giovedì 22 agosto 2019

Una fiaba chiamata Hollywood (Recensione "Once Upon a Time in... Hollywood") - Non solo Horror

"Once Upon a Time in... Hollywood" non parla del vero 1969, bensì degli anni '60 secondo Tarantino con alcuni richiami al suo stesso cinema. Un film che penso funzioni, ma che non sono sicuro dovrebbe farlo.

La pellicola, della durata di 2 ore e 45, mostra, con una chimica perfetta, Rick Dalton (un Leonardo DiCaprio in splendida forma) ed il suo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt) farsi strada tra le vie della Hollywood del 1969, anno cruciale per la città simbolo del cinema in quanto anno degli eventi che scossero non solo l'America, ma il mondo intero, segnando la fine di un'epoca: in quell'anno, infatti, il 9 agosto avrebbero avuto luogo gli omicidi della Family di Charles Manson (brevemente visto col volto di Damon Herriman, attore che ne riprenderà il ruolo nella seconda stagione di "Mindhunter") ai danni di Sharon Tate (nel film Margot Robbie), moglie del regista Roman Polanski (Rafal Zawierucha). Quest'evento, questa carneficina, segnò la vera fine dell'era del cinema classico di Hollywood, la Golden Age era definitivamente eclissata e nulla sarebbe più stato lo stesso.
I personaggi principali ci mostrano un dietro le quinte di quello che era la produzione cinematografica dei tempi, un backstage della Hollywood anni '60, ma non di quella reale. Le scene che vediamo non sono, infatti, interpretazioni della realtà, ma interpretazioni dei film di quell'epoca e del mito che li circonda. Tarantino ha ricostruito il backstage di quel cinema partendo dai film stessi, immaginando una versione della capitale di Hoywood romanzata e quasi fiabesca con grosse dosi della sua comicità solita, ormai abituale. Anche la Manson Family non è mostrata in maniera realistica né tantomeno verosimile, sembra più una parodia di se stessa.

Se molti temevano che l'immaginazione di Tarantino si sarebbe annichilata a causa di un racconto reale, beh, avevano ssolutamente torto: il regista crea un suo 1969 immaginario, una sua favola di quell'anno, una sorta di  ispirmondo alternativoa ispirato a ciò che fu ed avvenne realmente. Un universo parallelo dove il mondo segue le regole del cinema tarantiniano e la sua estetica, pur essendone il film paradossalmente distante, in un quadro di una perenne Golden Age del cinema che non perderà mai la sua luminosità, un 1969 estraneo al concetto di tempo, immortalato eternamente su cellulosa.
La recitazione è alle stelle, il casting azzeccatissimo sotto ogni punto di vista possibile. Ma partiamo con ordine: nonostante condivida le luci con un ottimo Brad Pitt, che otterrà presto la simpatia dello spettatore, il protagonista de facto é Leonardo DiCaprio nei panni dell'attore in declino ed alcolizzato Rick Dalton. In questo film vediamo davvero le sue doti recitative, capace addirittura di rendere un'interpretazione nell'interpretazione in maniera impeccabile. In una delle scene, infatti, l'attore Rick Dalton, che precedentemente non riusciva a recitare scordando di continuo le battute, si abbandona in una scena che poi scopriremo essere quasi del tutto improvvisata (insomma, un'improvvisazione simulata scritta su copione) dove da il suo meglio, in una chiara autocitazione alla sua prova di recitazione magistrale in "Django" dove DiCaprio continuò a recitare pur essendosi realmente tagliato con un bicchiere di vetro da lui frantumato mentre improvvisava.

Per Sharon Tate, invece, era impensabile altra attrice se non Margot Robbie, le due attrici, dopotutto, sono entrambe icone della propria era, belle bionde da tutti conosciute ed amate, insomma, la Robbie potrebbe tranquillamente aver interpretato se stessa e poco sarebbe cambiato nel personaggio. Tristemente il personaggio dal sapore metanarrativo di James Marsden é stato tagliato: l'attore avrebbe interpretato infatti Burt Reynolds che, ironicamente, interpreta il personaggio del vecchio George nel film in un gioco metacinematografico ahimé perso.
Sopra le righe, da alcuni per nulla apprezzato, nonostante sia effettivamente apprezzabile, la performance di Mike Moh nei panni di Bruce Lee, considerato da molti, compresa la famiglia dell'attore, arrogante e denigrante essendo quest'ultimo visto, senza mezzi termini, come un vero e proprio pallone gonfiato assolutamente fiero di sé al punto da affermare di poter vincere in uno scontro con Mohammed Alì, venendo però facilmente sconfitto da Cliff Booth in maniera del tutto comica. Tarantino ha difeso questa visione del personaggio, affermando che Cliff era un guerriero, uno di quelli che Lee stesso ammirava, e che, sì, in uno scontro di arti marziali avrebbe perso, ma in un combattimento normale, come nel film, non era detta l'ultima parola. Inoltre il regista ha anche difeso l'arroganza di Bruce Lee paragonandola alla vera fierezza di se stesso e dimostrando che, effettivamente, il maestro di arti marziali ed attore aveva dichiarato di poter sconfiggere Mohammed Alì, come riportato anche dalla biografia della moglie Linda.

