzione italo-francese diretta da Roger Vadim, che (ri)colloca la novella in epoca moderna come il film di Arnada, ma anche stavolta sento di dover dire che le migliori intenzioni e gli, stavolta, ancora migliori risultati del cineasta francese non sembrano, pur volendo prescindere la materia d'origine, avere bene in chiaro cosa stiano cercando di raccontare: stavolta la protagonista è proprio Carmilla (la moglie del regista, Annette Vadim) che sembra aver rinunciato al proprio lesbismo in favore di un leggermente meno sconveneiente desiderio semi-incestuoso per il cugino Leopoldo (Mel Ferrer), con cui abita nel solito castello, che però stavolta si trova nella periferia di Roma (ma dove tutti parlano francese, mortacci loro), e con cui condivide la discendenza dalla solita contessa-vampira, che adesso però si chiama Millarca (santoddio) e che, sepolta ancora una volta nel villaggio lì nei dintorni, prenderà ambiguamente possesso della ragazza, con cui condivideva l'attrazione per il cugino (il conte moravo del racconto), quando essa si recherà in visita alla sua tomba, attraverso un'intelligente soggettiva senza soggetto impedirà di comprendere se l'evento sia frutto della fantasia morbosa di Carmilla o realtà: da qui avranno inizio un paio di attacchi più o meno vampirici ai danni di alcuni domestici, ma che sembrano più il risultato della gelosia liberatasi ormai da ogni freno inibitorio di Carmilla (o Millarca) nei confronti della nuova moglie di Leopoldo (Elsa Martinelli), in una strana rilettura in chiave eterosessuale dei desideri del personaggio tanto più inspiegabile visto che verso la fine della pellicola si concederà come da copione un unico e forse fin troppo casuale bacio lesbo con la rivale; insomma, al di sotto l'impeccabile regia di Vadim e la splendida fotografia di Claude Renoir (nipote del buon Jean) si dipana una sceneggiatura decisamente incerta nei propri intenti, tanto più se si pensa che la scena più visivamente potente dell'intera pellicola, un incubo in bianco e nero con la sola eccezione del rosso del sangue, viene esperito da un personaggio talmente marginale come la moglie di Leopoldo, che fino ad allora era stato il mero oggetto della gelosia di Carmilla, da limitare le letture che possono farsene al riguardo.
Annette Vadim in un'inquadratura coi controcazzi
É però indiscutibile come questa versione di Carmilla abbia lasciato un segno indelebile sulle successive, basti pensare all'inquadratura della “vampira” vestita di bianco riflessa sulle sponde di un lago simile ad una di cui sarà protagonista la Pitt in Vampiri Amanti, o alla presenza di una volpe catturata che in Un abito da sposa costituirà uno dei simboli ricorrenti (e anche dei pochi completamente efficaci) della femminilità violata e inibita; peraltro, l'elemento visivo del “riflesso” e dello “specchio” era estremamente importante nell'opera di Le Fanu (si pensi ancora ai molteplici anagrammi di Carmilla o dipinto che la ritrae anche in questa versione) molto importanti per dopo, e la scena del ballo in maschera presente nella novella, e che già avevamo visto nel film di Baker, assume in questa pellicola la sua forma definitiva in una sequenza che rimanda per eleganza e stile a La Notte (1961) di Michelangelo Antonioni, in un'ottima resa cinematografica di quel medesimo senso di dispersione crepuscolare e di caos  ipnotico che era parte integrante dell'atmosfera gotico-romantica dell'intero racconto, e che comunque il film riesce visivamente ad evocare dall'inizio alla fine pur senza esservi particolarmente fedele narrativamente: è proprio così che però perde molti degli spunti che egli stesso parebbe voler perseguire, riportando indietro a dei più convenzionali rapporti di desiderio eterosessuali il testo che chiarmente preso in considerazione per la sua rottura di tali schemi, ricordando in questa operazione di riscrittura quasi il ragionamento fatto dalla protagonista stessa della novella originale, quando cercava di interpretare l'atteggiamento di Carmilla come quello di uno spasimante travestitosi da ragazza, a segno della sua incapacità di accettare l'omosessualità se non negandola e “normalizzandola”.
