lunedì 11 maggio 2020

Il disumano spettacolo della tortura per il pubblico moderno (Recensione "Hostel')

“-Scusi, una domanda…com’è lì dentro?
-Fai attenzione.
-In che senso?
-Rischi di spendere tutti i tuoi risparmi…là dentro!”
(Jay Hernandez e Takashi Miike in Hostel di Eli Roth)

Quando si parla di Torture Porn non si può non parlare di Hostel. È inevitabile riconoscere come questa pellicola abbia totalmente sdoganato la violenza nel Cinema da un punto di vista sia visivo/grafico (portandosi ulteriormente avanti rispetto al cinema horror di genere dei decenni passati) che soprattutto psicologico. Per la prima volta, infatti, al pubblico di massa viene mostrato nero su bianco l’appagamento della tortura, rendendolo il vero e proprio fulcro della pellicola, il momento che lo spettatore attende di più, così come, d’altronde, in un porno si attendono le scene di sesso. Ed è proprio il loro essere messe in scena senza pudore che rendo tali scene interessanti e degne di essere guardate, esattamente come le scene violente di Hostel et similia. Torture Porn quindi. 
Caratteristiche di questo neo-generi erano già riscontrabili in Saw di James Wan, uscito due anni prima del film di Roth, che tuttavia manteneva più le atmosfere del thriller-crime alla Seven, puntando meno sulla violenza, quanto più sull’elemento mistery. Una cosa, questa, sempre più abbandonata nel corso dei capitoli della saga, meritandosi, qui sì, la qualifica di torture porn, probabilmente grazie all’influenza di Hostel

Tuttavia, Eli Roth si era già fatto notare. Nel 2001 girò il suo Cabin Fever, film particolarmente originale dal punto di vista del soggetto, che si ispirava ai classici slasher anni ’80, rimuovendovi però l’elemento che più li caratterizzava, ovvero il serial killer. Grazie al successo della pellicola, Quentin Tarantino prende sotto la propria ala protettiva il giovane regista di Newton, offrendosi di produrgli la sua seconda opera, mostrandosi profondamente interessato all’idea di base di Roth, ovvero quella di un film ispirato ad un sito internet illegale taiwanese che offriva delle “murder vacations” in cambio di soldi.
E così, il 17 settembre del 2005 il film viene presentato al Toronto Film Festival, provocando effetti particolarmente drastici per alcuni spettatori in sala, con ambulanze fuori dal cinema e posti vuoti lasciati da coloro il quale stomaco non era riuscito a reggere ulteriormente alle scene più truculente. 

Una reazione probabilmente non dovuta soltanto alla violenza puramente grafica delle scene in questione, quanto più alla sofferenza provocata dalle torture, all’assistere a dei soggetti inermi ed incapaci di reagire che subiscono ogni genere di sevizie. E vedere questo come uno strumento di intrattenimento, sebbene sempre nel limite della finzione, porta lo spettatore a considerarsi, in qualche modo, complice delle azioni che passano sullo schermo, portandolo a reazioni di disgusto e forse di vergogna. 
Per quando riguarda la pellicola in sé, Eli Roth probabilmente compie un leggero passo indietro rispetto alla sua opera prima, decidendo di rendere quasi assente qualsiasi tipo di critica sociale che in un certo senso era presente in maniera pungente in Cabin Fever, oltre che di elementi ironici di black humour che un po’ insaporivano il film 2002, rendendolo ulteriormente interessante. Ma questo non era sicuramente lo scopo del regista per questo suo secondo lavoro. Quando si vuole fare torture porn è indubbio che ogni elemento secondario venga messo da parte in favore di una valorizzazione dell’aspetto cruento; è quasi fisiologico in questo sottogenere, e ciò non toglie che, d’altronde, la mano di Roth sia sempre valida, figlia del cinema di genere horror, in particolare di quello italiano. 

Un aspetto sicuramente da non sottovalutare è come tale violenza venga posizionata nel corso della durata del film, e come questa ne detti i suoi ritmi. Dopo l’esplosione delle saghe di Saw e Final Destination lo splatter venne totalmente decontestualizzato dalla sua origine horror, abbassandolo al livello di mero intrattenimento. Di conseguenza il gore non diventa più un aspetto per il quale spaventarci ma un mezzo col quale divertirci. Con Hostel, tuttavia, non siamo ancora entrati in questa fase. Roth ha la brillante idea di fare leva sull’aspetto psicologico precedentemente accennato, contrapposto ad un elemento splatter sì marcato, ma non eccessivamente da farlo ricadere nel risibile. Tutto è equilibrato, ed inserito in un’atmosfera estremamente marcia, lugubre e umida, che un va a contestualizzare tutte quelle sensazioni che lo spettatore si porta dentro durante la visione. 
È questa mescolanza di elementi nei quali sicuramente va riscontrato il motivo del suo successo. Nessun film prima d’ora aveva infranto così decisamente la barriera che divide il cinema di massa da quello di nicchia, e questo porterà il pubblico a concentrarsi su ulteriori film di questo filone, arrivando anche a pellicole migliori di questo capostipite, come il favoloso Martyrs di Pascal Laugier che porterà definitivamente in auge l’horror francese.

Chissà come sarebbe andata senza Hostel…

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