mercoledì 15 marzo 2023

Il valore della solitudine (Recensione "Marcel the Shell")

Trattare di un film come “Marcel the Shell” non è facile, specialmente nella nostra epoca, un periodo in cui il cinema, inteso come esperienza in sala, è circoscritto nella mente del grande pubblico a eventi stagionali ricorrenti (come il cinefumetto di turno), a franchise duraturi e di ampio richiamo (il modello potrebbe essere quello dell’ennesimo seguito di “Fast and Furious”, di ulteriori trasposizioni di James Bond, del nuovo “Star Wars” o realtà simili) e poche eccezioni, alle volte fortunate, altre decisamente illustri come “Top Gun: Maverick” o “Avatar: La via dell’acqua”.
 
A livello nazionalpopolare la fanno da padrone prodotti legati a marchi fortemente consolidati nella cultura collettiva, determinando un inevitabile restringimento della proposta. Tale processo, tra l’altro, era già in atto da tempo per una banale questione di minore domanda, e si è concretizzato negli ultimi anni a seguito degli effetti che la pandemia ha avuto sulla vita quotidiana e sulle abitudini delle persone, pensiamo al massiccio spostamento di utenza verso le piattaforme di streaming on-demand e il web in generale. In una situazione simile tutte le certezze dell’industria cinematografica statunitense sono state messe in discussione: si punta sempre di più alla crossmedialità per cercare di rimanere al passo coi tempi. Anche i campioni d’incassi, come il succitato Avatar 2 di Cameron, raccolgono meno di quanto avrebbero potuto guadagnare in passato.
In questo scenario quanto spazio trova l’animazione? Non molto. Se la situazione in Oriente è decisamente migliore (con quattro film giapponesi e uno cinese tra i primi dieci posti del 2022 per profitti su scala mondiale), i grandi blockbuster americani zoppicano. Specifichiamo, “Minions 2 - Come Gru diventa cattivissimo” ha fatto oltre 940 milioni di dollari ed è diventato il film animato di maggior successo da quando è scoppiata l’epidemia del COVID-19, oltre che il franchise animato più fruttuoso di sempre, arrivando a superare i 4 miliardi totali di ricavi. Allo stesso modo “Il gatto con gli stivali 2 - L’ultimo desiderio’’ e “Troppo cattivi”, entrambi prodotti da DreamWorks e distribuiti dalla Universal, si sono rivelati dei colpacci, tenendo però una notevole distanza dai Minions della Illumination Entertainment. Altri titoli attesi come “Lightyear” sono stati accolti tiepidamente da pubblico e critica e l’ultimo classico Disney “Strange World” si è dimostrato un vero e proprio flop commerciale. Ciò porta major, come appunto la Disney, ad accorciare la finestra di proiezione nelle sale per i prodotti d’animazione se non, in certi casi, non prevederla affatto e sacrificare le pellicole alle rispettive piattaforme. A preoccuparsi non sono solamente i contabili dei colossi cinematografici americani ma anche la stampa specializzata e i fruitori di questi prodotti, che ravvisano un generale appiattimento contenutistico e scarso ricambio di idee. Possiamo notare che, sempre nell’ambito del mainstream, il cinema d’animazione sia tutto molto simile a sé stesso: ennesimo seguito della già celebre saga x, animazione quasi esclusivamente in computer grafica, personaggi e racconti indirizzati principalmente a famiglie, ecc. 
 
Tornando a noi, è in questo contesto complicato che si inserisce “Marcel the Shell”. Piccolo film in tecnica mista, live action in stile mockumentary e animazione in stop-motion, distribuito dalla A24 nell’estate 2022 negli Stati Uniti dopo la première al Telluride Film Festival, in Colorado, tenutasi nel Settembre 2021. Diretto da Dean Fleischer Camp, al suo debutto, scritto dallo stesso (che è anche l’interprete protagonista), Jenny Slate (doppiatrice del personaggio) e Nick Paley; oltretutto nel cast troviamo Rosa Salazar, Thomas Mann e Isabella Rossellini. Basato su una serie di tre cortometraggi ideati da Fleischer Camp e Slate, pubblicati sul canale Youtube del regista tra il 2010 e il 2014 e diventati virali, è il tenero racconto di una conchiglietta senziente che trascorre la sua semplice vita con spensieratezza e tranquillità in una grande casa adibita a B&B. 
 