“Mi spiegheresti esattamente cosa stiamo facendo?”
Ad ogni modo, non deve è un caso che le vicende del film di Vadim vengano presentatate sotto forma di racconto, parte di una conversazione in aereo vista nel prologo e formulato dall'ennesima variante del personaggio del medico della storia originale di Le Fanu, che però stavolta, in quanto veicolo della narrazione e fautore nel sovrannaturale (semicita persino Pascal: «La materia conosce ragioni che la ragione non conosce»), sembra rifarsi direttamente (dice persino di aver cambiato i nomi dei protagonisti delle storie) alla cornice compositiva della raccolta di cinque novelle in cui Carmilla sarebbe stata poi inserita l'anno successivo alla sua prima pubblicazione: In a glass darkly, una locuzione leggermente alterata tratta dalla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi e che in italiano è stata tradotta in diversi modi (In uno specchio oscuro, Oscuramente in uno specchio, Un oscuro scrutare), si presenta, per l'appunto, come la documentazione di cinque casi paranormali raccolti, quando non vissuti in prima persona come il primo racconto della raccolta - Tè verde (Green Tea), dall'archetipo di ogni investigatore dell'occulto che sarebbe nato di lì in poi, da Van Helsing a Jules de Grandin, da Carnacki a John Silence, da Dylan Dog a Martin Mystère: il dottor Martin Hesselius.
 Foto di Fabio Di Bitonto
E da qui voglio arrivare a chiudere sul come, ancora una volta, la fredeltà o meno ad un'opera letteraria (che personalmente intendo come un non necessario recupero di un testo mirato a trarne e traslarne gli elementi focali senza necessariamente doverli presentare con la medesima struttura diegetica o funzione testuale) sia da ritrovarsi proprio nella trasposizione più formalmente distante dall'opera originale (che peraltro i titoli di testa stessi identificano come la raccolta nella sua interezza, e non, come spesso viene erroneamente ricordaro, il singolo racconto Carmilla), dove infatti l'elemento lesbico si ferma alla sola andorginità della vecchia vampira, e dove la vittima di vampirizzazione tra due sorelle che guarderà con “desiderio” l'altra assumerà, grazie ad un primissimo piano à la Giovanna D'Arco, uno sguardo più perturbante che sensuale; il film è, come già avranno inteso quelli arrivati fin qui, uno dei capolavori di un vero padre fondatore della settima arte come oggi la concepiamo e conosciamo, il maestro Carl Theodor Dreyer: Vampyr – Il vampiro o "La strana avventura (o sogno/trauma, in originale) di David (o Allan, sempre in originale) Gray” (Vampyr - Der Traum des Allan Gray; 1931).
Sybille Smichtz (Vampyr) e Renèe Falconetti (La passione di Giovanna D'Arco)
Nato sulla scia del successo, da Dreyer ritenuto di scarso merito, ottenuto dal Dracula di Browning (anche se in lavorazione già da prima) ed all'appellativo di “regista dei santi” che il regista danese voleva scrollarsi di dosso dopo il capolavoro sulla martire nazionale, Vampyr è la quintessenza cinematografica di quella medesima prospettiva con cui Le Fanu poneva il lettore dinanzi a questo specchio oscuro da cui l'uomo guarda il mondo senza realmente comprenderlo, nonostante tutti i tentativi del dottor Hesselius di sistematizzare il sovrannaturale: le citazioni a reali opere di demonologia e misticismo nella raccolta, in particolare gli Arcana Coelestia di Emanuel Swedenborg in Tè verde, sono il ridicolo artificio epistemologico su cui si tiene in equilibrio un'atmosfera di impenetrabile sospensione del reale (e devo quindi ammettere che, per quanto fine a sé stessa considerando il suo ruolo nel film di Vadim, la citazione pascaliana all'inizio de Il sangue e la rosa potrebbe benissimo essere intesa a restituire questo concetto, avendo sotituito “cuore” con “materia”); se aggiungiamo che in Tè verde, l'unico racconto in cui Hesselius compare, il medicco non riesce ad evitare il suicidio del paziente perseguitato da un'iconica scimmietta demoniaca che può vedere lui soltanto, il fallimento di questo suo tentativo di discernimento è evidente, è l'immagine che lo specchio gli restituirà sarà sempre vaga e oscura.
