sabato 10 agosto 2019

Radici grondanti di sangue - Parte Prima (Recensione "Jigoku")

Parlando di "The Wizard of Gore'' di Herschell Gordon Lewis, non fare menzione di come il suo "Blood Feast" del 1963 sia il capostipite del genere gore appare arduo, se non impossibile. Lewis è universalmente considerato colui che ha generato il filone di splatter e sequenze sanguinolente spinte agli estremi nel cinema, al punto che lui stesso ha considerato il suo film "primo nel suo genere". Eppure, esattamente tre anni prima, in Giappone, usciva una pellicola che lo precedeva questi contenuti. Una pellicola strana, folle, disturbante.

"Jigoku" (che significa letteralmente "Inferno" in italiano), noto anche come "The Sinners of Hell", è un film horror giapponese del 1960 diretto dal visionario Nobuo Nakagawa, co-scritto con Ichirô Miyagawa e prodotto dalla Shin-Toho (una casa di produzione giapponese formata da ex dipendenti della Toho in crisi all'epoca) pensato per distanziarsi da quelli che erano i canoni del cinema horror nipponico dettati da pellicole come "Onibaba - le assassine" e riuscendo essere la sola delle 97 opere di Nakagawa a essersi imposta a livello indelebile nella storia del cinema giapponese e a risultare reperibile (assieme a poche altre) oltreoceano.
Protagonista del film è Shiro (Shigeru Amachi, attore fantoccio del regista) da poco fidanzatosi con la bella Yukiko (Utako Mitsuya) e di recente macchiatosi dell'omicidio di un gangster della yakuza in un incidente stradale assieme al suo inquietante e misterioso migliore amico Tamura (Yoichi Numata). Braccato dalla donna e dalla madre della sua vittima e completamente in balia di tragedie (tra cui la morte della stessa Yukiko e di sua madre), Shiro si ritroverà a dover fare i conti con i suoi peccati nel modo più diretto e doloroso possibile.

I primi due atti sono decisamente lenti e il poco sangue che vediamo è abbastanza per far credere allo spettatore di essere dinanzi a un precursore ancora assai distante dal nostro concetto moderno di gore: certo, una delle primissime scene ci presenta una pozza di sangue sull'asfalto e un personaggio sanguinante dalla testa spaccata, ma nulla di così tanto shockante da potersi considerare rivoluzionario, difficile che così poco abbia potuto ispirare un intero genere cinematografico. Se così fosse, la corona andrebbe ancora a Lewis, ma, ovviamente, questo non è nulla rispetto a ciò che ci aspetta nel terzo atto.
Ma arriviamoci con calma: il primo atto è decisamente blando e mostra appena due morti, cinicamente, entrambe in incidenti stradali, uno causato e uno subìto dal povero Shiro. Quando l'ambientazione cambia passando alla casa di riposo per visitare la sua madre morente, tutto inizia a prendere un verso diverso, divenendo una sorta di "Dieci piccoli indiani" di Agatha Christie in versione nipponica con un gran numero di peccatori riuniti sotto lo stesso tetto, visti morire uno a uno mentre il sinistro Tamura ne svela i peccati più oscuri pubblicamente.

L'unico accenno di paranormale che abbiamo in questi primi 40 minuti di pellicola è proprio Tamura, il migliore amico di Shiro, conducente dell'auto che ha ucciso il gangster e, di conseguenza, deus ex machina degli eventi a cui assistiamo. Quando appare per la prima volta a casa di Yukiko, l'orologio si ferma, e, più volte, compare a Shiro come fosse un'allucinazione. Se ciò non fosse abbastanza, ha la capacità di comparire sempre alle spalle di Shiro dal nulla, come fosse la sua macabra ombra, essendo a conoscenza di ogni peccato compiuto dai personaggi in cui s'imbatte. Le sue apparizioni sono un campanello d'allarme per lo spettatore, segnalano che qualcuno sta per morire, più un macabro presagio che un personaggio effettivo.
(SPOILER)
Quando a fine del secondo atto, Shiro muore, assistiamo al cuore pulsante del film: una visione dell'Inferno a metà tra quello buddhista e quello dantesco (le similitudini con quest'ultimo sono causate da motivi di budget, come ha rivelato poi lo sceneggiatore), dove tutti i personaggi presentati fino a quel momento sono visti subire terribili torture con ottime realizzazioni visive, reduci dell'"Haxan" del 1922, in particolar modo un uomo, padre di Shiro, scuoiato vivo, oltre che il dottore della casa di riposo tagliato a fette. Tutta la pellicola cambia tono, Shiro è in balia degli inferi nei quali è precipitato per colpa di Tamura, anche lui lì presente, visto con un ghigno malefico e in stato di psicosi, come se fosse davvero un "demone, angelo della morte" come poi definito da uno dei personaggi.