Le carriere di Jenny Slate e Dean Fleischer Camp si trovavano al capolinea quando inventarono Marcel: la Slate era stata recentemente licenziata da "Saturday Night Live" dopo una stagione, Fleischer Camp sognava di fare il regista ma si sentiva bloccato a livello creativo. Fu in questo momento di incertezza che si incontrarono, Slate iniziò a parlare con una vocina buffa, una cosa tira l’altra e, con un budget di sei dollari, quarantotto ore dopo è nato “Marcel the Shell With Shoes On”. Una volta caricato su Youtube si è diffuso a macchia d'olio, e poco dopo Hollywood ha bussato alla loro porta. Il percorso per arrivare sul grande schermo è stato lungo e tortuoso. Slate e Camp si sono resi conto di non volere da un film di Marcel quello a cui puntavano i grandi studi di Hollywood. Secondo il regista: «Tutte le loro idee erano incentrate sull’inserire Marcel in un franchise di azione e avventura più tradizionale (...) Ricordo che uno studio suggerì di farlo collaborare con John Cena per combattere il crimine, o qualcosa del genere (...) Era così ovvio che il modo giusto per realizzare questo film fosse dipingere un ritratto dignitoso di Marcel in uno stile documentaristico, per raccontare una storia personale e onesta sul dolore (...) quello che non funzionava era che stavano cercando di spegnerlo. Marcel non ha bisogno di essere spazzato via, è già minuscolo in un mondo esploso e fuori misura».
 
In ogni caso, dodici anni dopo, i due hanno dovuto ripensare il proprio progetto per realizzare un lungometraggio e così hanno arruolato Kirsten Lepore come direttrice dell'animazione a capo di un gruppo di circa 50 persone. A occuparsi, nella pratica, dello straordinario processo è stato lo studio Chiodo Bros. Production [che potreste ricordare per avere firmato, tra le altre cose, il leggendario b-movie “Killer Klowns from Outer Space” (1988)]. Durante la realizzazione si è cercato di preservare il più possibile lo spirito fai-da-te, ma è stato necessario scendere a compromessi (ad esempio, sebbene inizialmente volessero imitare i corti e dunque usare un vero guscio, si è optato per una stampa 3D personalizzata, per riportare la complessità e la traslucenza della superficie di una conchiglia).
(Da sinistra verso destra) Kirsten Lepore, Dean Fleischer Camp e Jenny Slate
In merito al protagonista titolare Camp dice: «Le persone formano un legame con questo piccolo personaggio», invece secondo la Slate: «Non è sempre stato facile per me esprimere i sentimenti più duri. Iniziare a parlare con questa vocina, anche se ad altre persone sembrava strano, è stato un bel modo per metterli insieme e usare Marcel come un crogiolo per tutti quei sentimenti».
 
La storia parte in medias res da un simpatico pretesto metanarrativo con cui non solo viene delineato l’incipit della vicenda, ma ci si ricollega ai corti originali: Dean è un giovane filmmaker recentemente separatosi dalla compagna che decide di stabilirsi, in attesa di sistemazione migliore, nel bed & breakfast in cui farà la conoscenza di Marcel e della nonna Connie. Incuriosito dalle usanze e dall’indole dei due, Dean si dedicherà a un documentario amatoriale incentrato sul piccolo Marcel, che a mano a mano caricherà sul web riscuotendo una certa popolarità. La personalità di Marcel è magnetica, carismatica ma candida e innocente come quella di un bambino; dà valore ai dettagli apparentemente più insignificanti, si stupisce ed esalta con quello che altri riterrebbero banale. Il suo è un animo sì semplice e sincero, ma non lo stereotipo zuccheroso di disneyana memoria. Marcel, infatti, si porta dietro un passato infelice e traumatico, il ricordo di una grande famiglia che è stata annullata da una serie di circostanze fortuite letteralmente più grandi di loro. A caratterizzare prepotentemente la narrazione è proprio l’atmosfera malinconica di fondo: nella grande abitazione che fa da teatro degli eventi aleggia il dolore lasciato dalle ferite aperte, vessillo di un nucleo familiare andato distrutto (su più piani). Nonostante ciò, Marcel e la nonna prendono le redini di un micromondo di cui diventano quasi i numi tutelari. Portano avanti operosamente la propria routine, dando colore alla fissità e alla solitudine di un ambiente in cui occupano la stessa dimensione della polvere, ignorati da tutti. E lo fanno con positività, affrontando ogni giornata col sorriso aldilà dei rammarichi e delle difficoltà ricorrenti perché, secondo loro, ne vale la pena. Pur essendo un delizioso mollusco ciclopico con delle scarpette Marcel è mosso da sentimenti spontanei e profondamente umani, non a caso, col passare del tempo, raggiungerà le corde dell’animo di Dean; dato il continuo dialogo botta e risposta tra i due (determinato dalla stessa struttura narrativa, e dal mockumentary) Dean porterà pian piano a galla anche le sue fragilità, sciogliendo la fredda maschera di intervistatore imparziale con cui era partito. Come ricordiamo, anche il ragazzo ha un peso non indifferente sullo stomaco e non ha elaborato la separazione dalla moglie, dettaglio che lo sceneggiatore-interprete-regista ha riportato dal proprio vissuto essendo stato sposato (per poi divorziare) con la co-autrice Jenny Slate. Come contraltare della bontà e della perseveranza di Marcel c’è però una grande paura che nutre nei confronti del cambiamento. Lui e la nonna hanno raccolto i pezzi di quel che gli rimaneva e di conseguenza hanno sviluppato un legame molto stretto, essi rappresentano il canto del cigno di una comunità sull’orlo del tramonto. Per questo motivo il piccolo Marcel sviluppa un istinto protettivo malsano nei confronti della parente, e cerca di rifuggire da qualsiasi situazione o possibilità di sconvolgimento del proprio cosmo costringendosi, indirettamente, a una condizione di inamovibilità esistenziale. Di ciò la nonna è consapevole, per questo invita il nipote a correre il rischio di affrontare a viso aperto il mondo sterminato che è là fuori. Quello che si è instaurato tra i due è un equilibrio fragile e precario che prima o poi crollerà, in un modo o nell’altro. Ne avremo prova quando la casa sarà invasa da fan esagitati dei video di Marcel sui social (altra tematica interessante che il film affronta, cioè il confronto tra pubblico e comunità), che metteranno a repentaglio il loro intero sistema di vita.