Carl Theodor Dreyer e Joseph Sheridan Le Fanu
Vaghe e oscure furono le immagini che Dreyer ottenne usando un'illuminazione indatta all'obiettivo della macchina da presa, ma quando vide come il risultato ottenuto restituisse un'atona proprietà opaca al bianco e nero, divenuto più simile ad un indefinibile e nebuloso “grigio chiaro e grigio scuro”, decise di continuare a ripetere l'errore per tutto il resto delle riprese; lo studioso Mark Nash ha messo inconsapevolmente in evidenza un evidente parallelismo con la struttura compositiva di In uno specchio oscuro anche nella reticenza del regista a cedere ai personaggi, tantomeno al protagonista dallo sguardo strafatto  (Julian West, pseudonimo del produttore, il barone Nicolas de Gunzberg), un punto di vista privilegiato attraverso un continuo interferire dell'istanza narrante: così ad una costante incomprensibilità narrativa, se si pensa alla sequenza in cui il protagonista afferma di aver sentito il pianto di un bambino che noi non abbiamo udito (sebbene ciò sia amche dovuto della perdita di alcune scene), si affianca un'incomprensibilità discorsiva, se si pensa a quando la mdp inquadra il personaggio che guarda in una direzione e si muove nella direzione del suo sguardo, ma quando torna sul personaggio questo si è mosso fregandosene bellamente del fatto se la macchina da presa lo stia o meno seguendo, distruggendo il senso di continuità della semisoggettiva.
 “Cosa cazzo sta succedendo?”
Questo portare lo spettatore a dubitare non solo del contenuto dello sguardo ma anche dello sguardo stesso segue i medesimi meccanismi, di cui cambia soltanto l'ingranaggio espressivo, che nei racconti di Le Fanu erano costituiti non solo attraverso i vari resoconti di logoranti persecuzioni sovrannaturali, ma anche dall'inattendibilità dei resoconti stessi, e le note introduttive scritte dal segretario di Hesselius, invece di accrescere la sospensione dell'incredulità del lettore come fece (per citare un celebre esempio di questo topoi gotico, preso perfino in giro dal “relativismo” di Magritte ne La riproduzione vietata) Edgar Allan Poe in Artrhur Gordon Pym, sono soltanto la prima di «una molteplicità di voci che spezzano il reale […]; e sotto l'impatto di queste voci, il reale è filtrato in modo soggettivo, è riflesso come in uno specchio cangiante» (scrive Luca Manini nell'introduzione all'unica edizione corrente italiana e integrale dell'opera): sono tutte testimonianze di persone che neanche erano presenti durante l'avvenimento sovrannaturale, che vi hanno assistito solo parzialmente o che sono ormai morte da tempo (come lo stesso Hesselius), e questa sovrabbondanza di punti di vista si “riflette” nel momento in cui il protagonista di Vampyr si “triplica”, quando il suo corpo addormentato produce simulacro etereo (ottenuto con la sovraimpressione) e va a cercare una sua terza incarnazione, saltata fuori chissà da dove, che i servitori del vampiro hanno chiuso in una bara, dalla quale avremo persiono la prima soggettiva di un individuo sepolto vivo mai realizzata (la scena è l'unico altro elemento narrativo palesemente riconducibile ad un racconto di Le Fanu della raccolta, La stanza al Dragon Volant); oppure si pensi al momento in cui alcuni personaggi leggeranno il topico libro sul vampirismo che, in realtà, racconta eventi che accadranno alla fine del film come se fossero avvenuti in passato (A. Peirse, After Dracula: The 1930s Horror Film, p. 94).