Nel film, come al solito di Tarantino, vediamo anche altre facce note del suo cinema, come Michael Madsen e Kurt Russell, apparsi più per amicizia col regista che per altro, oltre che un inaspettato Al Pacino che spiega la dinamiche della televisione, svelandone un subdolo trucco che turberà Rick per tutta la pellicola.
I riferimenti al mondo del cinema, dotato di un fascino inedito, sono molteplici e non potranno che non far sorridere tutti gli appassionati che letteralmente vedranno quella decade dagli occhi di un altro appassionato, una persona completamente innamorata di quel modo d'intendere l'industria senza alcuna pretesa di realismo o di effettiva connessione alla realtà. Tra i punti di forza vi sono anche le false locandine dei film italiani di Rick Dalton che, nelle immagini, ma anche nei nomi, sono veri e propri omaggi al nostro cinema d'epoca, a quel cinema nostrano oramai eclissato, ma ancora visto con ammirazione da tutto il mondo e che ha segnato indelebilmente Quentin Tarantino stesso.

Le scene fittizie di film di quest'universo sembrano uscire proprio dagli anni '60 e '50 e sono chiaramente realizzate da un qualcuno che conosce ed ama quelle pellicole. Simpatica e degna di note anche l'autocitazione a "Bastardi senza gloria" in uno dei poster che evito di rivelarvi per lasciarvi la sorpresa di questa divertente chicca che cita una delle scene più iconiche e comiche del film.
Tornando alla pellicola in generale, però, è chiaro che questo sia forse il film più di Tarantino di tutti, ma il meno tarantiniano. Non aspettatevi le solite scene splatter (anche se ve ne saranno un paio) o la follia solita. Non aspettatevi nemmeno  (tratroppi) dei soliti dialoghi tra i personaggi od il suo tipo di narrazione solito. Uno dei problemi sta proprio in questo, la narrazione, purché sia lineare, risulta frammentata, incompleta. Cambia ritmo a metà film con uno stacco assai evidente e quasi fastidioso; aspettatevi anche flashback nei flashback che confonderanno lo spettatore  facendogli chiedere quale sia il tempo presente e continue degressioni con false scene di falsi film in un continuo gioco di riferimenti inesistenti che citano reali pellicole.

Un'opera non omogenea, insomma, che sembra incompleta, andando a rafforzare il rumor che il montaggio originale fosse di ben 4 ore (che potrebbe arrivare in futuro su Netflix, similmente a come successo con "The Hateful Eight"), cosa quasi certa a causa della rimozione di tutte le scene di Tim Roth, del già citato Marsden e della maggior parte delle apparizioni di Charles Manson viste anche nei trailer.
Ma se il film non convince del tutto, il finale è quello di un vero capolavoro che potrebbe far risvegliare gli sguardi assopiti di alcuni spettatori delusi: negli ultimi minuti abbiamo tutto il Tarantino che non abbiamo avuto fino a quel momento, forse anche un tantino più fuori dalle righe del solito, e quella che è effettivamente una lettera d'amore al cinema in chiave fiabesca, un finale inaspettato, repentino, sanguinolento, violento, con una pazza in fiamme che brandisce un coltello alla cieca e... Commovente.

Inaspettatamente commovente.

Non voglio rovinarvi in alcun modo il finale della pellicola essendo quest'ultimo il suo più grande punto di forza, apice di un climax perfetto se non esagerato durato due ore e quarantacinque minuti che vi lascerà con un sapore agrodolce in bocca, stupefatti, confusi, sognanti.
Tarantino omaggia il cinema che lo ha formato e che ha formato costruendoci attorno una splendida fiaba fatta di margarita, acidi, lanciafiamme e culti assassini che fallisce e riesce allo stesso tempo nel suo intento, un film controverso, capitolo finale della sua trilogia western, affrontando il genere da dietro le quinte, un film che ha confuso me stesso e che probabilmente continuerà a non convincermi assolutamente pur non deludendomi per niente.

Insomma, un film di Tarantino per Tarantino.
Ultima nota: ci tengo a consigliarvi di restare in sala fino alla fine dei titoli di coda, non ve ne pentirete affatto.

"C'era una volta a... Hollywood" ("Once Upon a Time in... Hollywood") é uscito nelle sale britanniche e statunitensi il 14 agosto, mentre approderà nei cinema italiani il 19 settembre di quest'anno.

Articolo di Robb P. Lestinci, revisione di Sergio Novelli

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