La regia è magnifica, i movimenti di camera sono fluidissimi e naturali, tutto il film vive all'unisono, i personaggi, la regia, i colori, la scenografia, sono studiati alla perfezione per creare un disegno armonico. La prima parte è caratterizzata da tinte marroni, indicando la mondanità delle scene, nonostante alcuni elementi di rosso acceso appaiano quasi da foreshadowing dell'Inferno che verrà, effettivamente citato sin nei primi minuti del film dal padre di Yukiko. Nella seconda parte i colori cambiano, le scene d'ombra predilette dal regista, presenti sin dall'inizio, si fanno ancora più accentuate e adottano un'innaturale colorazione bluastra ed arancione. Anche la regia fluida diviene confusionaria, frenetica, con distorsioni e primissimi piani, adeguandosi nuovamente all'ambiente trattato.
Così come "Lisa ed il diavolo" di Mario Bava (regista simile a Nakagawa anche nella composizione delle scene con un utilizzo attento del colore atto a creare componimenti quasi artistici), anche questo film si offre a più interpretazioni: magari è davvero vero ciò che vediamo, o magari la parte infernale è solo un sogno del protagonista pre-morte, come suggerito dalla scena finale che ne mostra il cadavere inerme a terra.

Una terza teoria proviene dal critico Nate Yapp, convinto che sin dall'inizio siamo all'Inferno: la primissima scena di Shiro negli inferi non sarebbe quindi un foreshaodowing, ma l'inizio effettivo del film, e gli eventi successivi solo una tortura morale e psicologica per il protagonista, costretto a rivivere in maniera accelerata tutte le sue tragedie personali: ciò spiegherebbe come tutti muoiano come mosche in modi piuttosto inverosimili, come seguendo "una potenziata legge di Murphy" dove tutto ciò che può andar male può andar peggio che male. Tamura sarebbe dunque colui che si assicura che la tortura prenda piede, nonostante, sempre Yepp, lo veda più come un doppio di Shiro che mostra tutto ciò che non è esternamente il personaggio, una sorta di Doppelgänger, insomma.
L'ultimissimo shot sembra mostrare invece una scena paradisiaca (nel buddhismo l'Inferno non è eterno, ma può essere raggiunto dopo aver subito diverse torture decise in base ai propri peccati, similmente al concetto di "Inferno personale" di "Hellraiser" di Clive Baker), riferimento a quello che doveva essere inizialmente il film, ossia la storia di un uomo catapultato all'Inferno capace di elevarsi al paradiso, dal titolo "Paradiso e Inferno", come voluto dal produttore Mitsugo Okura. Il regista ebbe una discussione con lo sceneggiatore Miyagawa quando venne a scoprire che aveva trattato solo l'Inferno, ricevendo come ironica risposta che avrebbero trattato il paradiso nel sequel. Tristemente il film non ebbe mai seguito e non fu capace di salvare la Shin-Toho dalla banca rotta. Ricevette comunque due remake nipponici e uno thailandese.

Qualsiasi sia la verità sul finale, siamo dinanzi ad un film rivoluzionario, il primo vero tripudio di sangue ed interiora del cinema, il vero progenitore del gore cinematografico...
Continua...

ARTICOLO DI

Nessun commento: