giovedì 28 novembre 2019

Gli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore (Parte Prima) - Re-Animator sviscerato

ATTENZIONE: Questo articolo è il settimo della serie ed il primo del capitolo dedicato agli altri innominabili esperimenti di Herbert West, rianimatore, consigliamo la lettura dei precedenti articoli (che potete trovare qui) per una comprensione ottimale del testo. Potete leggere qui la precedente parte.


Capitolo Quarto, Paragrafo Primo
Trascrizione dei risultati

Il successo raggiunto da un budget così ristretto di Re-animator diede inizio, com'è prevedibile, ad «un piccolo filone esplicitamente tratto dalle opere di Lovecraft (A. Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, Profondo Rosso, Roma 2014, p. 36), nel panorama cinematografico del New Horror americano, in cui spesso tornerà lo zampino di Gordon, Yuzna o di entrambi (vedendo pure il loro ricongiungimento con altri addetti ai lavori della prima pellicola), e che andrà a formare una vera e propria “seconda wave” dell'imperituro corteggiamento che non avrebbe potuto non sussistere tra la settima arte e l'opus dell scrittore di Providence: fece per la prima volta timidamente incrociare le loro strade,
«negli anni '60, la AIP [American International Pictures], prima con La città dei mostri (1963, di Roger Corman), propaggine poeiana solo nominale [il titolo originale è The Haunted Palace, dall'omonimo poema di Poe], che in realtà mescola elementi da Il caso di Charles Dexter Ward e La maschera di Innsmouth, poi con un paio di malriusciti tentativi di dar vita ad un filone parallelo diretti dallo scenografo Daniel Haller; ma né La morte dall'occhio di cristallo (1963, da Il colore venuto dallo spazio) e La vergine di Dunwich (1970, da L'orrore di Dunwich) riescono ad evocare in maniera convincente la cosmologia maligna lovecraftiana: il primo si riallaccia senza verve ai clichè cormaniani, il secondo si concede moleste divagazioni in omaggio alla moda satanica corrente, come la sequenza dell'offerta sacrificale di Sanda Dee» (R. Curti, Demoni e dei. Dio, il diavolo, la religione nel cinema horror americano, cit., p. 66).
Riguardo a cosa significhi veramente “evocare in maniera convincente” il contenuto delle opere di Lovecraft ci occuperemo alla fine, ma per adesso basti sapere che dopo questo gruppo di pellicole, a cui vanno aggiunte La porta sbarrata (1967; The Shuttered Room) e Black Horror - Le messe nere (1968; Curse of the Crimson Altar), la scintilla si spense e per tre lustri non ve ne furono ulteriori adattamenti nominali. 
Con l'uscita nelle sale di Re-animator, però, le cose sono destinate a cambiare per sempre e,
«approfittando di un congiunturale vantaggio del dollaro sulla lira, Band acquista gli studi romani di Dino de Laurentis e trasferisce in Italia tutta la sua produzione. L'idea è di continuare con la serie B affiancandovi però pellicole economicamente più impegnative dirette da Gordon, che si mette al lavoro su Terrore dall'ignoto (From Beyond, 1986) con un budget stimato di 4,5 milioni di dollari». (A. Farina, Sparate sul regista! Personaggi e storie del cinema di exploitation, cit., p. 140)
La pellicola, più avanti nel testo citato criticatissima dallo stesso Alberto Farina, rientra, per nostra fortuna, almeno nelle grazie del solito buongusto di Worland, che la definisce «un valido seguito» (p. 108) di Re-animator; Gordon, Yuzna (sempre alla produzione) e Paoli, stavolta tutti e tre sceneggiatori accreditati, compressero nei cinque minuti introduttivi l'omonima storia di Lovecraft Dall'altrove (1920; From Beyond), inquieta testimonianza dell'immancabile narratore senza nome allo spaventoso apogeo delle ricerche del mad doctor Crawford Tillinghast, dedite ad ampliare, attraverso un macchinario che adopera (tra gli altri oscuri sistemi) i raggi ultravioletti, la portata sensoriale degli organi umani, permettendo a chi si trovi nel suo raggio d'azione di percepire il “beyond”, “l'Oltre”, insomma (più di) una dimensione parallela gremita, fra le altre indescrivibili oscenità, di «mostruosità color inchiostro, tremanti, che pulsavano flaccide» (H. P. Lovecraft, Dall'altrove, in Tutti i racconti 1897 – 1922, G. Lippi (a cura di), cit., p. 155) ostili a chiunque si muova in loro presenza e, sebbene di norma  invisibili e intangibili, (co)esistenti tutto intorno a noi sempre e dovunque: nel film, Jeffery Combs è Crawford Tillinghast, che però, in un radicale cambio di ruolo rispetto tanto alla storia di Lovecraft che a Re-animator, diviene la vittima della situazione e solo il pavido assistente del vero mad doctor Edward Pretorius (palese citazione al personaggio di Whale), interpretato da Ted Sorel, che rimane subito ucciso dalle creature. 