“Sapevo che alla locanda nei cicchetti quel Viscardi ci aveva messo qualcosa di strano”
Il motivo per cui non ho scritto una sinossi di Vampyr è, si è capito, non semplicemente perchè non è fattibile un confronto con quella di Carmilla, ma perchè una vera sinossi che vada oltre il tentativo del protagonista di salvare le due sorelle dal vampiro di turno non c'è, e perchè i momenti slegati da essa e da raccontarsi singolarmente sono fin troppi; Nash annovera fra questi, oltre alla scena della sepoltura prematura, anche quella della visita spettrale di un uomo in vestaglia che si presenta nella stanza affittata dal protagonista in una locanda, aprendo la porta dall'esterno e lasciandogli il fatidico libro: non è chiaro lo statuto narrativo dell'evento, ma quel che è certo è che, sogno o realtà, esso ricorda inquietantemente la prima versione di uno dei racconti di In uno specchio oscuro, ovvero Il giudice Hardbottle (Mr. Justice Hardbottle), in cui lo spettro di un giudice in vestaglia (probabilmente lo stesso della versione definitiva, di cui questa è una sorta di sequel) visita la camera da letto dei protagonisti: questa versione si trova anche in molte antologie italiane, ed il titolo è Un resoconto degli strani fatti avvenuti in Aungier Street.
Un resoconto degli strani fatti avvenuti in Aungier Street (Illustrazione di M. Grant Kellermeyer)
Il racconto rivisitato ed inserito nella raccolta ha come vicenda focale quella di un giudice corrotto e libertino della metà del diciottesimo secolo che, assopitosi in carrozza, viene condotto e processato da una sorta di tribunale infernale presieduto da un suo doppleganger gargantuesco e inquietante, peraltro offrendo un nuovo parallelismo con la scena in cui il protagonista di Vampyr vede sé stesso nella bara, ed in entrambe il perturbante elemento del doppio si sposa alle inquietanti esperienze di paralisi del sonno, in due forme di “impotenza” maschile che tralaltro, volendo proprio speculare nella maniera più audace e infondata possibile, potrebbero essere ricondotte a Carmilla, martirizzata (proprio come Giovanna D'Arco) con un paletto nel cuore da un gruppo di  uomini bigotti mentre giace nella sua bara immersa nel sangue; non è difficle leggere nell'evento un'anticipazione delle teorie freudiane di cui Poe non è certo stato il solo precursore, e l'intrinseca natura del genere di smascherare i meccanismi dell'inconscio è un fortissimo punto di contatto non solo tra Dreyer e Le Fanu, ma anche tra i due scrittori, checchè ne dica un altro autore, comunque al loro livello, come M. R. James, quando afferma che in Poe si possa narrativamente protendere per una chiave di lettura delle esperienze sovrannaturali basata sullo stato mentale dei protagonisti (da una trascrizione di un suo intervento reperibile in una raccolta non integrale ma ben annotata dei racconti di Le Fanu edita da Feltrinelli): non sono d'accordo e penso che anche nel caso dello scrittore di Boston le chiavi di lettura non attenuino quello stesso senso di sospensione del reale che gradualmente il giudice Harbottle avrebbe poi perso mentre si trovava nella sua carrozza, e che non poteva non essere a sua volta rispecchiato nel film di Dreyer se si pensa che era precisa intenzione del regista evocare la perdita del senso della realtà ed il cambiamento di atmosfera che avverrebbe in essa qualora ci dicessero che dietro la porta della stanza dove ci troviamo c'è un cadavere; non distingueremmo più le nostre impressioni dall'ambiente circostante, diventerebbero realmente una sola cosa perchè «gli oggetti sono come noi li concepiamo» (Carl Dreyer: A film director's work), dunque una lettura psicanalitica de La caduta della casa degli Usher non renderà certo più frutti di una del racconto di Le Fanu (contrariamente a quanto pensa James), abbassandola così al mero stato di incubo contrapposto ad un'esperienza più verosimile: come ha fatto il dottor Hesselius si possono dare spiegazioni scientifiche, mediche e mistiche, ma resteranno «tanto varie e discordanti che, al fine, nulla spiegano invero, e nulla invero chiariscono» (Marini).