Sotto il profilo prettamente tecnico il film è quadrato e compatto: un’ottima regia sulla falsariga documentaristica, dai movimenti di macchina delicati ma realistici e credibili, supportata da montaggio e fotografia di livello e da una colonna sonora tenue e raffinata di Disasterpeace [che aveva già lavorato a “It Follows” (2014)] che, all’occorrenza, sa quando esplodere e rubarsi la scena. La direzione artistica è  straordinaria a sua volta: il design del personaggio è memorabile e tutto l’immaginario fantastico è costruito sulla base delle piccole cose di tutti i giorni, quel materiale di repertorio che ci lasciamo alle spalle e il piccolo Marcel raccoglie talvolta sporco, imperfetto ma vivo e palpitante.

«Nei corti originali ho semplicemente tenuto la telecamera il più fisso possibile», ha confessato Camp, ma un lungometraggio avrebbe richiesto più dinamismo, più scenari e interazione con altri personaggi. La troupe, di circa 500 tecnici, ha lavorato per oltre un anno e il regista temeva che espandere la portata della produzione potesse privare il progetto del suo fascino low-fi e low-budget. 
Illustrazione originale di Elettra Eletto
Per unire il girato con l'animazione si è fondamentalmente dovuto girare il film due volte, una ripresa completa dal vivo e poi una ripresa completa a passo uno l'anno successivo. Su un palco per la stop-motion veniva proiettato il materiale live action dietro le miniature, cercando di ricreare l'esatta illuminazione delle riprese originali, in modo che tutti gli elementi combaciassero. È stato un processo laborioso in cui la fotocamera era bloccata su un treppiede, aggiungendo i movimenti della telecamera il tutto è diventato ancora più ingarbugliato: le singole scene sono state tracciate digitalmente durante le riprese, quindi il movimento della macchina viene riprodotto da altre macchine dotate di motion-control in grado di gestire quei dati sul palco per la stop-motion, dopodiché una telecamera motion-control si sposta, fotogramma per fotogramma, a partire dallo stesso movimento. Per il team la vera sfida è stata proprio ricreare il senso del documentario. La Lepore dirà: «Eravamo su Zoom a pianificare in continuazione ogni scatto in forma di storyboard (...) È stata anche una delle parti divertenti del farlo in stop-motion. È ciò che rende il film così legato a questa specifica procedura, non lo si sarebbe potuto fare in CG, penso che la cosa che lo rende veramente reale sia usare degli oggetti tangibili in quel modo, il cuore della tecnica sta un po’ in questo».

In sostanza, quella che possiamo ufficialmente definire l'opera prima di Dean Fleischer Camp e Jenny Slate è un film d'animazione delizioso che si inserisce in uno scacchiere alquanto caotico. Tra uscite abbastanza deboli, le consuete belle sorprese e meri placeholder per le grandi piattaforme Marcel risalta perché è un prodotto trasversale, in grado di accompagnare delicatamente lo spettatore in un umile viaggio fatto dei sentimenti più puri per poi culminare nella commovente (e incredibilmente matura) presa di consapevolezza della buffa conchiglia nella sequenza finale. Tutto questo grazie all'umiltà di fondo con cui gli autori hanno confezionato la storia a partire dal suo concepimento e per tutta la lunga gestazione, impostandola in base a messaggi universali che palesemente ignorano il concetto stesso di target per poter raggiungere tanto gli adulti quanto i bambini. Come sostenuto dalla Slate: «Nei prodotti per bambini ci sono sempre tristezza, solitudine e paura, ma questo è un film per tutti. Una cosa che cerco di fare non solo come artista, ma come persona, è appagare il bambino dentro di me. Ora ho anche imparato come genitore che, attraverso la tua arte e il tuo comportamento con altre persone, puoi in qualche modo diventare il genitore di te stesso. Gran parte di questo dipende dal permettere che una grande varietà di emozioni si preservi anche all'interno dell'individuo più piccolo. Sarebbe stato facile rendere Marcel semplicemente carino; invece penso che quello che Dean e io volessimo veramente fare, ciò che ci avrebbe fatto sentire soddisfatti, fosse mettere quante più emozioni possibili in un unico posto».

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