Crawford Tillinghast
Il debito con la storia dello scrittore di Providence, che mirava a tradurre su carta «la forte impressione di una sospensione delle leggi di natura o la presenza di mondi o forze invisibili a portata di mano» (H. P. Lovecraft, Lettere sull'imaginario, in Teoria dell'orrore. Tutti gli scritti critici, G. de Turris (a cura di), cit., p. 468) a lui tanto più cara se prodotta sulla base di solide premesse (fanta)scientifiche, si limita al prologo, esaurendosi con i titoli di testa che scorrono su un'appena visibile massa brulicante di creature vermiformi, accompagnati dall'agghiacciante soundtrack di Richard Band. Il resto della pellicola vede, infatti, il ritorno di Tillinghast, ora internato come un folle assassino, nella magione dov'era avvenuto l'esperimento in compagnia della dottoressa Katherin MacMichaels, una non più vittimizzata Barbara Crampton, che dovrebbe provare o meno la validità delle deliranti affermazioni del paziente; tuttavia, la reiterazione dell'esperimento condurrà ad una brama di appetiti sessuali, sempre più simili a quelli sadomasochisti che motivavano le ricerche di Pretorius, la stessa psichiatra, la cui repressione di matrice puritana (propria del New England lovecraftiano) verrà stravolta dalla geniale intuizione degli autori per cui quando «le onde emesse dalla macchina risvegliano in noi mille sensi addormentati» (Dall'altrove, p. 153) tra i vari stimoli percettivi vengono coerentemente potenziati pure quelli sessuali.
Questo “incesto” tra dimensioni aliene e la ricerca del sapere proibito, entrambe progeniture lovecraftiane, insieme con una pericolosa estensione delle facoltà sensoriali legate al sesso, avrebbe dato alla luce, nel medesimo anno, pure a quel capolavoro della letteratura horror che è Schiavi dell'inferno (1986; The Hellbound Heart) di Clive Barker; e, tuttavia, la suddetta piega diegetica di From Beyond parrebbe ancora più invisa del cunnilingus di Re-animator ai puristi di Lovecraft e considerata «pretestuosa nella ricerca di occasioni per consentire alla Crampton di superare la sua performance bondage del film precedente» (Farina, p. 142), mentre Hellraiser – Non ci sono limiti (1987; Hellraiser), pur ugualmente parlando (lo dice chiaramente lo stesso Barker) «del desiderio, della gente che desidera ciò che non può ottenere e delle conseguenze di quel desiderio quando viene spinto oltre ogni limite» (Tentori, p. 148), non riceve certo lo stesso trattamento, eppure a ragione Antonio Tentori cita Hellraiser tra i film “ispirati” all'opera di Lovecraft. 
Se a fare, giustamente o meno, la differenza in sede di giudizio debba essere il fatto che From Beyond sia una diretta trasposizione di un racconto di Lovecraft, piuttosto che un semplice derivato del suo lavoro, sarà argomento di discussione dopo; ma per adesso ci sentiamo di poter dire tranquillamente che il risvolto sessuale della pellicola non è certo da ricondursi alla mera ricerca di un assenso voyeuristico, visto che stavolta  non vi sono nudi integrali, o di «puntate nel S&M senza capo né coda» (Curti – La Selva, p. 486) di cui parla Curti, visto che tali “puntate” sono in realtà costituite da una singola scena in cui la Crampton, all'apice della propria follia sessuale, indossa un completo in lattice solo per poi finire, qui sì nel più classico dei topoi lovecraftiani, ritenuta mentalmente instabile proprio a causa del modo in cui è vestita, una volta di ritorno al manicomio per cui lavorava. Piuttosto, ancora una volta la natura esplicita della pellicola deriva da una precisa scelta autoriale che manipola consciamente la materia d'origine: infatti, riferendosi alla parte del racconto in cui il Tillinghast lovecraftiano asseriva che tra gli organi sensoriali atrofizzati stimolati dalla macchina vi è pure la ghiandola pineale, Stuart Gordon racconta: «anche per questo film ho fatto delle ricerche e ho scoperto che la ghiandola pineale controlla gli stimoli sessuali. Così ho giocato anche visivamente con questo significato rappresentando la ghiandola che compare in mezzo alla fronte, eretta come un piccolo pene» (P. Zelati, American Nightmares. Conversazioni con i maestri del New Horror americano, cit., p. 513).