Il giudice Hardbottle (Illustrazione di M. Grant Kellermeyer)
Il paesaggio infernale in cui il giudice viene accompagnato, inoltre, si rifaceva alle surreali incisioni del pittore inglese William Hogarth (1697 – 1764) proprio come le ombre che si muovono senza un proprietario del film di Dreyer si rifanno alle avanguardie, cinematografiche e non, dall'astrattismo al cubismo, fino ad arrivare all'influenza dei dipinti di Salvador Dalì o a L'incubo di Fuseli, citato palesemente nell'inquadratura in cui il vampiro viene sorpreso a nutrirsi; questi parallelismi più formali potrebbero continuare, basti pensare al fatto che un'imperscrutabile e terrificante giustizia divina da Antico Testamento, simile a quella che attenderà il giudice Harbottle tornato dal suo viaggio in carrozza, è presente anche in Vampyr quando i due schiavetti del vampiro verranno puntiti proprio dopo un'apparizione, sotto forma di volto gigante, del padre delle due sorelle, l'uomo nella stanza che aveva visitato il protagonista per consegnargli il libro e che avevano ucciso perchè il loro master potesse pasteggiare tranquillamente con le figlie (la dissolvenza incrociata che ridurrà il vampiro ad uno scheletro, una volta trafitto con un paletto di ferro come scritto nel libro, è chiaramente citata ne Le Notti di Salem di Tobe Hooper): le due opere sono legate, più che da tutti questi parallelismi formali che presi singolarmente sono probabilmente mere coincidenze, da un'ispirazione derivata non solo dalla lettura delle storie, ma dal mood che un artista recettivo come Dreyer ne deve sicuramente tratto, e che rendono, a parere mio, la sua danza fatta di ombre sui muri molto più fedele alle feste in maschera dei Le Fanu di quelle che abbiamo visto negli adattamenti di Carmilla, nel perseguire entrambe la rappresentazione estetica dell'elusività del vero e del reale,  dell'imperscrutabile specchio oscuro con cui siamo costretti ogni giorno a confrontarci (in Vampyr qui per la prima volta vediamo l'inquadratura in campo lungo di un personaggio che si riflette su un lago nelle vicinanze che presente anche ne Il sangue e la rosa).
Non è di una fedeltà da manuale di cui sto parlando, ma di una sintonia artistica che, benchè Dryer non ne abbia mai fatto apertamente menzione, dimostra l'influenza di Le Fanu sul capolavoro del regista in uno scambio reciproco di sintonia artistica più rispettabile di qualunque rispetto della forma di un'opera letteraria un adattamento cinematografico potrò mai avere; e a dimostrarlo, in ultima istanza, è il fatto che persino nel finale della pellicola, in cui il nostro allucinato protagonista trarrà in salvo la proverbiale ragazza, essi continuano inesorabilmente a muoversi in un obiettivo oscuro che sembra frustrare nell'impalpabile atmosfera plumbea «la fuga nell'amore» (Sergio Grmek Germani in “Dizionario del cinema mondiale” a cura di Gian Pietro Brunetta – 2005 Giulio Enaudi editore) tipicamente dreyeriana di questi due superstiti nello stesso modo in cui il sentimento amoroso non avrebbe mai potuto trovare un lieto fine nella storia di Carmilla, se non nella misura in cui, come dice Le Fanu, «incappiamo in strani compagni di letto e il mortale e l'immortale si incontrano prima del tempo».

Articolo di Donato Martiello

1 commento:

Anonimo ha detto...

great post