Questo non è certo l'unico aspetto della pellicola calcato dalla profonda impronta autoriale del regista, ormai riconoscibile per associazione con la tecnica che sottendeva pure Re-animator: anzitutto, anche qui vi è un sapiente utilizzo degli spazi ristretti e quasi sempre interni, essendo il film girato su dei set a Roma e, tuttavia, convincente nella menzogna con cui ci illude di essere ambientato nel fosco New England lovecraftiano, attraverso gli inquietanti shot notturni (e perfino una credibile carrellata in avvicinamento) del modellino, ripreso in falsa propsettiva, dell'”imponente” villa coloniale di Pretorius; quando l'azione si sposta nel laboratorio nell'attico e al cospetto della macchina dall'aspetto cyberpunk ideato da Doublin, la notevole fotografia di Ahlberg dissolve a poco a poco le ombre, riversandovi l'ultraterrena luce (ultra)violetta che, modellando i corpi e gli oggetti e assecondata da ampi movimenti di macchina nello spazio circostante, come il riconoscibilissimo e rapido pull back shot che mette a nudo il “nuovo look” di Pretorius, crea, a dispetto degli ambienti limitati, l'illusione di una ben più estesa profondità di campo, che sola potrebbe tradurre in immagini un baratro apertosi su di un'altra dimensione. Le ripugnanti mutazioni a cui Pretorius, in un tripudio di escrescenze ed escrezioni, è sottoposto una volta morto e “passato oltre” («Not died. Just passed. Beyond»: gli autori considerano questo criptico essere non una reincarnazione di Pretorius, bensì la metamorfosi di una creatura extradimensionale che, divorandolo, ne avrebbe grottescamente replicato forma e pensieri), rientrano tra gli effetti realizzati magistralmente e spediti faticosamente in Italia dal medesimo team di Re-animator, con l'aggiunta del noto effettista Mark Shostrom, e Gordon si trova ancora una volta perfettamente a proprio agio nel delicato compito di mostrare e nascondere nelle giuste misure gli effetti speciali: i primi piani di Pretorius, con cui crea l'illusione che la sua testa si protenda in modo innaturale da un corpo mostruoso, sono gli stessi che facevano da cornice alla libidinosa testa del professor Hill, e addirittura Shostrom era profondamente contrario al fatto che in queste inquadrature Gordon usasse la testa vera di Sorel piuttosto che il proprio animatrone. 
Ritornano pure il famigerato pearching sulle spalle degli attori per creare la suspance, come quando nel prologo un'attempata vicina si introduce nella magione per cercare il proprio cagnolino, e l'impavido e irriverente insistere della macchina da presa sui dettagli più disgustosi, come la scena in cui un ormai mutato Jeffrey Combs viene spinto dalla propria ghiandola pineale, sovrastimolata e sovrasviluppata, a divorare il cervello di una dottoressa succhiandolo attraverso la cavità oculare: alla MPAA (Motion Pictures Association of America) a Gordon venne pesantemente rinfacciato il fatto che, invece di tagliare la scena, zoommasse sempre più su questa ennesima istituzionalmente inaccettabile efferatezza (il regsta racconta «I felt like a little kid in the principle office», “Mi sentivo come un bambino nell'ufficio del preside”) e vede ancora nei pesanti tagli inflitti a From Beyond una rivalsa della censura che mal aveva digerito il successo unrated di Re-animator.
A onor del vero, stavolta la regia di Gordon non basta a sopperire totalmente al budget “limitato”, vista la sceneggiatura chiaramente molto più ambiziosa di Re-animator: gli stessi asettici set dell'ospedale vengono qui riutilizzati per il manicomio e, sebbene Gordon indugi il meno possibile sulle celle dotate di semplici porte piuttosto che di sbarre, l'artificio è palpabile. E non è solo qui che il leitomitv lovecraftiano della follia viene involontariamente meno: la poca presenza di “orrori cosmici”, spesso imputata alle pellicole di Gordon (e agli adattamenti cinematografici dello scrittore più in generale), è qui dovuta, oltre che ad un onesto e apprezzabile (o meno) ampliamento e diversificazione delle tematiche, pure all'impossibilità economica di girare una scena in cui si sarebbe dovuto assistere all'apparzione di un templio cosmico, che nel racconto originale accompagnava l'ingresso nell'altra dimensione; così, volendo almeno una volta dar pienamente ragione ai puristi di Lovecraft, la ricerca di tali atmosfere viene totalmente meno nell'impacciato finale, che ripropone fino all'esaurimento gli effetti speciali rimasti, come avevamo detto tanto più funzionanti perchè sottoposti all'operazione di setaccio che ogni buon regista horror dovrebbe compiere seguendo il leggendario esempio di Karl Freund che, nel capolavoro La mummia (1932; The Mummy), mostrò solo per una manciata di secondi il trucco applicato in ben otto ore su Karloff da Pierce: invece, nelle ultimissime sequenze di From Beyond assistiamo ad una sovrabbondanza e conseguente perdita di forza degli effetti speciali (già di per sè probabilmente “alla frutta”), che finiscono per suscitare un effetto involontariamente ridicolo e contrapposto a quella forte serietà generale, volutamente ricercata dal regista, che persino nelle scene più spinte ed esplicite oppone concettuale From Beyond a Re-animator, una differenza tra i due talmente netta da riscontrarsi in egual misura forse solamente nell'opposizione estetica che generano gli onnipresenti colori viola, nel primo, e verde, nel secondo. Il tutto risulta ancora meno convincente quando Barbara Crampton, ultima supersite di questo meno notevole Grand Guignol finale, ride istericamente in un finale primo piano, ormai completamente folle: stavolta l'intento di riportare sullo schermo un elemento lovecraftiano della discesa del protagonista nella follia è  volutamente ricercato, e non posto dalla critica come un odioso fardello sulle spalle di quell'autore che volesse produrre un personale adattamento; ma il “povero” ammasso di lattice e gelatina finale forse non potrebbe giustificare la follia della donna, e certamente non sostituirsi, con la sua palese e pasticciata tangibilità, agli orrori cosmici lovecraftiani, comunque fino a quel momento discretamente rappresentati nelle creature vermiformi e pseudo-marine che abitano l'Oltre, nate sotto la guida di Buechler, Doublin e John Naulin. Insomma, è abbastanza chiaro che le maggiori necessità economiche sono il solo vero ostacolo che impedisca a From Beyond di raggiungere pienamente la stessa validità produttiva e artistica di Re-animator.
Passano gli anni, e dopo un ennesimo e dimenticabile adattamento de Il colore venuto dallo spazio (1927; The Colour Out of Space), La fattoria maledetta (1987; The Farm) prodotto da Ovidio Assonitis, e dopo una strana ma interessante trasposizione, in uno degli episodi del film antologico Pulse Pounders [1988; Battiti accellarati] diretto addirittura da Charles Band e interpretato da Combs e dalla Crampton, di un “sogno” che Lovecraft aveva riportato in una propria missiva ed ormai pubblicato e conosciuto come Il prete malvagio (1933; The Evil Clergyman), seguono altre due dirette trasposizioni delle opere dello scrittore per cui vorremmo spendere, anche se non portano la firma di Gordon o Yuzna, due parole in più: La creatura (1988; The Unnamable) e The Resurrected [1991; Il resuscitato].

La creatura, scritto e diretto da Jean-Paul Oulette e considerato all'unanimità «l'essenza peggiore di una versione cinematografica» (R. Rosati, Lovecraft e il cinema, tra forzature e misinterpretazioni, in A. Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, cit., p. 218) che «non sviluppa in maniera soddisfacente l'intuizione alla base dello smilzo racconto d'origine» (Curti, p. 67) cosicchè «quello che resta è più che altro horror di routine» (Tentori, p. 74), più che per tali rapporti con l'effettivamente inadattabile (per ovvi motivi, ma rimandiamo nuovamente a dopo queste riflessioni) racconto-saggio L'innominabile (1923; The Unnamable), a noi adesso interessa per come si ponga cinematograficamente all'opposto di Re-animator: pur partendo da un budget similmente limitato ($350.000) e riproponendo le solite ambientazioni prevalentemente in interni di due dei più ricorrenti luoghi della topografia lovecraftiana, la Miskatonic University ed un'infestata casa coloniale del New England, se la prima parte della pellicola, ambientata in una vera location universitaria (o che sembra efficacemente tale), diverte nel riproporre il topo di biblioteca e studioso dell'occulto Randolph Carter, alter ego letterario dello stesso Lovecraft, in una versione anni '80 molto cinica e a metà tra l'Herbert West di Re-animator e lo Sherlock Holmes di Piramide di paura (1985; Young Sherlock Holmes), la seconda metà si riduce ad un tedioso slasher, solo ogni tanto interrotto dalle sortite di Carter, ambientandosi in una magione che, all'esatto contrario del film di Stuart Gordon, la regia poco articolata e basata su continui campi medi e le stanze e i corridoi fin troppo illuminati rivelano quale set posticcio e decisamente poco inquietante; per non parlare del design e della realizzazione della “Creatura” del titolo, “innominabile” per ben altri motivi rispetto a quelli che doveva aver avuto in mente Lovecraft. Il film ha avuto anche un sequel leggermente «superiore al primo capitolo» (p. 129) (più che altro economicamente), The Unnamable 2: The statement of Randolph Carter [1993; La Creatura 2: La dichiarazione di Randolph Carter], scritto e diretto sempre da Oulette.
Totalmente all'opposto, The Resurrected, nuovo e più fedele adattamento de Il caso di Charles Dexter Ward (1927; The Case of Charles Dexter Ward), è considerato «una delle migliori riduzioni cinematografiche tratte dall'opera di HPL» (p. 42) e addirittura la migliore di quella che abbiamo definito “seconda wave” (Curti, p 66), a discapito degli svariati problemi di produzione, delle gravissime condizioni di salute del regista e della sfortunata destinazione al solo mercato dell'home video; e infatti, il regista, pure sceneggiatore insieme a Brent Friedman, Dan O'Bannon, già stato autore del più volte indirettamente citato Il ritorno dei morti viventi (1984; Return of the Living Dead) e delle sceneggiature di pellicole come Dark Star (1975; Id) e Alien (1979; Id) in cui confluì tutta la sua passione per il sci-fi horror dello scrittore di Providence, ha prodotto una semplice ma ingegnosa resa in immagini proprio di quel concetto di “orrore innominabile”, che funzionerebbe tanto sulla carta quanto poco sulla pellicola, attraverso un difficile ma riuscito esercizio stilistico: le scene ambientate nei cunicoli nascosti sotto le campagne di Providence dove trafficava  con la negromanzia Joseph Curwen, stregone del Settecento “resuscitato” e sostituitosi al pronipote Charles Ward (Chris Sarandon in uno stupefacente doppio ruolo), hanno quale unica fonte di illuminazione quella naturale delle torce dei protagonisti: una scelta estetica kubrickiana che, invasiva e occlusiva se operata da un regista meno sagace, regala attimi di puro terrore in cui le forme di uomini e mostri  dalle «anormalità nelle proporzioni [che] superavano ogni descrizione» (H.P. Lovecraft, Il caso di Charles Dexter Ward, in Tutti i racconti 1827 – 1930, G. Lippi (a cura di), Mondadori, Milano 2013, p. 111) realizzati da Todd Masters emergono, come in un Caravaggio, dal fondale completamente buio e dall'impenetrabile oscurità di set estesi e curatissimi, eppure che, nell'ennesima prova del come gli oggetti di scena vengano tanto più valorizzati quando la regia non ne è dipendente, O'Bannon non ha quasi bisogno di mostrare; l'oscurità stessa non corre  il rischio di risultare piatta o uniforme, visto che, come notano giustamente alcuni dei principali artefici del film, le vecchie pellicole analogiche permettono anche al buio di restituire una certa profondità di campo. Il resto del film, girato a Vancouver sotto un cielo costantemente uggioso, alterna una fotografia fredda e tendente al naturale per gli esterni a tagli di luce fortemente espressionisti negli interni, e inquadrature sghembe a lenti movimenti di macchina (il goticissimo carrello iniziale che introduce nel manicomio Waite fonde tutte queste tecniche estetiche insieme), e non si dimostra da meno nel restituire fedelmente l'ambientazione, che alternava presente e passato, del racconto originale, vista pure la sua natura da detective story gotica perfettamente adattabile sul grande schermo attraverso un budget quantomeno discreto ($5.000.000). Quello di cui difetta la pellicola è solo il «troppo sesso» (Rosati, p. 319) che Riccardo Rosati inesplicabilmente sembra vedere in un film che ne è, molto semplicemente, assente, come pure stavolta sono totalmente assenti elementi grotteschi o comici. L'ottimo soundtrack, infine, porta anche stavolta la firma di Richard Band.
CONTINUA...
Articolo di Donato Martiello, estratto dalla sua tesi "Re-animator: dal Frankenstein di Mary Shelley al moderno cinema lovecraftiano" per il Corso di Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (DAMS) - Cinema, Televisione e Nuovi media di Roma, anno accademico 2018/2019, relato dal professor Christian Uva.

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